La Voce delle Voci: Ravenna-Somalia, corvo d’Africa. Come i mezzi militari sono usciti dall’Italia

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La voce delle voci - Aprile 2012Dal porto di Ravenna ci sarebbe stato qualcuno che ha provato a eludere gli obblighi di legge e l’embargo spedendo pezzi di ricambio per mezzi pesanti in Somalia. Mezzi che poi, secondo gli inquirenti italiani, avrebbero potuto essere reimpiegati in ambito bellico e i cui proventi sarebbero stati utilizzati per finanziare Al Shabaab, il gruppo fondamentalista che opera nel Paese. Lo ha raccontato un passaggio specifico della relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia presentata poco tempo. E il riferimento sottolineato dalla Dna è a indagini della Direzione distrettuale antimafia di Bologna per traffico d’armi, oltre che di rifiuti, verso il Paese in guerra dal 1991. A confermarlo – aggiungendo che la prima segnalazione alle autorità doganali sarebbe arrivata dal Corno d’Africa dopo un controllo fatto a Mogadiscio su 300 camion – è un imprenditore somalo che vive nel padovano e che dall’Italia fa da 35 anni l’esportatore proprio in questo settore.

“Uno di quelli che è passato dal porto di Ravenna”, dice, “è uno che sta a Udine, un mio connazionale che ha venduto camion normali. Un altro viene da Torino e ha una ditta che ha comprato circa 90 tir commercializzati per la maggior parte come pezzi di ricambio. So che alcuni mezzi erano stati veicoli militari, altri invece erano dell’Anas che li aveva dismessi. Quei mezzi, però, possono essere usati anche in ambito militare come singole parti. Il carico lo hanno beccato quando stava arrivando al porto e il container è stato scaricato. Solo metà del materiale poi è partito, come non lo so. Da Verona o da altri posti, in base alle informazioni che mi hanno riferito, ho sentito varie persone che passano da Ravenna, ma non trasportano camion militari, sono normali, con motori, differenziali, cabine e altri pezzi tutti uguali. Le persone che lo fanno però sono malviste nel nostro ambiente e ce ne teniamo lontani”.
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E-Il mensile: nei primi tre mesi del 2012 sono stati 31 i giornalisti assassinati. A rischio soprattutto Siria, Brasile e Somalia

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Maso Notarianni scrive su Twitter che sono “31 giornalisti i uccisi in 3 mesi. Sempre meglio che lavorare?” rilanciando un articolo firmato da Stella Spinelli e pubblicato sul suo E-Il mensile:

Soltanto in Siria infatti, fra gennaio e marzo, momento clou della rivolta contro Bashar al-Assad, sono morti nove giornalisti, cinque stranieri e quattro siriani: numeri, sottolinea la Pec, che riflettono una “tendenza allarmante”, confermando come la “sicurezza dei giornalisti sia peggiorata dall’inizio dell’anno”. “Il pesante tributo pagato in Siria colloca il Paese in prima linea tra i luoghi più pericolosi per i giornalisti”, ha osservato Blaise Lempen, presidente della Pec.

Dietro la Siria, arriva a ruota quale paese più pericoloso per i reporter nel primo trimestre 2012 il Brasile, dove hanno perso la vita cinque giornalisti. Dietro c’è quindi la Somalia, dove sono morti tre giornalisti, e infine l’India, la Bolivia e la Nigeria con due reporter uccisi.

Sono invece otto i paesi che hanno registrato un giornalista ammazzato nel primo trimestre e si tratta di Afghanistan, Colombia, Haiti, Honduras, Messico, Pakistan, Filippine e Thailandia. L’ultimo cronista a perdere la vita mentre svolgeva il proprio mestiere è un giornalista della radio nazionale colombiana, ucciso a Sabanalarga. Si chiamava Jesús Martínez Orozco e aveva 42 anni.

Invece il video pubblicato sopra (e riportato anche nel pezzo di E-Il mensile) si intitola Silencio Forzado, è stato realizzato da Articulo 19 e racconta la sequela di omicidi che dal 2000 alla fine del 2011 ha caratterizzato i giornalisti di quel Paese con 67 delitti.

“Lo schifo”, anagramma di Shifco: il delitto Alpi-Hrovatin nella ricostruzione di Stefano Massini tra scorie, pentiti e navi affondate

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Lo schifo. Omicidio non casuale di Ilaria Alpi nella nostra ventunesima regioneÈ uscito il mese scorso per Promo Music (collana Paperback) il libro Lo schifo. Omicidio non casuale di Ilaria Alpi nella nostra ventunesima regione di Stefano Massini:

Il nucleo di tutto quel giro allucinante di connivenze e corruzioni che determinò l’omicidio Alpi-Hrovatin è infatti da cercarsi nella flotta di pescherecci Shifco, all’apparenza regalo dell’Italia ai pescatori somali, in realtà tramite per occultare in Somalia il cosiddetto “schifo” – curioso anagramma – di rifiuti tossici e scorie radioattive. E a distanza di anni dall’agguato in quella strada polverosa di Mogadiscio, ne abbiamo avuto una squassante conferma nelle ultime testimonianze di pentiti sull’affondamento di navi sporche come la Jolly Rosso. Questo nuovo memorandum si profila in continuità stilistica con il lavoro sulla Politkovskaja. Una narrazione dal vero, immediata, autoptica, scandita in frammenti taglienti come scatti di istantanea. A metà strada fra un’inchiesta e un racconto, alla ricerca di quella tremenda semplicità con cui la Somalia rivelò – a partire dalle voci dei pescatori del Puntland – tutti i segreti che nascondeva.

Qui il booktrailer del libro che è diventato anche uno spettacolo teatrale con Lucilla Morlacchi e Luisa Cattaneo (produzione Il teatro delle Donne, Centro Nazionale di Drammaturgia).

(Via Ilaria Alpi Award)

Somalia e Italia: due nazioni legate da un filo di armi, rifiuti e trafficoni

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In Somalia si può morire in molti modi. Il più frequente è ammazzati, a seguire cronache che troppo spesso non trovano spazio sui giornali (ma per farsi un’idea si tenga d’occhio per un po’ questo indirizzo: http://it.peacereporter.net//area/32/1/Somalia). Un altro, di certo meno frequente, è vedersi uccidere da un tumore della pelle dopo aver trascorso la vita a fare il marinaio. Quel tumore, un carcinoma, se fosse stato curato per tempo in Italia, avrebbe avuto una sufficiente percentuale di remissione e qualche probabilità in meno di metastatizzarsi. Invece il marinaio, che si vide crescere sul tronco e sulle braccia neoformazioni ulcerate, è morto.

Non era anziano e di solito una malattia del genere insorge in persone che hanno la pelle chiara, non in chi è di colore. Tra le sue cause, soprattutto per i bianchi, l’esposizione diretta e prolungata al sole: i raggi ultravioletti friggono la normale fisiologia delle cellule dell’epidermide e possono provocare mutazioni che sfociano nel cancro. Questi danni avranno più effetto se incontreranno preesistenti cicatrici o ustioni guarite e il quadro fin qui descritto sembra adattarsi alla vita di chi è andato sempre per mare, per quanto di fenotipo scuro.

Ma c’è anche un’altra causa a monte di questo tipo di tumore, più frequente nella popolazione africana e afro-americana: l’esposizione a radiazioni o a sostanze chimiche, come i metalli pesanti, che diventano più minacciose quando una persona maneggia a lungo materiale inquinante finendo per assorbirlo. Se a questa constatazione si aggiunge che il nostro marinaio è stato per anni a bordo di un’imbarcazione di una flotta chiacchierata, come nel caso della Shifco, ecco che tornano in mente altre storie. E in particolare tutte le storie scritte e lette da oltre un quindicennio a proposito delle navi divenute di proprietà di Omar Mugne, un imprenditore con doppia cittadinanza – somala e italiana – il cui nome è ricorso fin troppo spesso nelle indagini legate alla morte di Ilaria Alpi.
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Guardian: la storia per immagini dei decenni di dittatura e guerra che hanno reso irriconoscibile la Somalia

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Keystone USA/Rex Features

Il Guardian pubblica una cronologia per immagini dei fatti accaduti in Somalia dal 1950 a oggi:

Mentre i leader si incontrano a Londra per discutere del futuro della Somalia, ecco alcuni dei momenti chiave nella storia recente di un Paese diventato irriconoscigile nel giro di qualche decennio.

L’immagine (Keystone Usa-Rex) riportata in questo post risale al 2001, quando l’Onu ha annunciato il ritiro perché ammetteva di non essere più in grado di garantire la sicurezza al suo staff. Per approfondire invece quanto sta avvenendo a Londra, si veda qui.

“A Million Shillings – Escape from Somalia”: storia per immagini di un esodo e di una guerra civile

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A Million Shillings – Escape from Somalia è un lungo reportage fotografico diventato un libro e firmato da Alixandra Fazzina di Noor, giornalista inglese che vive in Pakistan. Scrive Flavio Franzoni su E-Il mensile:

Quasi vent’anni di guerra civile iniziata con il crollo del regime di Siad Barre, il padre-padrone della Somalia, hanno stritolato i somali e la loro terra. La stessa Mogadiscio, un tempo uno dei centri africani più attivi per il commercio con il Medio Oriente, oggi è una capitale fantasma abbandonata da metà dei suoi abitanti e ridotta in buona parte a cumuli di macerie […]. Dal 2006 al 2008 Alixandra Fazzina ha lavorato in Somalia, testimoniando attraverso i suoi scatti l’esodo di migliaia di migranti e profughi dallo stato africano alla Penisola arabica e l’attività di contrabbando nel Golfo di Aden. Da questa esperienza è nato “A Million Shillings: Escape from Somalia”, libro pubblicato dalle edizioni Trolley nel 2008 in due versioni, inglese e araba. Nel libro, i testi […] accompagnano le tante significative immagini. La scelta dell’autrice è stata quella di prediligere una sequenza narrativa, e il risultato è un libro fotografico […] i cui protagonisti sono uomini e donne privati della propria dignità e usati, tanto per cambiare, a solo scopo di lucro.

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Peacereporter: manovra economica da “lacrime e sangue” ma non sulla guerra

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Tremonti non risparmia sulla guerra

Peacereporter racconta che, malgrado la manovra da 47 milioni di euro, Tremonti non risparmia sulla guerra.

Si tira la cinghia su tutto, dalla salute all’istruzione, ma non sulle guerre. La cifra di 700 milioni (che comprende la guerra in Afghanistan e le missioni in Libano, Kosovo, Bosnia, Iraq, Pakistan, Somalia, Sudan e Congo) è infatti in linea con i precedenti finanziamenti semestrali.

Questo stanziamento militare, tra l’altro, non comprende le spese per la guerra in Libia, che nei primi tre mesi è costata da sola oltre un miliardo di euro (almeno 700 milioni di spese correnti per la Difesa per bombe, missili e carburante per aerei e navi, e altri 400 milioni di finanziamenti ai ribelli provenienti dal ministero degli Esteri).

E l’articolo prosegue dettagliando qualche altra spesa in armamenti (con possibilità di risparmio eventuali).

Wikileaks: Blackwater, business nel Corno d’Africa per contrastare la pirateria dei mari

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La voce delle vociSono datati dicembre 2009 alcuni cablogrammi partiti dall’ambasciata statunitense di Gibuti a proposito della situazione somala. I documenti, classificati come confidenziali e inseriti nella mole di materiale diffuso da Wikileaks alla fine di novembre 2010, citano una società americana comparsa più volte nelle pagine di questo giornale. Si tratta Blackwater Worldwide, multinazionale della sicurezza privata finita nel mirino ancora nel 2007 quando suoi uomini furono coinvolti in una sparatoria a Baghdad che fece diciassette vittime. Questa volta la si ritrova in Somalia, stando ai cablogrammi di Wikileaks, dove opererebbe dal marzo 2010 con l’autorizzazione del governo di Gibuti per contrastare la pirateria.

La dotazione che ha portato con sé comprenderebbe trentatré cittadini americani a cui sono state affidate funzioni varie e che verranno sostituiti ogni sessanta giorni. Diciotto di questi “operatori”, come sono definiti dagli osservatori statunitensi, sono suddivisi in tre squadre armate che a turno sarebbero incaricate della sicurezza dei trasporti navali. La marina di Gibuti, inoltre, garantirebbe alla Blackwater forniture di armi (tra cui cinquanta mitragliatrici calibro .50) e lo scopo, sempre stando ai cablogrammi americani, non sarebbe tanto quello di supportare le forze di polizia nella cattura dei pirati, ma di usare «forze letali contro [di loro], se necessario». Insomma, il messaggio è che non si fanno prigionieri, a differenza per esempio dei francesi, che hanno allestito aree di detenzione per i pirati nella regione nord-orientale del Puntland.
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Ilaria Alpi: un appello per chiedere verità sul duplice omicidio del 1994 a Mogadiscio

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Ilaria Alpi - Foto premio giornalistico Ilaria AlpiUn appello e una firma perché Noi vogliamo verità e giustizia. Noi chiediamo verità e giustizia. Lo diffonde l’Associazione Ilaria Alpi dal Festival internazionale di giornalismo in corso a Perugia e in esso di legge:

“Dopo sedici anni, lunghissimi e dolorosi si sa quasi tutto di quel che accadde quella domenica di marzo e perché. Si sa che fu un’esecuzione, come ha scritto lo scorso 17 marzo, il Gip Emanuele Cersosimo del Tribunale di Roma nel respingere la richiesta di archiviazione: ‘un omicidio su commissione, organizzato per impedire che le notizie raccolte da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin su traffici di armi e di rifiuti tossici, venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica'”.

Le prove non mancano. Sono quelle “custodite” nei documenti e nelle testimonianze accumulate attraverso le inchieste della magistratura, quelle parlamentari e quelle giornalistiche. Ma perché, si chiedono i firmatari dell’appello, non si è ancora arrivati a una verità giudiziaria? Chi non vuole la verità e perché?

“Noi chiediamo alla Magistratura di procedere nell’accertamento delle responsabilità, di individuare esecutori e mandanti. Noi chiediamo alla politica un impegno deciso affinché tutte le verità connesse al duplice omicidio vengano alla luce. Noi chiediamo al Presidente della Repubblica di farsi garante nei confronti dei familiari e di tutto il Paese che vogliono e hanno diritto ad avere verità e giustizia”.

E in conclusione, per raccontare anche questo caso, si dà appuntamento al 17 giugno prossimo, al premio giornalistico dedicato alla giornalista del Tg3 assassinata a Mogadiscio il 20 marzo 1994 con Miran Hrovatin, quando si parlerà di “Senza Giustizia. L’Assassinio Alpi–Hrovatin tra traffici di armi, rifiuti tossici, navi a perdere e mafie” (qui il programma completo. Il premio si terrà a Riccione dal 15 al 19 giugno).

A sedici anni dal delitto Alpi-Hrovatin, un rapporto ONU conferma la pista di armi e rifiuti

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Il 20 marzo scorso ricorreva il sedicesimo anniversario dell’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovantin, assassinati a Modagiscio nel 1994. Sul Fatto Quotidiano di oggi, a pagina 15, viene pubblicato un lungo articolo sul rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla Somalia e si sottolinea come l’inchiesta che stava conducendo l’inviata del Tg3, con anni di anticipo, confermasse quanto oggi si scrive al Palazzo di Vetro. Pirateria dei mari, società di contractor, rapporti con l’Italia, il ruolo di Giancarlo Marocchino nella costruzione del porto Eel Ma’an sono alcuni dei passaggi. Ma si torna a parlare anche di armi e rifiuti interrati.

Di tutto questo si tratta nel rapporto, consultabile in formato HTML e pdf (785KB). Cliccando invece sull’immagine sottostante si può leggere l’articolo del Fatto, in cui si spiega anche la possibilità di una revisione del processo al termine del quale è stato condannato Hashi Omar Hassan.

Il rapporto ONU che da' ragione a Ilaria Alpi