Il boss: Luciano Liggio, da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità

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Il boss

Dal 1° febbraio 2018 è in libreria il libro Il Boss – Luciano Liggio: da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, scritto a quattro mani con Giuliano Turone (prefazione di Carlo Lucarelli). Pubblicato da Castelvecchi, racconta una storia di mafia al nord che va molto indietro nel tempo. E che dimostra due affermazioni: da un lato, le infiltrazioni della criminalità organizzata sono realtà ormai superata perché attuale già oltre quarant’anni fa; dall’altro, le trattative tra mafia e Stato, in Italia, sono state molteplici e la latitanza di Liggio può essere una di quelle. Ecco i contenuti della quarta di copertina:

Il 1974 fu un anno senza ritorno. Un anno in cui non fu più possibile sostenere che la mafia a Milano non esisteva. Non solo esisteva, ma si era pienamente insediata. L’indagine che, partendo dai sequestri di Pietro Torielli e Luigi Rossi di Montelera, condusse alla cattura di Luciano Liggio, la “primula rossa di Corleone”, dimostrò anche altro: l’esistenza di stretti legami con ambienti eversivi e golpisti, la costruzione di solide imprese nell’economia legale e lunghissime latitanze dorate che non avrebbero potuto essere tali senza qualche copertura. Questa è una storia in cui il confine tra crimine e mondo legale può finire per confondersi, fino a non essere più visibile. Rispetto a quanto raccontano gli atti giudiziari, spesso inediti, in questo testo ci sono i ricordi in prima persona di un magistrato che le indagini non solo le ha condotte, ma le ha vissute.

Davide Cervia: il ministero della Difesa condannato per aver negato il diritto alla verità

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Davide Cervia

Ancora una volta, dobbiamo tornare molto indietro nel tempo per raccontare la storia di Davide Cervia. Era il 12 settembre 1990, intorno alle 17, quando l’uomo uscì dal lavoro presso la Enertecnel Sud di Ariccia, provincia di Roma salutò un collega, e si mise in macchina, una Volkswagen Golf bianca, per scomparire per sempre.

A casa, una villetta alla periferia di Velletri, ad attenderlo c’erano la moglie, Marisa Gentile, e i due figli, Erika, 6 anni, e Daniele, 4. Soprattutto Erika lo aspettava con particolare ansia perché proprio quel giorno aveva imparato ad andare in bicicletta senza le rotelle e non vedeva l’ora di dimostrarlo a suo padre.

Ma di Davide Cervia nessuna traccia. Non negli ospedali, a casa di amici e colleghi e nemmeno altrove. E allora, fin dal giorno successivo, dopo l’arrivo di una telefonata muta verso l’ora di pranzo e un’altra, identica, il 14 settembre 1990, ecco che iniziarono a essere visti sotto un’altra luce episodi verificatisi nei mesi precedenti. Non vere e proprie intimidazioni. Ma Davide Cervia, ex sergente della marina militare, aveva manifestato l’intenzione di acquistare un fucile adducendo ragioni di sicurezza personale e familiare, dato che abitavano in una zona di campagna isolata.
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Ordine Nuovo e la sua riorganizzazione: come si arrivò alla strage di Piazza della Loggia

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Strage di piazza della Loggia

Parliamo ancora di stragi perché da ieri, martedì 19 dicembre, Maurizio Tramonte è in carcere a Rebibbia. Da Lisbona è giunto a Roma poco dopo le 13 e si è conclusa così la parentesi portoghese dell’ordinovista e fonte dei servizi segreti condannato definitivamente all’ergastolo alla fine del giugno scorso per la strage di Piazza della Loggia. È quella provocata a Brescia il 28 maggio 1974 da un ordigno collocato in un cestino per i rifiuti sotto un porticato e deflagrato durante la manifestazione indetta dal Comitato Permanente Antifascista e dalle Segreterie Provinciali della Cgil, Cisl e Uil.

Ma perché Tramonte, fuggito all’estero e arrestato a Fatima qualche giorno dopo il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Domenico Carcano, è stato giudicato colpevole della strage che provocò otto morti e 102 feriti? Se Carlo Maria Maggi, il medico il 82 anni che fu l’ispettore veneto di Ordine nuovo, è stato riconosciuto come l’ideatore della strage, anche a carico della ex fonte Tritone sono emersi elementi che, in primo luogo, lo hanno fatto ritenere organico al gruppo eversivo che a Maggi faceva capo.
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La strategia della tensione e ciò che si sa: è molto, anche se mancano pezzi di storia

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Banca nazionale dell'agricoltura, piazza Fontana, Milano

Partiamo con una serie di nomi. Sono quelli di Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva e Attilio Valè. A questi aggiungiamo altri due nomi: Alberto Muraro e Giuseppe Pinelli. I primi 17 sono le vittime dirette che, alle 16.37, fece l’ordigno che esplose il 12 dicembre 1969 all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana.

Gli altri due sono le vittime collaterali, addirittura, nel caso di Muraro, preventiva. Quest’ultimo era un carabiniere in pensione che infatti morì tre mesi prima di quell’esplosione, cadendo dal terzo piano di un condominio di Padova, in piazza Insurrezione, dove abitava Massimiliano Fachini, uno degli elementi di vertice di Ordine Nuovo. Una morte a tutt’oggi senza colpevoli. E poi c’è Giuseppe Pinelli, per tutti Pino, un anarchico che fu condotto in questura dopo l’attentato e che morì il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra dopo essere stato trattanuto per tre giorni.
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Alberto Muraro: la vittima preventiva della strage di Piazza Fontana

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Alberto Muraro

Erano le 7 del mattino del 13 settembre 1969. L’estate stava perdendo mordente, la morsa dell’afa padana abbandonava Padova. Ma quell’estate non era stata torrida solo per ragioni climatiche. Alberto Muraro, carabiniere in congedo che faceva il portinaio in uno stabile di piazza Insurrezione, doveva pensare a questo e alla deposizione che due giorni dopo avrebbe dovuto rendere di fronte al procuratore Aldo Fais.

Poi la moglie l’aveva perso di vista, non sentiva più nessuno dei rumori che Alberto produceva mentre faceva le pulizie nel condominio. Così era andata a cercarlo e aveva trovato il corpo del marito a terra, immobile. Allora aveva guardato verso l’alto, verso il terzo piano, scorgendo il secchio con l’acqua e il sapone che si era portato dietro per lavare a terra.
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Omicidio Mormile, “Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti”

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Stefano e Nunzia Mormile con Nino Di Matteo

“Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 special esplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo).

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Palermo, 38 anni fa l’omicidio di Boris Giuliano: la mafia decise di eliminare un investigatore troppo pericoloso

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Boris GiulianoGli hanno sparato alle spalle sette proiettili 7.65. A essere puntata contro Giorgio Boris Giuliano, 49 anni, capo della squadra mobile di Palermo, è una Beretta semiautomatica che si trova da almeno venticinque o trenta centimetri da lui. È una mattina di pieno luglio, il 21 per la precisione, e malgrado la stagione estiva sia nel pieno, il vicequestore aggiunto esce dall’appartamento preso in affitto in via Alfieri a fine 1963 e varca la soglia del bar Lux di via De Blasi, a Palermo.

Chi lo incrocia quel mattino, se ne stupisce quasi perché Giuliano di solito ci andava quando accompagnava i figli a scuola, approfittando di quel caffè per comprare loro le merende. Invece il 21 luglio 1979 si ferma lì. Ordina un espresso e sul momento nessuno, nemmeno il titolare del locale, Giovanni Siragusa, che solo il 20 luglio precedente aveva ricevuto una lettera anonima su cui c’era scritto con timbri a inchiostro «Morirai tu e Contrada», sembra notare un uomo che entra appena dopo.

È sui 35 anni, alto approssimativamente poco meno di un metro e 70, robusto e con braccia poderose, fitti capelli castano scuri su un volto senza barba né baffi. Elementi che lì per lì non sembrano poter condurre in tempi rapidi a dare un nome al killer. Ma l’identikit elaborato nelle ore successive al delitto porta a Giacomo Bentivenga. Identità confermata nel giro di breve anche da una confidenza.
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Piazza della Loggia: le coperture istituzionali, la P2 e i rischi per la democrazia

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Strage di piazza della Loggia

“Ci sono stati uomini dello Stato che hanno agito contro l’ordine democratico di questo Paese e l’analisi del passato oggi può aprire nuove prospettive di conoscenza”. Lo ha detto ai microfoni di Radio Popolare Manlio Milani, presidente Associazione tra i familiari dei caduti di Piazza della Loggia, nella mattinata del 21 giugno scorso, il giorno dopo la conferma da parte della prima sezione della Cassazione degli ergastoli a Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi per la strage di Brescia del 28 maggio 1974. Non solo gruppi neofascisti, dunque, che – per dirla con le parole di Vincenzo Vinciguerra – “giudicati nel loro insieme o separatamente […], appaiono incapaci di costruire una minaccia politica”. Per l’autore della strage di Peteano del 31 maggio 1972, queste realtà sono nate “quali formazioni fiancheggiatrici di forze capaci per potenza di giungere a una soluzione del caso italiano, le forze armate”.

Con quale risultato? Secondo Vinciguerra, i “servizi, appoggiati e coadiuvati da ufficiali dei carabinieri e da funzionari di polizia, selezionano e reclutano gli uomini che per caratteristiche appaiono più idonei a trasformarsi in loro collaboratori permanenti, ai quali affidare il compito di creare gruppi d’azione, proporre attentati, svolgere attività informativa”. A fare affermazioni del genere non c’è solo il neofascista all’ergastolo per l’autobomba di Peteano, pur ritenuto attendibile in molteplici procedimenti, da quello per la strage alla questura di Milano alle indagini del giudice istruttore Guido Salvini, secondo cui sull’Italia sono spirati “gelidi venti di golpe”.

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Monte Sole e altri crimini nazifascisti: le responsabilita’ italiane nel ‘dimenticatoio della memoria’

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Marzabotto

“Volle e fece eseguire dai tedeschi la distruzione di Marzabotto qualificandolo nido di partigiani, e premurando a tale opera fino al 22 settembre 1944“. Era l’accusa riportata in una sentenza pronunciata il 17 ottobre 1945 dalla corte d’Assise di Brescia. Imputato era Lorenzo Mingardi, esponente delle autorità fasciste del piccolo centro sulle alture bolognesi conosciuto anche come il “ducetto di Marzabotto”, e a processo ci finì con Armando Quadri per l’eccidio di Monte Sole, 770 vittime tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944.

Le carte della magistratura che raccontano la loro vicenda personale, politica e giudiziaria sono rimaste sepolte dalla polvere per decenni, se si esclude la visita, nel 1964, di due ricercatori milanesi dell’Istituto storico della Resistenza, Paolo Pascetti e Adolfo Scapelli. A recuperarle insieme a un’altra ventina di storie da sette archivi di Stato (Bologna, Bergamo, Firenze, Modena, Perugia e Ravenna) è stato di recente Alberto Mandreoli, classe 1974, insegnante di lettere e storia nelle scuole superiori, che ha scritto il libro “Il fascismo della repubblica sociale a processo – Sentenze e amnistia (Bologna 1945-1950)“, edizioni Il pozzo di Giacobbe, 2017, introduzione di Mimmo Franzinelli.

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Brescia, le indagini su Piazza della Loggia perdono un tassello fondamentale

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Le indagini sulla stagione stragista degli anni Settanta non se la passano tanto bene. A Bologna, per la bomba che il 2 agosto 1980 uccise 85 persone e ne ferì oltre 200, si indagava sui mandanti e la procura nei giorni scorsi ha richiesto l’archiviazione del filone (si va avanti invece sull’ex nero Gilberto Cavallini, accusato di concorso in strage e destinatario di un avviso di fine indagine). Se l’Associazione tra i familiari delle vittime ha presentato opposizione, al momento per la procura “nulla di concreto è emerso”.

Invece a Brescia – dove cresce l’attesa in vista del prossimo 20 giugno, quando la Cassazione si pronuncerà sugli ergastoli inflitti a Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi nel secondo processo d’appello – le indagini sui mandanti proseguono. Peccato che in questo caso si sia perso un pubblico ministero di valore, Francesco Piantoni, che dal 1993 lavorava sulla strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974. Arrivato alla procura generale di Roma lo scorso autunno dopo trentatré anni di servizio a Brescia, per lui era stata inoltrata richiesta di applicazione al Consiglio superiore della Magistratura. In altre parole, era stato chiesto che Piantoni, colui che conosce meglio le carte, potesse dedicare al Brescia quater una parte della sua settimana lavorativa. Esito negativo. Il Csm ha rigettato la richiesta.

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