Il bambino che sognava i cavalli: la storia di Giuseppe di Matteo nel racconto del padre Santino

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Il bambino che sognava i cavalli di Pino NazioEra il 23 novembre 1993 quando ad Altofonte, provincia di Palermo, sparì un ragazzino di dodici anni. Anzi, più precisamente scomparve dal maneggio di Villabate, dove andava ogni volta che poteva per allenarsi con il suo cavallo e sognare un futuro da fantino professionista. Ad andarlo a prendere fu un gruppo di uomini che si fecero passare per agenti della Direzione investigativa antimafia. Ma erano esattamente il contrario.

Erano uomini di cosa nostra che, per decisione di Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, dovevano punire il padre del ragazzino. Un “infame”, dal loro punto di vista. Un “collaboratore di giustizia”, dal punto di vista dei magistrati. Si sta parlando di Santino di Matteo, che dopo una vita trascorsa nelle fila della mafia e una carriera di killer, aveva deciso di raccontare i retroscena degli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E si sta parlando soprattutto di suo figlio, Giuseppe, che venne tenuto prigioniero per oltre due anni (i 779 giorni del sottotitolo del libro) per indurre il padre, Mezzanasca il suo soprannome, a smetterla con le sue rivelazioni.

Nel libro Il bambino che sognava i cavalli, trasposizione in termini di non-fiction di una vicenda tragica, è il frutto di un incontro tra l’autore, Pino Nazio, giornalista che collabora con la trasmissione “Chi l’ha visto”, e Santino Di Matteo. Ma anche con sua moglie Franca, con altri familiari del bambino e con i magistrati che hanno condotto le indagini su quel sequestro finito in omicidio. Giuseppe, infatti, dopo essere stato torturato durante la sua prigionia, venne strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido in modo che la famiglia non avesse nemmeno una tomba su cui piangere.
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E rimasero impuniti: il finto suicidio del padre del pentito e l’omicidio dell’antiquario trafficante

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E rimasero impuniti Partiamo con il ricorso al suicidio simulato. Per esempio si dovette attendere fino all’inizio del marzo 2003 per avere la conferma che Girolamo La Barbera non si era ammazzato da solo, ma che era stato assassinato. Lo ricordò nel corso delle indagini per il delitto Calvi il boss di cosa nostra Giovanni Brusca e ad accertarlo fu la DIA (Direzione investigativa antimafia) di Palermo, che, basandosi su dubbi che aleggiavano da oltre un decennio, trovò un avallo proprio nelle dichiarazioni del mafioso. Il quale fece anche i nomi dei presunti assassini: Domenico Raccuglia, Francesco Caffrì, ucciso anche lui nel 1996, e Michele Traina.

Anche nel caso della morte di La Barbera, l’intenzione era quella di far pensare che l’uomo, 69 anni, avesse di propria volontà fatto passare una corda intorno a una trave della sua stalla, ad Altofonte, in provincia di Palermo. Poi, tra i pochi bovini che ancora c’erano, si ipotizzò che fosse salito su una sedia, si fosse stretto il cappio intorno al collo e con un calcio fosse rimasto appeso.

Era il 10 giugno 1994 e il corpo dell’uomo, ritrovato intorno alle otto del mattino, non era soltanto quello di un qualsiasi anziano disperato. Suo figlio si chiamava Gioacchino. Nato nel 1959, era quel Gioacchino La Barbera affiliato alla cosca locale fin dall’inizio degli anni Ottanta e che prese il posto di Bernardo Brusca, padre di Giovanni, dopo il suo arresto, nel 1986. La storia giudiziaria di cosa nostra racconta che anche a lui si deve la stagione di terrore delle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Ma, una volta arrestato, iniziò a collaborare con la giustizia autoaccusandosi dell’omicidio del giudice Giovanni Falcone a Capaci, oltre che del suo coinvolgimento dell’eliminazione di Salvo Lima.

Ad Altofonte, nel periodo in cui La Barbera figlio collaborava, il clima per Girolamo non era positivo. Dovunque andasse, al bar o a passeggio, nei campi o in chiesa, avvertiva gli sguardi di riprovazione che si riservano a chi ha tradito, ma anche ai parenti dei traditori. Girolamo, rimasto vedovo da tempo e messo all’indice pure dai familiari, era del tutto abbandonato a se stesso e la situazione non era mutata nemmeno dopo aver sconfessato Gioacchino. Così, mosso da vergogna propria e ostilità altrui, l’ipotesi del suicidio non sarebbe nemmeno stata così implausibile. E infatti gli inquirenti non la esclusero. Ma non esclusero neanche altro, come una vendetta trasversale. E poi, oltre alla spinosa situazione dei La Barbera, Altofonte era un paese che ne racchiudeva anche altri, di fatti strani concomitanti.
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