Nel nome di Luciana Alpi: la promessa di non fermarsi

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Luciana Alpi

Gli amici più stretti, addolorati, i vertici della Federazione nazionale della stampa, dirigenti e giornalisti Rai – non la presidente Monica Maggioni (pare che dove c’è il Dg Orfeo non ci sia lei) – si sono ritrovati a Roma nella chiesa di Santa Chiara per l’ultimo saluto a Luciana Alpi, mamma di Ilaria, la giornalista uccisa in Somalia il 20 marzo 1994, insieme al suo operatore Miran Hrovatin.

Non c’era lo Stato, a quel funerale, come avrebbe dovuto. Perché Luciana, madre coraggiosa e testimone di una battaglia di verità, meritava il rispetto e il tributo dello Stato e invece se ne è andata perdendo la sua battaglia, stremata dalla fatica, come l’abbiamo persa tutti noi che teniamo al senso della democrazia.

Già, perché il suo impegno e quello di suo marito Giorgio, scomparso nel 2010, non è stato onorato dalla chiusura definitiva del caso. “Volevano darmi un colpevole”, diceva Luciana a proposito del somalo Hashi Omar Hassan, accusato e poi dichiarato innocente dopo 17 anni di carcere, “ma io non volevo un colpevole, volevo la verità”, spiegando così gli oltre vent’anni di indagini sballate, sufficienti a creare quella distanza minima per allontanare la possibilità di ricostruire i fatti in modo certo e inchiodare i veri responsabili.

Luciana Alpi, dell’innocenza di Hassan, era convinta da sempre tanto che, quando arrivò la condanna per il somalo poi confermata in Cassazione, al telefono ripeteva ai giornalisti una frase: “Povero figlio”. Un’espressione curiosa, se si pensa che era rivolta a colui che era ritenuto l’assassino della sua figlia. Questa madre coraggio, come già accaduto a Carla Verbano, madre di Valerio, ucciso a Roma il 22 settembre 1980 senza che i suoi assassini abbiano mai avuto un nome, si è battuta come una leonessa fino all’ultimo. Ma tanti sono stati i colpi che ha dovuto incassare. L’ultimo era stato la richiesta di archiviazione della procura di Roma per le nuove indagini basate sulle intercettazioni giunte da Firenze nell’aprile scorso e dichiarate due mesi dopo sostanzialmente irrilevanti.

Articolo scritto a quattro mani con Stefania Limiti per Antimafia Duemila

Ilaria Alpi: “Un omicidio al cuore del giornalismo”

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Ci fu depistaggio, lo scrivono i giudici. Non solo non sono stati trovati esecutori materiali e mandati degli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ma chi doveva assicurare giustizia, e onorare la memoria dei due giornalisti del Tg3, ha invece creato un falso colpevole, Hashi Omar Hassan, oggi libero dopo aver scontato 16 anni di carcere in forza di una condanna per omicidio diventa definitiva. Lo hanno fatto per coprire i veri assassini?

Non si sa, ma ci fu certamente un depistaggio delle indagini da parte di uomini dello Stato – anche se non si può applicare la legge che introduce il reato, fortemente voluta da Paolo Bolognesi, approvata solo lo scorso 2 agosto. È certo che sono corrosive le motivazioni con cui la Corte di Appello di Perugia ha stabilito l’innocenza di Hashi, ma solo dopo che una giornalista, Chiara Cazzaniga di “Chi l’ha visto” è andata in Inghilterra a trovare l’accusatore Ahmed Alì Rage, più noto come Gelle, il quale, davanti al suo microfono, ha ritrattato tutto.

Continua a leggere sul Articolo21.info. Articolo scritto con Stefania Limiti

Italia Repubblicana: online le sentenze di Piazza Fontana e il convegno “Nuovi scenari nel trattamento elettronico delle fonti”

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P2: gli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta

Prima sono andati online i documenti della commissione P2 presieduti da Tina Anselmi, poi quelli della strage di Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) e sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Horivanti (20 marzo 1994). Adesso dal sito Fonti Italia Repubblicana stanno per essere rese disponibili le sentenze della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Il progetto verrà presentato il prossimo 4 dicembre presso l’Archivio di Stato di Milano alla quasi vigilia dei 45 anni dalla bomba piazzata nella filiale della Banca nazionale dell’agricultura. Accadrà nel corso del convegno Nuovi scenari nel trattamento elettronico delle fonti.

20 marzo 1994: venivano uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il punto di 19 anni senza giustizia nelle parole di Mariangela Gritta Grainer

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Mariangela Gritta Grainer, ex parlamentare e attuale presidentessa dell’Associazione Ilaria Alpi, scrive un lungo intervento, 20 marzo 1994 – 20 marzo 2013. Ilaria e Miran: 19 anni senza verità e giustizia, lanciando un appello alle istituzioni perché finalmente si faccia luce sul duplice delitto somalo. Accogliendo positivamente l’elezione di Laura Boldrini a presidente della Camera dei Deputati e di Pietro Grasso al Senato (quest’ultimo risponde qui. Boldrini invece ha chiamato Luciana Alpi e Patrizia Hrovatin), ecco alcuni passaggi del testo di Gritta Grainer:

Sono passati 19 anni dalla tragica esecuzione di Mogadiscio: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca. Un’esecuzione su commissione: uccisa, insieme a Miran, perché aveva rintracciato […] un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia […] un crocevia importante per traffici illeciti di ogni tipo che solamente organizzazioni criminali, mafia, ‘ndrangheta e camorra possono gestire (come indagini di procure, dichiarazioni di pentiti e collaboratori di giustizia hanno fatto emergere anche di recente). Organizzazioni criminali che possono crescere ed estendere le loro ramificazioni in tutti i territori e in tutti i mercati perché godono di coperture, silenzi e complicità nei servizi di intelligence, nelle strutture di potere pubbliche e private.

In “Toxic Somalia” […] Paul Moreira documenta gli effetti sulla popolazione dei rifiuti tossici scaricati dall’occidente in terra somala, seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità. L’inchiesta valorizza il lavoro intrapreso dalla giovane inviata del TG3 e dal suo operatore mostrando con efficacia come ne abbia segnato la tragica fine perché gli affari sporchi, l’illegalità potesse e possa continuare. Due i fatti che l’anno appena trascorso ci ha consegnato.

Il processo che vedeva imputato per il reato di calunnia Ahmed Ali Rage detto Jelle (testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi Omar Hassan in carcere da oltre dieci anni dopo la condanna definitiva a 26 anni) si è chiuso con una assoluzione le cui motivazioni sono incredibili (“…appare evidente l’impossibilità di pervenire ad un giudizio di colpevolezza…”). Assoluzione in contumacia avendo di fatto accertato che la testimonianza potrebbe essere falsa mentre un cittadino somalo è in carcere forse innocente e di certo due cittadini italiani, Ilaria e Miran, sono stati assassinati quasi vent’anni fa e ancora non hanno avuto giustizia.

La relazione conclusiva della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie sostiene che il capitano Nicola De Grazia è stato avvelenato (riesumata la salma, “la consulenza del professor Arcudi arriva a una conclusione inequivoca: la morte è la conseguenza di una “causa tossica”). Il capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose il 13 dicembre 1995 mentre si recava a La Spezia per indagini importanti) è stata figura chiave del pool investigativo coordinato dal procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri che indagava sulle “navi dei veleni” […].

“La morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese”, con queste parole si conclude la relazione della commissione. Due fatti che confermano quanto è avvenuto in questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito.

Il video in apertura del post è la versione integrale del documentario Toxic Somalia.

Gianni Flamini e il quinquennio che sconvolse la Repubblica: gli anni dal 1990 al 1994 raccontati nel libro “Lo scambio”

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Lo scambioEntrato a far parte della mia libreria solo oggi, è uscito da poche settimane per i tipi di Nutrimenti il libro Lo scambio – I cinque anni che sconvolsero la Repubblica (1990-1994) scritto dal giornalista Gianni Flamini:

Quello compreso tra il 1990 e il 1994 è un lustro di presagi, un quinquennium horribile che sconvolge la vita della Repubblica trasformandola nel prologo fatale di ciò che verrà. In cinque anni si butta via tutto senza buttare niente, mentre è in corso una storica trasmigrazione di Cosa Nostra dai territori della politica democristiana verso altri lidi che suggella uno storico scambio nell’area grigia delle collusioni fra politica e criminalità organizzata. Cosa Nostra non procede alla cieca, abbagliata da nuovissime e inedite opportunità come quelle che sembra offrire Forza Italia. La discesa di Silvio Berlusconi nell’agone politico colma il vuoto venutosi a creare per l’azzeramento del sistema che si reggeva sulla Democrazia cristiana e sul Partito socialista, caduti sotto la scure della corruzione e di un’autorità giudiziaria che affronta il momento con una determinazione inedita. Intanto omicidi di personalità, terrorismo e stragi di mafia imperversano prima in Sicilia e poi sul continente. Sono questi, per le cronache giornalistiche, gli anni dello scandalo Gladio, di Tangentopoli e Mani pulite, degli attentati a Falcone e Borsellino, dei delitti della Uno bianca, della bomba all’Accademia dei Georgofili, della tragedia della Moby Prince, della cattura di Totò Riina. In questo marasma generale si muove a proprio agio la loggia P2, in grande attività per piazzare il suo programma di riforma reazionaria dello Stato che ha chiamato Piano di Rinascita Democratica. Licio Gelli confida, per la realizzazione del suo disegno, proprio in Berlusconi, affiliato alla loggia, che diventa capo del governo nel 1994. Prende così il via una tempestosa stagione politica che si arenerà soltanto nel novembre del 2011.

Se n’è parlato su GrParlamento nella puntata della trasmissione Pagine in frequenza dello scorso 20 maggio, condotta da Alessandro Forlani. Titolo della puntata è stato Gli apprendisti stregoni del terrorismo made in Italy e insieme a Flamini in onda c’era Vito Bruschini, autore del libro La strage, il romanzo di piazza Fontana (Newton Compton).

“A Darkness Visible: Afghanistan”: un’opera multimediale per raccontare storie oltre la guerra

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Based on 14 trips to Afghanistan between 1994 and 2010, A Darkness Visible: Afghanistan is the work of photojournalist Seamus Murphy. His work chronicles a people caught time and again in political turmoil, struggling to find their way. See the project at http://mediastorm.com/publication/a-darkness-visible-afghanistan

A Darkness Visible: Afghanistan è un’opera multimediale curata da Seamus Murphy, autore delle fotografie e dei video. Ecco in che termini si presenta:

I non addetti ai lavori vedono l’Afghanistan come un problema che ha bisogno di una soluzione: una regione in guerra che richiede altre truppe o altre elezioni. Ma osservando quel Paese da quest’unica visuale si perdono di vista le persone che lì vivono e il loro desiderio di autodeterminazione. Dall’invasione sovietica alla resistenza dei mujaheddin fino ai talebani e all’occupazione americana, in “A Darkness Visible” vengono esaminati trent’anni di storia afghana. È il vissuto di cittadini le cui vite vengono giocate all’ombra delle grandi superpotenze. Sono vicende di violenza, ma anche d’amore e d’avventura [raccolte in] 14 viaggi in Afghanistan fra il 1994 e il 2010.

(Via Verve Photo – The new breed of documentary photographers)

Storia di Angelo, sopravvissuto a Mauthausen, che tornato dal lager vide le cariche scelbiane e seppe comunque sperare

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Domani di Maurizio ChiericiQuando ancora le feste laiche di questa Repubblica avevano un senso e sembrava fuori dalla grazia divina fare revisionismo cialtrone approfittando di uno spaesamento politico sempre più dilangante, ricordo un 25 aprile di quanto ero una ragazzina. Si era appena scavalcata la metà degli anni Ottanta, quelli dell’edonismo e del riflusso, e andavo al seguito dei miei genitori nel paese natale di mia madre, ai piedi delle Dolomiti.

Lì, nella casa accanto a quella che occupavamo, c’era una pensione un po’ improvvisata. Un’anziana rimasta vedova del marito e di un tenore di vita che non le apparteneva più, dava camere a gente “perbene” (il “perbene” era affidato al suo insindacabile giudizio) che veniva dalla pianura. Tutti gli anni, per il 25 aprile e poi per ferragosto, arrivava una coppia ormai in là con gli anni. Lui, Angelo, maestro elementare in pensione di Venezia, e lei, Clara, professoressa di lettere alle superiori altrettanto dimissionatasi dal servizio, facevano poco caso all’impianto elettrico non a norma. E nemmeno si formalizzavano per i muri qua e là scrostati o per il bagno in corridoio.

Buon 25 aprile - Foto di AndrecoInsomma, le condizioni della pensione prealpina non erano un problema. Cercavano solo un po’ di quiete mentale. E di frescura, quando era estate. Ma cercavano anche qualcuno che li ascoltasse. Così, quando mi incrociavano in giro per il paese, mi chiamavano e sapevano di aver gioco facile con me, che volentieri avrei fatto un salto nel decennio precedente, così “spesso” rispetto alla vuota effervescenza degli anni che hanno caratterizzato la mia adolescenza.

Lui, l’ex maestro, il primo 25 aprile che festeggiò – mi raccontò esattamente 25 anni fa – fu quello del 1948, l’anno in cui l’Italia, fresca ancora di Liberazione e attraversata da grandi cambiamenti istituzionali, conobbe per la prima volta la violenza scelbiana dell’ordine pubblico. E ne restò scioccata. Ancor più scioccato ne restò Angelo, quando lesse delle cariche in piazzale Loreto, a Milano, al termine del corteo antifascista. A sconvolgere Angelo fu l’abiura non tanto di una promessa di pace pronunciata appena tre anni prima, ma il timore che tornasse quanto aveva vissuto fino al maggio 1945, all’interno del lager di Mauthausen.
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Moby Prince: i vent’anni della vergogna raccontati da Luigi Grimaldi

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Traghetto Moby PrinceI vent’anni di vergogna dalla strage della Moby Prince sono raccontati qui da Luigi Grimaldi, sul blog Cado in piedi. Una vergogna che passa da queste affermazioni, su cui un indignato Grimaldi apre il suo post:

Per raccontare la tragedia del Moby Prince del 10 aprile ’91, una strage negata, partiremo dalla fine: dal più recente atto giudiziario inerente la vicende e risalente solo a qualche mese fa. L’ultimo, dopo 20 anni di inutili indagini e processi. Partiremo cioè da una sconcertante osservazione conclusiva, messa nero su bianco, dai magistrati livornesi che hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’inchiesta-bis: “La ricostruzione della dinamica dell’evento può apparire – come si è più volte sottolineato – banale nella sua semplicità, e dunque non accettabile emotivamente, prima che razionalmente, sopratutto in considerazione dell’enorme portata delle conseguenze che ne sono derivate in termini di perdita di vite umane”.

140 morti, nessun colpevole, niente misteri e traffici di armi, niente operazioni segrete relative alla appena terminata guerra del Golfo; semplicemente nebbia combinata con errori nella condotta di navigazione del traghetto. La ricostruzione della semplice “banalità” del disastro è stata resa possibile solo grazie all’esistenza di un elemento senza precedenti: un particolare banco di nebbia.

Continua qui. E per approfondire questa e altre vicende, si provi a leggere 1994 – L’anno che ha cambiato l’Italia, uscito l’anno scorso per i tipi di Chiarelettere e scritto da Grimaldi insieme a Luciano Scalettari.