“Il golpe invisibile” di Giorgio Galli: dagli anni Settanta a oggi, i passaggi per stracciare la Costituzione

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Il libro di cui si parla in questa intervista a Giorgio Galli realizzata da Radio Radicale è uscito nel gennaio 2015 per Kaos Edizioni. E questa è la presentazione del volume Il golpe invisibile:

Il “golpe invisibile” qui ricostruito dal politologo Giorgio Galli ha preso le mosse negli anni Settanta del secolo scorso, si è rafforzato negli anni Ottanta del craxismo, e ha avuto pieno compimento durante il quasi ventennio berlusconiano. È stato attuato dalla borghesia finanziario-speculativa e dai ceti burocratico-parassitari i quali, assunto il pieno controllo delle forze politiche e preso il potere in forma egemonica, hanno potuto saccheggiare l’Italia repubblicana facendo “carta straccia” di molte pagine della Costituzione. Il “golpe invisibile” dei ceti speculativi e parassitari ha generato un debito pubblico astronomico (decenni di evasione fiscale, di ruberie, corruttele e malversazioni), ha vanificato lo stato di diritto e il controllo di legalità della magistratura, ha consolidato il potere della criminalità organizzata (mafie che sono parte integrante dei ceti speculativi e parassitari), e ha alterato l’economia di mercato riducendo in povertà milioni di imprenditori e lavoratori. Soprattutto, il “golpe invisibile” ha impedito che la società italiana superasse il congenito familismo amorale e si dotasse di una cultura civica.

La storia che non passa secondo Sandra Bonsanti: “Dallo scandalo P2 a Renzi: la lunga marcia anti magistrati”

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Dallo scandalo P2 a Renzi: la lunga marcia anti magistrati. Lo scrive Sandra Bonsanti sul Fatto Quotidiano e ripresa da Micromega online:

Fu nel dibattito che precedeva la fiducia al primo governo laico della storia repubblicana, il 10 luglio 1981, che un pezzo del mondo politico, Psi, Psdi e mezza Dc iniziarono in Parlamento i processi alla magistratura italiana. Spadolini, incaricato da Sandro Pertini, aveva annunciato la sua determinazione a sciogliere la loggia P2, chiedendo uno “sforzo comune di rinnovamento e di pulizia morale”. Ma Longo, Piccoli e Craxi spiegano subito che le loro preoccupazioni riguardano non l’ansia di verità, ma la sorte di Roberto Calvi e degli altri iscritti alla P2. Il segretario del Psdi (affiliato con tessera n. 2223) accenna nel suo intervento a un “accordo” preciso che Spadolini avrebbe ignorato: un accordo, guarda caso, sulla “riparazione” degli errori giudiziari e su una “radicale revisione delle funzioni del Pm”.

Poi si scatenò Craxi e attaccò i magistrati per aver messo le manette a Calvi che aveva cercato (o finto) di suicidarsi. Una reazione “prevedibile” sottolinea Craxi “quando si mettono le manette a finanzieri che rappresentano gruppi che contano per quasi metà del listino di Borsa”. Flaminio Piccoli, segretario della Dc, accusa il Pm di “appropriarsi di un processo come di un bottino, con iniziative frenetiche e spesso irresponsabili”. Chiede che siano dati al ministro di Grazia e Giustizia “poteri di indirizzo e di orientare l’attività”.

A rivederla oggi, quella pagina di storia politica, dopo le dichiarazioni sprezzanti contro la magistratura pronunciate non da un segretario di partito e basta (come erano Craxi, Piccoli e Longo) ma da uno che è anche presidente del Consiglio si direbbe che niente è cambiato, se non peggiorato. Allora almeno ci fu chi dal Pci protestò e chiese conto di quei presunti accordi segreti. Si alzò Ingrao e disse: “Vogliamo veramente sapere come stanno le cose sulla giustizia perché quelle proposte di Longo non ci piacciono affatto”. Bei tempi, si fa per dire, quegli Anni 80 perché almeno non erano tutti o quasi tutti d’accordo, e comunque, i parlamentari dissenzienti dalla linea dei loro segretari votavano come volevano e non venivano chiamati “gufi” e “rosiconi”. Non ricordo che venisse tollerata una politica dell’irrisione. E quando si ricorse al governo laico non destò scalpore il fatto che il partito di Spadolini avesse allora il 3 per cento.

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Faccendieri e papi neri: l’analisi di Girolamo De Michele sulle vite parallele degli uomini che sapevano tutto

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Il faccendiereSi parla del libro Il faccendiere, ma anche di Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio di Michele Gambino e di Divo Giulio – Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, scritto con Giacomo Pacini. È l’analisi politica firmata da Girolamo De Michele su Carmilla che scrive:

Tanta ricchezza informativa fa da contraltare all’incredibile “leggerezza”, al limite dell’elogio servile, con la quale gran parte della stampa italiana ha delicatamente glissato sulle peggiori pagine della nostra storia nel momento in cui, morto Andreotti, sarebbe stato imperativo un bilancio non formale della sua carriera politica. C’è voluto “Il Post” di Luca Sofri perché venisse ripubblicata – con scarsa cura per i refusi – la durissima pagina del Memoriale in cui Aldo Moro, dalla galera brigatista, tracciava un ritratto a lettere di fuoco della statura politica e morale dell’ex amico di partito […].

Se le date hanno un significato, il memoriale-Ciolini compare a sette mesi di distanza da un celeberrimo editoriale vergato di proprio pugno da Bettino Craxi, nel quale il segretario socialista paragonava Gelli a «un attivissimo arcidiavolo, un Belfagor dalle mille risorse, dai mille contatti, intese, dossier, trappole e anche ricatti». Insomma, una specie di «grand commis dell’organizzazione, […] un uomo molto abile, una volpe, ma non un capo […]. Belfagor resta una specie di segretario generale di Belzebù. E se c’è Belzebù, ognuno se lo potrà immaginare come meglio crede, sforzandosi di dargli una fisionomia, una struttura, un nome» (Belfagor e Belzebù “Avanti!”, 31 maggio 1981; Divo Giulio, p. 139). Come se all’io so (l’identità di Belzebù) si volesse rispondere con un anch’io so (del conto aperto dal tuo uomo Larini a Lugano).

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“Antologia di un ventennio”: nel libro di Beppe Lopez la storia d’Italia basata sul ricatto e la necessità di ripartire dagli anni Settanta

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Antologia di un ventennioGli anni Settanta. Sono quelli la chiave per comprendere gli ultimi lustri della storia repubblicana. Se ne ha conferma a leggere Antologia di un ventennio (1992-2012) del giornalista Beppe Lopez. Tangentopoli, la discesa in campo di Silvio Berlusconi o le fregole presidenziali in vista di un’agognata (e scellerata) modifica istituzionale non nascono negli anni Novanta, con l’arresto di Mario Chiesa o con un messaggio televisivo studiato come neanche un film di Hollywood.

Ricostruire la trasposizione contemporanea delle bibliche piaghe d’Egitto – trasposizione di fatti che hanno portato alla devastazione del Paese fino ai livelli oggi – non può prescindere da ciò che è avvenuto prima. Che siano il delitto Moro, l’occupazione della cosa pubblica da parte della P2, il tramonto dell’ipotesi della solidarietà nazionale con il Pci o, ancora, l’ascesa di Bettino Craxi e del craxismo, nulla dei fatti degli ultimi vent’anni appare casuale. Non lo può essere la più volte tentata riforma della giustizia così come non lo sono tanti altri aspetti, dalla frattura del fronte sindacale al progressivo superamento di concetti politici che facevano la differenza tra uno schieramento e l’altro.

Scrive Beppe Lopez anticipando altri passaggi dell’introduzione del suo libro elettronico:

Negli anni Settanta si giocò una partita mortale: da un parte, istanze insieme di democratizzazione e modernizzazione; dall’altra, istanze di mera “modernizzazione” […] senza democratizzazione (e senza vero sviluppo), inaugurando negli anni Ottanta una pratica politica e un costume che raggiunsero la massima potenza negli anni Novanta e che Mani Pulite mise a nudo in tutta la sua mediocrità etica, morale e politica.

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Quello sconosciuto “anello” della Repubblica. “Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro” nella ricostruzione di Aldo Giannuli

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Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro di Aldo GiannuliPer lungo tempo sembrò poco più di un parto di fantasia. Eppure oggi si può dire non solo che è esistito davvero, ma che i suoi uomini hanno avuto ruoli in alcune vicende di primo piano nella storia della prima Repubblica. Si parla del libro di Aldo Giannuli Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea Editore) e di un apparato conosciuto anche con il nome di Anello, un servizio segreto “ufficioso” fondato nella fase calante della seconda guerra mondiale dal potente generale Mario Roatta e poi sopravvissuto ai riassetti – talvolta solo di facciata – degli apparati dello Stato dopo la fine del fascismo.

Notizie – o frammenti di esse – che ne parlano si rintracciano nelle indagini del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana e in qualche commissione parlamentare. E poi ci sono i faldoni del Viminale, quelli scoperti nel 1996, oltre inchieste che hanno portato a processi come quelli per la strage di piazza della Loggia, a Brescia, del 28 maggio 1974. In tutto questo materiale documentale – disponibile anche negli archivi di Stato maggiore, dei ministeri o dei servizi segreti – ecco che emerge una struttura d’intelligence che avrà una proposta “testa”: quella di Giulio Andreotti, che condivideva l’informazione con uno sparuto gruppo di politici nazionali, tra cui Aldo Moro e Bettino Craxi.
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Pentiti di niente: “Quei testimoni sono inattendibili”

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Carlo SaronioCarlo Fioroni ricompare all’inizio del gennaio 1987: è in Francia dove insegna italiano a Lille da alcuni anni con il supporto delle autorità diplomatiche tricolori. Da quanto racconta, non fa certo mistero della sua residenza: a un certo punto afferma infatti di aver conosciuto una ragazza, di essersene innamorato e di aver deciso di sposarsi. Allora nel marzo 1986 scrive personalmente una lettera a Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’interno nel secondo governo Craxi, e si rivolge alle autorità francesi per chiedere la naturalizzazione o quanto meno un permesso di soggiorno di lungo periodo, che gli vengono entrambi negati.

Ma come? Farnesina, Viminale e inquirenti, che tramite l’Interpol lo cercavano in 134 paesi, non lo consideravano irreperibile fin dal 1983 quando valica i confini nazionali, forte del suo discusso passaporto, facendo perdere le sue tracce? Nel periodo della sua latitanza francese si fa chiamare Giancarlo Colombo, ma quando serve presenta documenti su cui sono riportate le sue vere generalità. E parla, Fioroni, in un’intervista al GR1 dicendo che nessuno lo aveva convocato per testimoniare al processo “7 aprile”: mai alcuna comunicazione giunse a lui o ai suoi genitori, residenti in Italia. Di fatto, accertati i movimenti dell’uomo in tutto quel periodo, le cose non starebbero proprio così.

A metà 1984, infatti, di fronte alla necessità di metterlo a confronto con gli imputati del “7 aprile”, la corte d’assise di Roma chiede che Fioroni sia rintracciato e da Roma la richiesta rimbalza a Varese (nella cui provincia Fioroni è nato) e a Milano (dove ha a lungo vissuto). Il 14 novembre 1984 Aurelio Fioroni, padre di Carlo, risponde agli investigatori di sapere solo che il figlio è all’estero, forse in Inghilterra, ma meglio chiedere all’avvocato di Latina che lo dovrebbe rappresentare. Per la sorella, invece, Carlo è negli Stati Uniti o in Canada e pochi giorni dopo Aurelio Fioroni ammette di aver ricevuto in precedenza una telefonata del figlio: lui lo informa che in Italia lo cercano perché vada a Roma a testimoniare al processo “7 aprile”, ma lui risponderebbe che non se la sente. A questo punto, siamo al 29 novembre 1984, parte l’ordine ufficiale di ricerca all’estero e viene fuori che l’uomo sarebbe ad Amsterdam, dove avrebbe chiesto aiuto alle autorità consolari, ma qui si fermerebbero le tracce che lascia dietro di sé.
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“Pentiti di niente”: gli interrogativi su un passaporto inspiegabile

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Carlo SaronioGiunti a un certo punto, verso la metà del 1984, le istituzioni non possono più esimersi dal rispondere alle continue domande sul passaporto concesso a Carlo Fioroni e sulla mancata predisposizione di misure di sorveglianza dell’uomo. A prendere la parola è il sottosegretario agli interni, il democristiano veneto Marino Corder. Il quale prima definisce una “deprecabile assenza” il fatto che Fioroni non si sia presentato al processo. Poi rimbalza la responsabilità addosso a funzionari del ministero di grazia e giustizia che, su parere favorevole di tre magistrati, hanno autorizzato il rilascio di un documento valido per l’espatrio perché al tempo non venne individuata “alcuna causa ostativa”.

Giovanni Spadolini, in questo periodo ministro della difesa, ma capo del governo quando venne concesso il passaporto a Carlo Fioroni, agisce a sua volta e si rivolge al presidente del consiglio Bettino Craxi: il comitato parlamentare per la vigilanza sui servizi di sicurezza deve ricevere informazioni specifiche in merito alle norme varate il 29 marzo 1982 a tutela dei pentiti e coperte dal segreto di Stato. Il leader socialista, alla sua prima esperienza al vertice dell’esecutivo, accetta di far luce sulla vicenda Fioroni al termine di una riunione del CIIS (Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza).

Ma da questa disponibilità ne scaturirà poco, malgrado le posizioni molto critiche verso il processo espresse dal senatore del garofano Luigi Covatta e da Salvo Andò, responsabile del PSI per i problemi dello Stato, secondo il quale “la sentenza 7 aprile non chiude i conti con gli anni di piombo, ma anzi li esaspera”. Le principali speranze di raccapezzarsi in una vicenda così intricata vengono riposte nella commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa che ha aperto un fascicolo per presunte irregolarità dopo la denuncia presentata nell’aprile 1984 da Rossana Rossanda, Carla Mosca e Luigi Ferrajoli ai presidenti di Camera e Senato, Nilde Jotti e Francesco Cossiga.
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E rimasero impuniti: trasparenza sul futuro e foschia sul passato

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E rimasero impunitiIl processo di primo grado contro gli imputati dell’omicidio Calvi, dopo novanta udienze succedutesi nell’arco di due anni e al termine di una giornata di camera di consiglio, non è stato in grado di chiarire una serie di punti. Primo tra tutti, il nome di mandanti ed esecutori. Se sembra provato – come è scritto nelle motivazioni – che «l’uccisione di Roberto Calvi è stata deliberata dalla mafia per punirlo e per evitare che rendesse pubblica la sua attività di riciclaggio e rivelasse i suoi rapporti con le persone che fungevano da canale di collegamento con l’organizzazione criminale», non si è andati oltre un’idea verosimile degli ultimi giorni di vita del banchiere.

Ma non l’esatta ricostruzione di quanto accaduto. E nemmeno è stata data una descrizione di quanto Roberto Calvi minacciava di rivelare proprio alla vigilia della sua morte attraverso una ridda di lettere e di colloqui con il suo fido braccio destro di allora, Flavio Carboni. A tanti anni di distanza, in attesa delle sentenze d’appello e di Cassazione, quello del banchiere di Dio continua a essere uno dei fantasmi più frequenti, misteriosi e forse comodi della recente storia italiana.

Il presidente del Banco Ambrosiano è infatti ancora una presenza concreta nella vita italiana. Si pensi che non sono trascorsi che alcuni mesi da quando si discuteva dell’inclusione di Roberto Calvi e di Michele Sindona nel dizionario biografico degli imprenditori della Treccani, almeno nell’opera generale (poi però la crisi dell’editoria e quella più in generale dell’economia hanno fatto mettere in discussione la vita stessa del dizionario, sotto lo spauracchio di un drastico taglio del suo budget). E – nota a margine – nessuno gli ha mai revocato l’onorificenza di cavaliere del lavoro e medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte.
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Giovannone, il Lawrence d’Arabia nella Beirut palestinese

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Domani di Maurizio ChiericiStefano Giovannone aveva 64 anni quando morì e mezzo secolo della sua vita l’aveva trascorso vestendo abiti militari. Ma alla metà del luglio 1985, quando si spense nella sua abitazione di Roma, la sua carriera – arrestatasi al grado di colonnello – era precipitata ben più in basso rispetto alla considerazione che si era guadagnato in tanti anni di attività sul campo e in particolare dal 1965 al 1981, quando aveva fatto parte dei servizi segreti militari.

Nelle settimane che precedettero la sua morte gli era stata concessa la libertà provvisoria. Per lui, infatti, era stato chiesto (e ottenuto) l’arresto – tramutato poi in domiciliari per ragioni di salute – nell’ambito di un’indagine veneziana e di un’altra romana. Ma non erano le uniche che lo chiamavano direttamente in causa. Andiamo con ordine.

Ai tempo d’oro, il colonnello era noto per un vezzeggiativo, il “Lawrence d’Arabia” italiano, e la sua conoscenza dello scacchiere mediorientale aveva fatto la differenza. Una differenza che ancora in tempi recenti è tornata a emergere. Si pensi per esempio che all’inizio dell’estate 2008, dal carcere parigino di Poissy, dell’ex ufficiale del Sismi parlò il terrorista filopalestinese Ilich Ramirez Sanchez, al secolo Carlos, il venezuelano a capo del gruppo Separat ribattezzato dalla stampa lo “sciacallo” perché, durante una perquisizione, tra i suoi effetti personali venne trovato il quasi omonimo romanzo di Frederick Forsyth.
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Marco Damilano: non era l’amicizia che univa vecchi e nuovi premier

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A proposito delle revisioni storico-politiche di questi giorni, è interessante il post che Marco Damilano pubblica sul blog Lost in politics a proposito di quello che unisce Craxi a Berlusconi:

Non è l’amicizia, come ha detto oggi Berlusconi all’uscita di casa del cardinale Ruini. Meglio del Cavaliere lo spiega una pagina del diario di Walter Tobagi, pubblicata nello stupendo libro della figlia Benedetta “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi).

«30 ottobre 1979. Il “Corriere” pubblica oggi un’intervista anonima a Craxi. Se l’è scritta Craxi da solo. Pilogallo mi racconta che il testo l’hanno portato Tassan Din e Angelo Rizzoli alle otto e mezzo di sera, i quali l’hanno consegnato a Di Bella. E Di Bella ha ritagliato le risposte, le hanno incollate su altri fogli, scrivendo di suo pugno (meglio: ricopiando) le domande che Craxi s’era fatte da solo. È vergognoso: sia per Craxi che per Di Bella».

Gli editori Bruno Tassan Din, Angelo Rizzoli e il direttore del “Corriere” Franco Di Bella erano iscritti alla loggia P2. Come Berlusconi, data di affiliazione 26 gennaio 1978, tessera numero 1816. E la singolare concezione della libertà di stampa, le autointerviste, non è l’unica cosa che collega Craxi a Berlusconi. Il volantino di rivendicazione dell’omicidio del giornalista fu ritrovato nella valigia di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Craxi andò a casa Tobagi a spiegare alla vedova che conosceva importanti documenti sull’assassinio del marito, ma che non poteva produrli per senso di responsabilità. La signora Maristella mise il segretario del Psi alla porta, «poi un pianto dirotto. È stato Craxi a provocarlo. A casa nostra non mise più piede». Per queste pagine Stefania Craxi ha accusato Benedetta Tobagi di «farneticazioni, allucinazioni, incapacità di uscire dal suo ruolo di figlia». Lei ne sa qualcosa.

Walter Tobagi, ricorda Benedetta, era socialista, aveva apprezzato l’elezione di Craxi alla segreteria del Psi nel ‘76, ma le sue speranze si affievolirono ben presto. Fu ucciso sotto casa, da una banda di aspiranti brigatisti il 28 maggio 1980. Il suo assassino Marco Barbone si è pentito, è stato subito scarcerato, è responsabile comunicazione della potente Compagnia delle Opere. A maggio sono trent’anni che siamo stati privati di Tobagi: chissà se anche Walter avrà un messaggio di commemorazione.