Andiamo all’inizio. Anzi, a una fine che è un inizio della trattativa tra lo Stato e la mafia. Andiamo al 30 gennaio 1992, il giorno in cui la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero potuti partire da qui per colpire anche i referenti istituzionali di Cosa Nostra.
Successe altro, invece, nel densissimo periodo che seguì, venne costruita, anello dopo anello, una catena di fatti. Alcuni sono noti. Tra questi, il ministro Calogero Mannino, nel febbraio, parlò a un maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli, poi assassinato il 4 aprile successivo. Gli disse: “Ora uccidono me o Lima” e a essere ammazzato fu, il 12 marzo, il secondo, Salvo Lima, luogotenente del potere andreottiano sull’isola. Ne seguì un’allerta che raccolse le parole di una fonte confidenziale secondo cui politici di primo piano erano a rischio attentato. Criminalità organizzata, certo, era la matrice delle minacce, ma non solo. Si parlava anche di destabilizzazione. Prodromi di una Seconda Repubblica.
Termini che richiamavano gli anni cupi che, tra i Settanta e gli Ottanta, avevano segnato una lunga scia di sangue nelle banche, sui treni o nelle stazioni. Nei Novanta, invece, si puntava su uomini di partito. Dc, Psi e Pds, sorto dopo la svolta della Bolognina dalle ceneri del Pci. E tornava un altro termine, fin troppo esplicito: stragi. Vicine, vicinissime, da compiersi entro il luglio 1992.