E rimasero impuniti: la rapina al Knightsbridge, i documenti di Calvi e la carriera criminale di Valerio Viccei

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E rimasero impunitiDopo diversi mesi di silenzio (questione della taglia a parte), il 1987 fu l’anno in cui le indagini sulla morte di Jeanette May e Gabriella Guerin sembravano destinate a finire in un nulla di fatto, come poi accadde. Ma fu anche quello in cui si verificò un fatto che avrebbe riportato il nome della donna a occupare le cronache. Si trattava ancora una volta di una clamorosa rapina, avvenuta questa volta al Knightsbridge Deposit Centre di Brompton Road: perfetta nell’esecuzione, non venne sparato neanche un proiettile e si concluse con un bottino da capogiro, 60 miliardi di lire.

Per questo fatto nel 1993 venne arrestato a Roma un antiquario marchigiano, Agostino Vallorani, per la ricettazione di una parte della refurtiva e – sospettavano gli inquirenti – per aver ideato il colpo. Ma sull’uomo i magistrati capitolini pensavano anche altro: in contatto con Sergio Vaccari Agelli, i pubblici ministeri Andrea Vardaro ed Elisabetta Cesqui, titolari anche dell’indagine sull’omicidio del banchiere milanese, volevano capire se Vallorani potesse entrarci con la morte dell’antiquario assassinato nel settembre del 1982 – indicato nel frattempo come uno dei presunti boia di Roberto Calvi – e con quello dell’ex nobildonna inglese.

A dire che qualcosa, in quella direzione, poteva esistere fu un altro italiano finito in galera per la rapina del 1987. Si chiamava Valerio Viccei e anni più tardi avrebbe raccontato di quella spaccata, definita «il più grande colpo della storia», in un libro uscito postumo nel 2004 e intitolato Live by the gun, die by the gun. Nato ad Ascoli Piceno nel 1955, venne condannato alla fine degli anni Ottanta a settantadue anni di carcere – ridotti poi a trenta – per vari reati commessi in Gran Bretagna, dove se n’era scappato anche per motivi legati alla sua militanza nell’organizzazione di estrema destra dei Nuclei Armati Rivoluzioni (NAR). Prestante, scapestrato, circondato da belle donne e amante della vita lussuosa, buona parte di tutta quella galera se l’era guadagnata proprio per la rapina al Knightsbridge. Che era stata un’azione da film.
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Dal Fatto: ecco perché la nebbia avvolge ancora 140 morti. La ricostruzione del caso Moby Prince

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Traghetto Moby PrinceLe due pagine centrali del Fatto Quotidiano di oggi sono dedicate all’anticipazione di un libro di prossima uscita per i tipi di Chiarelettere. Si intitola 1994, è stato scritto da Luciano Scalettari e Luigi Grimaldi e ricostruisce la storia della Moby Prince, il traghetto andato a fuoco il 10 aprile 1991 uscendo dal porto di Livorno. Furono 140 le vittime (qui l’elenco) e, proprio perché le inchieste non hanno fornito risposte, a tutt’oggi rimangono diversi punti da chiarire: la nebbia, le tracce di esplosivo – T4 – trovato a bordo, il ritardo nei soccorsi, l’unico sopravvissuto che cambia idea. Di tutto questo parla il lungo estratto pubblicato oggi e parla anche dei collegamenti – che vanno ben oltre la nave XXI Ottobre II della Shifco presente nella rada toscana – con il caso di Ilaria Alpi.

Per leggere più nel dettaglio, da qui si può scaricare quanto pubblicato dal Fatto (formato pdf, 575KB). Qui invece si trova online solo il primo pezzo.

Nazione Indiana racconta una storia fascista, quella che ha visto imputato lo scrittore Divier Nelli

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Nazione indiana racconta una storia fascista:

Condannato a due mesi di reclusione con tutti i benefici di legge

Si è conclusa con la condanna a due mesi di reclusione (pena comminata dal giudice monocratico di Città di Castello PG), il procedimento di 1° grado che vede imputato lo scrittore Divier Nelli, accusato (Delitto di cui artt. 595 c. 1° e 3° Cp.) di avere offeso la reputazione dei congiunti di Casella Marcello (defunto) attribuendo a questi, nel romanzo giallo Falso Binario (Passigli Editori, 2004), la responsabilità dell’omicidio di Barsottelli Ottavio, avvenuto a Viareggio (Lu) l’11 settembre del 1931. “Siamo abbastanza soddisfatti, si tratta del minimo della pena prevista”, ha commentato l’avvocato Aldo Lasagna “ricorreremo in appello contando in un ribaltamento della sentenza. In appello sarà ripreso in esame il materiale storico già agli atti, comprese le note di polizia dell’epoca che potrebbero fare nuova luce sul delitto Barsottelli.”

E segnala anche che l’approfondimento è qui.

E rimasero impuniti: la scomparsa di Jeanette May e quei resti ritrovati in montagna

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E rimasero impunitiUn tempo Jeanette aveva portato anche un altro cognome: era quello del primo marito, Evelyn Rothschild, finanziere britannico discendente della potente famiglia che già nell’Ottocento controllava mezza Europa e anche un pezzo di Medioriente. Banche, ferrovie, testate giornalistiche, energia e petrolio alcuni dei settori di attività dei Rothschild. La ragazza, invece, nata nel 1940, era di estrazione borghese e tra i parenti illustri poteva annoverare solo uno zio ingegnere, sir Stanley George Hooker, a cui la Rolls Royce e la Bristol Aero Engines dovevano alcune delle loro principali migliorie meccaniche.

Giovane e bella, Jeanette aveva sposato il rampollo della potente famiglia britannica nel 1966 acquisendo il titolo nobiliare di baronessa, ma il matrimonio era durato solo cinque anni. Dopo il divorzio convolò a nuove nozze con Stephen May, ex direttore del personale della John Lewis Partnership, società britannica che si occupa di vendita al dettaglio e grande distribuzione, che lasciò l’Inghilterra all’inizio degli anni Ottanta per andare a vivere in Australia, dopo aver peregrinato un po’ in giro per il pianeta.

Prima di questo, però, i coniugi May avevano acquistato una casa in Italia, nelle Marche, e l’avrebbero usata, una volta ristrutturata, per trascorrervi qualche giorno di vacanza. Il giorno prima della rapina da Christie’s, il 29 novembre 1980, Jeanette, che aveva 42 anni, e la sua guida Gabriella erano salite sull’auto che utilizzavano in quel periodo, una Peugeot 104 nera targata Siena e ritrovata diciassette giorni dopo a Fonte Trucchia di San Liberato. Alle 14,30 avrebbero dovuto incontrare un agricoltore di Sarnano che aveva venduto alla donna inglese l’abitazione e i tredici ettari di terreno circostanti, ma non si presentarono. Da quanto fu possibile ricostruire, però, alle 16 erano state viste in uno spaccio di materiale edile e alle 17 nei dintorni dell’hotel in cui alloggiavano, l’albergo «Ai Pini». Alle 19, inoltre, erano nella piazza principale del paese pronte per andare in montagna, nonostante stesse iniziando a nevicare. Di lì, poi, più nessuna traccia.
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Affaire Pollari-Pompa: magistrati, giornalisti e attivisti si costituiscono parte civile

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Ancora a proposito dei dossieraggi illegali fatti dal tandem spionistico Nicolò Pollari-Pio Pompa, Andrea Cinquegrani, codirettore del mensile La voce delle voci, di ritorno dalle aule di giustizia umbre, ha scritto un testo che viene riportato sotto in forma integrale. Si intitola Il gup di Perugia: la consulta dichiari che non spetta a Berlusconi porre il segreto sul peculato di Pompa e Pollari. Ecco dunque le considerazioni di Andrea.

Non c’è alcun motivo per cui l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari e il suo braccio destro Pio Pompa, imputati per peculato nel processo davanti al gup di Perugia, possano invocare il segreto di Stato. È quanto, in sostanza, sostiene il gup Carla Giangamboni la quale, dopo aver ammesso la costituzione di parte civile per 7 parti lese (magistrati, avvocati, politici, giornalisti, più l’associazione internazionale Medel), ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato investendo la Consulta. «Si chiede a codesta Corte – conclude il giudice – di volere dichiarare che non spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri secretare, mediante conferma dell’opposizione del segreto da altri opposto, modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la gestione del servizio da parte di Pio Pompa della sede di Sismi di via Nazionale a Roma, allorché il Servizio era retto da Nicolò Pollari».

Secondo i capi d’imputazione, nell’arco di ben cinque anni (dal 2001 al 2005) Pompa, su input di Pollari, avrebbe svolto una minuziosa attività di dossieraggio su una molteplicità di soggetti, accusati di voler delegittimare, con la loro azione, l’attività del premier, allora – come ora – Silvio Berlusconi. Monitorati giuristi (una trentina) facenti capo a Medel; magistrati di punta, come Libero Mancuso (7 procedimenti davanti al Csm in quel periodo), politici scomodi (come Elio Veltri e Cesare Salvi), giornalisti ficcanaso (radunati intorno al gruppo de La Voce delle Voci-La Voce della Campania, descritta da Pompa come una sorta di “Al Quaeda dell’informazione”).
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Radio Città del Capo: “Ustica, chi sa parli”, campagna per chiedere di andare oltre la ragione di Stato

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L’emittente Città del capo – Radio metropolitana ha lanciato la campagna Ustica, chi sa parli, con relativo sito dedicato, in vista del trentesimo anniversario dell’abbattimento del Dc9 dell’Italia:

Noi, tutti noi, sappiamo chi sa la verità su Ustica. E tace. Per anni abbiamo chiesto ai governanti di parlare: recentemente l’ha fatto l’ex presidente Francesco Cossiga, che ha indicato chiaramente come responsabile dell’attacco aereo la marina Francese. Non sappiamo se la sua verità sia “La Verità”, tuttavia, dopo affermazioni così impegnative, è ancora più colpevole rimanere inerti. E se le istituzioni non si muovono, se chi governa sta zitto per precise e inconfessabili “Ragioni di Stato”, le domande le devono fare i comuni cittadini, les citoyens, di cui questi Stati dovrebbero essere espressione e garanti.

Il contributo che Città del Capo Radio Metropolitana vuole dare per il trentennale di questa tragedia è una campagna d’informazione per chiedere la verità: non abbiamo risorse per acquistare pagine di giornali o spot televisivi e forse, dati i costi di questi mezzi, non sarebbe neanche giusto. Vorremmo però comprare banner e spazi sui principali quotidiani on line francesi per porre questa domanda di verità direttamente al governo francese e al presidente Sarkozy.

Per aderire il link è questo. Peraltro l’emittente bolognese in questi giorni ha avviato una campagna d’abbonamenti straordinaria (di solito cade in dicembre) dopo i recenti tagli all’editoria che hanno colpito le radio.

E rimasero impuniti: il finto suicidio del padre del pentito e l’omicidio dell’antiquario trafficante

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E rimasero impuniti Partiamo con il ricorso al suicidio simulato. Per esempio si dovette attendere fino all’inizio del marzo 2003 per avere la conferma che Girolamo La Barbera non si era ammazzato da solo, ma che era stato assassinato. Lo ricordò nel corso delle indagini per il delitto Calvi il boss di cosa nostra Giovanni Brusca e ad accertarlo fu la DIA (Direzione investigativa antimafia) di Palermo, che, basandosi su dubbi che aleggiavano da oltre un decennio, trovò un avallo proprio nelle dichiarazioni del mafioso. Il quale fece anche i nomi dei presunti assassini: Domenico Raccuglia, Francesco Caffrì, ucciso anche lui nel 1996, e Michele Traina.

Anche nel caso della morte di La Barbera, l’intenzione era quella di far pensare che l’uomo, 69 anni, avesse di propria volontà fatto passare una corda intorno a una trave della sua stalla, ad Altofonte, in provincia di Palermo. Poi, tra i pochi bovini che ancora c’erano, si ipotizzò che fosse salito su una sedia, si fosse stretto il cappio intorno al collo e con un calcio fosse rimasto appeso.

Era il 10 giugno 1994 e il corpo dell’uomo, ritrovato intorno alle otto del mattino, non era soltanto quello di un qualsiasi anziano disperato. Suo figlio si chiamava Gioacchino. Nato nel 1959, era quel Gioacchino La Barbera affiliato alla cosca locale fin dall’inizio degli anni Ottanta e che prese il posto di Bernardo Brusca, padre di Giovanni, dopo il suo arresto, nel 1986. La storia giudiziaria di cosa nostra racconta che anche a lui si deve la stagione di terrore delle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Ma, una volta arrestato, iniziò a collaborare con la giustizia autoaccusandosi dell’omicidio del giudice Giovanni Falcone a Capaci, oltre che del suo coinvolgimento dell’eliminazione di Salvo Lima.

Ad Altofonte, nel periodo in cui La Barbera figlio collaborava, il clima per Girolamo non era positivo. Dovunque andasse, al bar o a passeggio, nei campi o in chiesa, avvertiva gli sguardi di riprovazione che si riservano a chi ha tradito, ma anche ai parenti dei traditori. Girolamo, rimasto vedovo da tempo e messo all’indice pure dai familiari, era del tutto abbandonato a se stesso e la situazione non era mutata nemmeno dopo aver sconfessato Gioacchino. Così, mosso da vergogna propria e ostilità altrui, l’ipotesi del suicidio non sarebbe nemmeno stata così implausibile. E infatti gli inquirenti non la esclusero. Ma non esclusero neanche altro, come una vendetta trasversale. E poi, oltre alla spinosa situazione dei La Barbera, Altofonte era un paese che ne racchiudeva anche altri, di fatti strani concomitanti.
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Piazza Fontana: Vinciguerra prende la parola dopo il libro-intervista al generale Maletti

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Piazza Fontana. Noi sapevamoDopo l’uscita del libro Piazza Fontana. Noi sapevamo scritto da Nicola Palma, Andrea Sceresini e Maria Elena Scandaliato (lunga intervista al generale del Sid Gianadelio Maletti, a capo del controspionaggio, di cui era detto qui) qualche reazione si è avuta. La reazione è di Vincenzo Vinciguerra, all’ergastolo per la strage di Peteano del 31 maggio 1972 e gola profonda dell’eversione neofascista italiana (spaziando anche verso Gladio), riportata in due post pubblicati sul blog dell’editore, Aliberti.

Sono Furbi, anzi furbissimi e Il passato che non passa in cui si legge che:

Triste sorte, quella di un Paese dove bisogna attendere la morte degli ultimi delinquenti rimasti in vita per conoscere le malefatte di cui sono stati co-protagonisti in passato. Ma senza bisogno di attendere la morte di Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, il generale Arnaldo Ferrara, Giorgio Napolitano e altri oggi ottantenni e novantenni disperatamente attaccati alla vita, e spesso anche alla poltrona, possiamo dire che la verità ormai si conosce ma nessuno vuole trarne le doverose conseguenze.

Ma oltre a citare ex e attuali notabili democristiani, il neofascista in carcere fa il nome anche del ministro della difesa in carica, Ignazio La Russa, accostandolo a quanto scrisse il bandito Renato Vallanzasca quando «parlò di un dirigente missino di Milano che pagava la malavita per far mettere bombe e, senza farne il nome, specificò che in quel momento ricopriva un’alta carica istituzionale».

Intercettazioni: mai una parola su quelle illegali. Le considerazioni di Andrea Cinquegrani

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Nel dibattito attuale sulle intercettazioni e sui limiti che a esse si vorrebbe porre, manca sempre un aspetto. Un aspetto che riguarda gli ascolti non autorizzati secondo le attuali procedure investigative. Per questo riporto per esteso un testo scritto da Andrea Cinquegrani, direttore insieme a Rita Pennarola del mensile La voce delle voci. Entrambi sono stati “attenzionati” (e per questo si sono costituiti parte civile al processo di Perugia) nel periodo della centrale d’ascolto di via Nazionale, quella voluta dall’intelligence italiana e affidata da Nicolò Pollari a Pio Pompa. Se ne parlava qui. Tornando al testo di Andrea, si intitola Intercettazioni? Ok, purché a farle siano solo gli 007 del Cavaliere. Nel silenzio dell’opposizione (si fa per dire) parlamentare.

Intercettazioni maledette. All’indice. Da abolire senza se e senza ma. Violano la privacy dei cittadini e mettono a repentaglio le libertà individuali. Su questo Berlusconi e il suo governo ci mettono, ci sbattono la faccia, anche a costo di crisi istituzionali e di mandare a gambe all’aria un paese ormai quasi grecizzato. Riescono nell’ardua impresa di “riunire” il mondo dei media carta-tivvu’ che da sempre prosegue in ordine sparso (e quasi sempre genuflesso). Miracoli del Cavaliere. Peccato che, qualche anno fa, precisamente dal 2001, e fino al 2005, il Berlusconi-pensiero e, soprattutto, opera, fosse diametralmente diverso. Privacy?

Chissenefrega. Diritti di chi opera nel settore dell’informazione? Vaffanculo? Rispetto per chi non la pensa come te? Fottiti. Sì, perché per un bel quinquennio i Servizi capeggiati da Nicolò Pollari (al servizio, evidentemente, dell’esecutivo berlusconiano di allora) eseguirono alla perfezione il compito assegnato: attenzionare i media di opposizione, controllare le voci contro, usare tutti i mezzi – dalle intercettazioni fino al dossieraggio e chissà a quanto altro ancora – per monitorare chi osasse pensare o scrivere in maniera non allineata.

Ad essere controllati – lo ha accertato la magistratura di Roma e poi di Perugia – sono state decine e decine di persone, tra giornalisti, magistrati, attivisti, tutti passati regolarmente ai raggi x per la bellezza di cinque anni, da un’equipe di spioni pagati con i soldi dello Stato e coordinati da Pio Pompa, l’ex braccio destro di Pollari. Tra i super indagati noi della Voce, al vertice – sono le carte di Pollari, Pompa e C. a documentarlo seguendo farneticanti percorsi investigativi – di una piramide che avrebbe compreso di tutto e di più: da Michele Santoro e la sua band, a Giulietto Chiesa e Beppe Giulietti, dal corrispondente di Liberation per l’Italia Eric Jozsef, ai referenti di Reporter sans Frontieres, e poi uno stuolo di magistrati, avvocati e giuristi (nazionali e internazionali), tutti uniti – secondo gli 007 made in Pollari – nella volontà di delegittimare la coalizione alla guida del paese in quegli anni.
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La storia del crimine organizzato diventerà un museo a Las Vegas

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The Mob Museum

Si chiamerà Museum of organized crime and law enforcement e aprirà a Las Vegas nel 2011. Così lo presenta BoingBoing:

Una panoramica audace e autentica dell’impatto del crimine organizzato sulla storia di Las Vegas e la sua impronta unica sull’America e sul mondo. Il museo propone storie vere ed eventi reali con mostre interattive […] che svelano tutti i volti di un certo tipo di delinquenza e del suo ruolo negli Stati Uniti.

Facendo scorrere il lungo slideshow che compare sulla home page del sito si può avere un’idea almeno indicativa di ciò che si potrà vedere.