Palermo, 38 anni fa l’omicidio di Boris Giuliano: la mafia decise di eliminare un investigatore troppo pericoloso

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Boris GiulianoGli hanno sparato alle spalle sette proiettili 7.65. A essere puntata contro Giorgio Boris Giuliano, 49 anni, capo della squadra mobile di Palermo, è una Beretta semiautomatica che si trova da almeno venticinque o trenta centimetri da lui. È una mattina di pieno luglio, il 21 per la precisione, e malgrado la stagione estiva sia nel pieno, il vicequestore aggiunto esce dall’appartamento preso in affitto in via Alfieri a fine 1963 e varca la soglia del bar Lux di via De Blasi, a Palermo.

Chi lo incrocia quel mattino, se ne stupisce quasi perché Giuliano di solito ci andava quando accompagnava i figli a scuola, approfittando di quel caffè per comprare loro le merende. Invece il 21 luglio 1979 si ferma lì. Ordina un espresso e sul momento nessuno, nemmeno il titolare del locale, Giovanni Siragusa, che solo il 20 luglio precedente aveva ricevuto una lettera anonima su cui c’era scritto con timbri a inchiostro «Morirai tu e Contrada», sembra notare un uomo che entra appena dopo.

È sui 35 anni, alto approssimativamente poco meno di un metro e 70, robusto e con braccia poderose, fitti capelli castano scuri su un volto senza barba né baffi. Elementi che lì per lì non sembrano poter condurre in tempi rapidi a dare un nome al killer. Ma l’identikit elaborato nelle ore successive al delitto porta a Giacomo Bentivenga. Identità confermata nel giro di breve anche da una confidenza.
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Cossiga, l’omicidio di Giorgiana Masi e le sirene delle ambulanze che dovevano sentirsi più di quelle dei carabinieri

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Giorgiana MasiQuesto brano è contenuto nel libro Piccone di Stato – Francesco Cossiga e i segreti della Repubblica (Nutrimenti, 2010).

Proviamo a ripercorrerla la vicenda che ha portato alla morte – anzi, all’omicidio – di Giorgiana Masi. Era il 12 maggio 1977 e il Partito radicale aveva indetto una manifestazione per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e raccogliere firme per l’abrogazione delle leggi sull’ordine pubblico. Dal 21 aprile precedente, dopo gli scontri e una sparatoria che al termine di una manifestazione portò alla morte dell’agente Settimio Passamonti, ventitré anni, nel Lazio era vietato radunarsi in piazza.

Lo aveva deciso il ministro dell’Interno Francesco Cossiga con il supporto del Partito comunista, e quando i Radicali annunciarono la loro intenzione di scendere per strada il 12 maggio gli si fece notare che esisteva un’unica eccezione prevista dal decreto del Viminale: appartenere all’arco costituzionale. A quel punto si innescò un braccio di ferro per impedire il sit-in e vennero distribuiti sul territorio della capitale circa cinquemila agenti tra polizia e carabinieri. Fu un crescendo di tensione e infine, tra le 19 e le 20, si iniziò a sparare. A restare feriti furono un carabiniere e una ragazza, mentre dalle parti di ponte Garibaldi venne uccisa Giorgiana Masi, che avrebbe compiuto diciannove anni il successivo 6 agosto.
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Cossiga, l’omicidio di Giorgiana Masi e le sirene delle ambulanze che dovevano sentirsi ovunque, più di quelle dei carabinieri

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Giorgiana MasiQuesto brano è contenuto nel libro Piccone di Stato – Francesco Cossiga e i segreti della Repubblica, Nutrimenti, 2010

Proviamo allora a ripercorrerla la vicenda che ha portato alla morte – anzi, all’omicidio – di Giorgiana Masi. Era il 12 maggio 1977 e il Partito radicale aveva indetto una manifestazione per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e raccogliere firme per l’abrogazione delle leggi sull’ordine pubblico. Dal 21 aprile 1977, dopo gli scontri e una sparatoria che al termine di una manifestazione portò alla morte dell’agente Settimio Passamonti, ventitré anni, nel Lazio era vietato radunarsi in piazza.

Lo aveva deciso il ministro dell’Interno Francesco Cossiga con il supporto del Partito comunista, e quando i Radicali annunciarono la loro intenzione di scendere per strada il 12 maggio gli si fece notare che esisteva un’unica eccezione prevista dal decreto del Viminale: appartenere all’arco costituzionale. A quel punto si innescò un braccio di ferro per impedire il sit-in e vennero distribuiti sul territorio della capitale circa cinquemila agenti tra polizia e carabinieri. Fu un crescendo di tensione e infine, tra le 19 e le 20, si iniziò a sparare. A restare feriti furono un carabiniere e una ragazza, mentre dalle parti di ponte Garibaldi venne uccisa Giorgiana Masi, che avrebbe compiuto diciannove anni il successivo 6 agosto.
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De Vuono, “l’Anello”, il caso Moro e il sequestro Saronio

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Giustino De VuonoÈ un caso che questo post venga scritto oggi, nell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro (e di Peppino Impastato, assassinati entrambi nel 1978). Ma è un caso azzeccato che prende spunto da un aggiornamento su un personaggio di cui si parla in Pentiti di niente, trovato nel libro di Stefania Limiti, L’anello della repubblica (Chiarelettere, 2009). L’aggiornamento riguarda Giustino De Vuono, coinvolto come appartenente all'”ala” della criminalità comune nel sequestro e nell’omicidio di Carlo Saronio, avvenuti tra il 14 e il 15 aprile 1975 a Milano.

In questa vicenda si inizia a parlare di De Vuono, ex legionario che si dà alla malavita al rientro in Italia, come dello “scotennato”: coinvolto in traffici vari, si aggrega alla banda che rapirà l’ingegnere lombardo e sarà colui che terrà i collegamenti con la famiglia. Nel libro di Stefania Limiti lo si ritrova invece quando si parla del ruolo nella ‘ndrangheta nel sequestro Moro. Scrive l’autrice partendo da un articolo del Corriere della Sera del 1978 (pagina 188 e seguenti):

L'anello della repubblica

«Delinquente di prima grandezza […] evaso dal carcere poco prima dell’operazione Moro […], De Vuono viene riconosciuto da due testimoni [presenti in via Fani, N.d.B.] tra le venti foto pubblicate dall’Ucigos», ma i pur numerosi elementi che indicano la sua presenza non sono valsi a far scattare indagini più accurate. Di De Vuono parlò anche Ernesto Viglione, giornalista che abita in via Fani e che per questa vicenda sarà condannato a tre anni e sei mesi in primo grado e poi assolto in appello: Viglione disse «di essere entrato in contatto con il terrorista dissidente “Francesco”, che gli aveva proposto un’intervista con Moro nel “carcere del popolo”. Era maggio. Moro fu ucciso prima che Viglione potesse verificare le proposte di “Francesco”, un uomo dal forte accento lucano o calabrese, che Viglione riteneva fosse Giustino De Vuono.

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