Su uno dei blog di Wired, si può vedere come la Nato si vanta di aver fatto saltare per aria un carro armato libico, malgrado non sappia come stanare il dittatore Muammar Gheddafi.
(Via @dangerroom)
Su uno dei blog di Wired, si può vedere come la Nato si vanta di aver fatto saltare per aria un carro armato libico, malgrado non sappia come stanare il dittatore Muammar Gheddafi.
(Via @dangerroom)
Chi dice che l’Islam è un corpo unico indifferenziato e/o che è il “movente”, può leggere lo speciale di Peacereporter dal titolo Fitna – Guerra Fredda nel cuore dell’Islam:
Arabia Saudita contro Iran, sunniti contro sciiti. Una lotta senza quartiere, dove anche la religione diventa uno strumento.
E magari può iniziare proprio dall’articolo Il mosaico del Golfo Persico di Christian Elia.
I vent’anni di vergogna dalla strage della Moby Prince sono raccontati qui da Luigi Grimaldi, sul blog Cado in piedi. Una vergogna che passa da queste affermazioni, su cui un indignato Grimaldi apre il suo post:
Per raccontare la tragedia del Moby Prince del 10 aprile ’91, una strage negata, partiremo dalla fine: dal più recente atto giudiziario inerente la vicende e risalente solo a qualche mese fa. L’ultimo, dopo 20 anni di inutili indagini e processi. Partiremo cioè da una sconcertante osservazione conclusiva, messa nero su bianco, dai magistrati livornesi che hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’inchiesta-bis: “La ricostruzione della dinamica dell’evento può apparire – come si è più volte sottolineato – banale nella sua semplicità, e dunque non accettabile emotivamente, prima che razionalmente, sopratutto in considerazione dell’enorme portata delle conseguenze che ne sono derivate in termini di perdita di vite umane”.
140 morti, nessun colpevole, niente misteri e traffici di armi, niente operazioni segrete relative alla appena terminata guerra del Golfo; semplicemente nebbia combinata con errori nella condotta di navigazione del traghetto. La ricostruzione della semplice “banalità” del disastro è stata resa possibile solo grazie all’esistenza di un elemento senza precedenti: un particolare banco di nebbia.
Continua qui. E per approfondire questa e altre vicende, si provi a leggere 1994 – L’anno che ha cambiato l’Italia, uscito l’anno scorso per i tipi di Chiarelettere e scritto da Grimaldi insieme a Luciano Scalettari.
Prendo ancora da Roberto Laghi il suo post Armi italiane nel mondo: Antonio Mazzeo ne parla su Micromega
In un articolo pubblicato qualche giorno fa su Micromega, il giornalista Antonio Mazzeo fa il punto sul mercato dell’industria italiana degli armamenti. Un settore che non ha conosciuto crisi, perché tra il 2008 e il 2009 “l’export di armamenti è cresciuto del 74%”.
Mazzeo indica anche la lista dei principali Paesi destinatari della produzione bellica made in Italy, il cui marchio è presente su ogni tipo di strumento di guerra, compresi quelli per la tortura (del resto il reato di tortura non è presente nel nostro codice penale):
al primo posto c’è la petromonarchia dell’Arabia Saudita (commesse per 1.100 milioni di euro), poi il Qatar (317), l’India (242), gli Emirati Arabi Uniti (176), il Marocco (112), la Libia (59), la Nigeria (50), la Colombia (44), l’Oman (37).
Sì, tra i destinatari c’è anche la Libia, in cui attualmente si sta combattendo una guerra di cui probabilmente non sappiamo abbastanza. E gli accordi con la Libia riguardano anche il controllo e la repressione dei movimenti dei migranti.
Affari che spesso si muovono in zone grigie, anche nel tentativo di aggirare la legge 185 del 1990 che regola la vendita di armi (in particolare, con il divieto di vendita agli Stati belligeranti), ma che portano enormi guadagni nelle casse delle industrie coinvolte, come Finmeccanica, recentemente al centro di inchieste di cui si è anche occupata Milena Gabanelli a Report.
Sempre a proposito di armi, segnalo l’intervista che ho fatto a Francesco Vignarca per Micromega sul libro Il caro armato, che racconta quanto costano (e quanto sprecano) le forze armate italiane.
E aggiungo in conclusione che Antonio Mazzeo racconta su Domani di quando i profughi diventano un affare, come sta accadendo in Sicilia.
Umberto Bossi l’aveva detto nel suo idioma, fuori dalle palle. E lo sono i 250 migranti morti nella notte tra il 5 e il 6 aprile scorsi quando si è rovesciato il barcone con cui stavano cercando di raggiungere le coste italiane. Venivano dal Corno d’Africa. Etiopi, somali e tra loro era rappresentata qualche altra etnia dell’Africa nera. Il nostro governo, però, fa le condoglianze alla Tunisia. Che tanto è lo stesso, una nazionalità vale l’altra. Quasi fossimo tornati ai tempi di una faccia, una razza. Senza quasi, forse. E il rammarico per la nuova sciagura del mare deve essere un en passant dato che intanto il capo del governo annuncia ai suoi ministri che ha cambiato idea. Era stato affrettato nello scegliere su Internet la sua residenza lampedusana, probabilmente troppo vicina all’aeroporto e dunque fastidiosa, con tutto quel lavoro. Aggiunge, ai suoi uomini dell’esecutivo, che ne troverà un’altra e che li terrà informati. Perché qui si lavora, mica storie.
Dall’inizio dell’anno, gli arrivi in Italia sono stati 25.800, afferma il ministero degli Interni. E sono 800 i morti, da gennaio a oggi. Gente senza nome, considerata anche senza dignità. Infestatori delle coste italiane, candidati a infestare anche il resto del territorio. Non importa se stanno in un centro di identificazione oppure se in un campo profughi. Figurarsi poi se affittano una casa, magari in edilizia popolare. Meglio che finiscano in fondo al mare, per l’Italia e il suo governo. E magari anche per l’Europa, che a livello comunitario ogni tanto interviene con proclami di circostanza e a livello giornalistico sorvola sulle vittime.
E un po’ come accade per la (interrotta) “emergenza” fisica generata dagli arrivi, tutto sembra legato all’attualità (solo della penisola). Una notizia d’agenzia o da telegiornale che smette di essere reale una volta terminato il take o il servizio. Eppure, guardando agli ultimi trent’anni, sono stati innumerevoli i fatti assolutamente simili a quelli che si verificano in queste settimane.
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Giulio Cavalli, attore sotto scorta per aver fatto i nomi dei malavitosi al nord nel corso dei suoi monologhi teatrali e consigliere regionale della Lombardia, porta in scena uno spettacolo intitolato L’innocenza di Giulio. Processo Andreotti al centro dello “spettacolo”. Ecco di seguito cosa scrive in proposito Il Fatto Quotidiano.
Sette volte presidente del consiglio. Più di mezzo secolo da protagonista della vita politica italiana. Tanti soprannomi. E tanti segreti. Ma una certezza: “Andreotti non è stato assolto”. Così recita il sottotitolo de “L’innocenza di Giulio”, il nuovo spettacolo dell’attore-autore Giulio Cavalli, in prima nazionale questa sera al Teatro della Cooperativa di Milano.
Andreotti si è salvato grazie alla prescrizione. Ma la storia, secondo Cavalli, dice che l’ex leader della Dc si è seduto al tavolo della mafia. E questo va spiegato. Anche con il teatro. In uno spettacolo-monologo in cui testimonianze, deposizioni e lettura degli atti giudiziari si alternano per raccontare il processo per mafia che ha coinvolto una delle figure politiche più controverse della politica italiana. Cavalli, a un certo punto, si farà lui stesso Andreotti. E a mani giunte e Bibbia in mano citerà alcune delle dichiarazioni da lui rese nel corso del dibattimento.
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A proposito di trasparenza sugli atti pubblici dall’altra parte dell’oceano Atlantico, Lsdi racconta di un nuovo sito web Usa [che] rilancia il movimento:
Si tratta del sito FOIA Project, che punta in particolare ad “accrescere la trasparenza del processo con cui il governo Usa nega determinate informazioni”. Il progetto – riporta Businessjournalism.org – è stato sviluppato dal Transactional Records Access Clearinghouse (TRAC) con il sostegno della Syracuse University e un finanziamento del CS Fund/Warsh-Mott Legacy.
Il sito spiega che “scopo finale del progetto è denunciare tutti coloro che violano la legge creando un nuovo tipo di sanzioni: una ampia e continua denuncia pubblica per eliminare la cortina di segretezza di fatto dietro cui si nascondono coloro che negano illegalmente la diffusione di informazioni”.
Inizialmente, il sito renderà pubblici i vari casi di ricorso contro il governo nelle varie corti distrettuali cercando di provvedere nei modi possibili alla raccolta e diffusione dei documenti al centro delle controversie. Dal sito è possibile accedere al database che contiene i vari casi, Stato per Stato, ma è stata realizzata anche una mappa.
Per ulteriori informazioni sul freedom of information act, si veda il materiale informativo pubblicato sul sito del dipartimento di Stato americano.
Qui l’articolo, sul Fatto Quotidiano. E tutto il lavoro video è di Giulia Zaccariello.
Mentre continuano le cronache degli sbarchi e dei quanto meno discutibili trasferimenti dei profughi, arriva da terrelibere.org un libro elettronico di Alberto Sciortino intitolato Il perché dei gelsomini – Tunisia. Le cause della rivoluzione che ha rovesciato Ben Alì
Li vediamo sbarcare a Lampedusa. E li abbiamo chiamati disperati senza volto e volontà, pronti a invadere l’Europa-Fortezza. Oppure, i più raffinati, ‘masse arabe’ strette tra fondamentalismo islamista e regimi sì dittatoriali, ma pur sempre filo-occidentali. La “rivoluzione dei gelsomini” poteva spazzare via questi luoghi comuni. Cancellare la nebbia che divide le due sponde del Mediterraneo. Spingerci a chiedere: cosa c’è dall’altra parte? Magari per scoprire che non c’è nulla di così diverso, di abissalmente ‘altro’.
Nel gennaio 2011, la protesta non-violenta ha spazzato via in pochi giorni un dittatore brutale ma con molti amici. E molto potenti, specie in Francia e in Italia. Nessuno lo aveva previsto. E anche dopo ci si è fermati alle banalità e troppe domande sono rimaste senza risposta.
Intreccio tra logge e potere. La massoneria in Emilia sul Fatto Quotidiano, edizione dell’Emilia Romagna.