Calcio-scandali, il romanzo di un medico sportivo. “Strani faccendieri attorno ai giocatori. E attenti alle squadre giovanili: l’inquinamento comincia lì”

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Quarto tempo. Una storia di sesso e dopingClaudio Gavioli è un medico sportivo che dal 1984 frequenta il mondo del calcio, serie B soprattutto. Per ventiquattro anni ha lavorato per il Modena e da due anni fa il consulente anche per altre squadre emiliane, come il Sassuolo e il Carpi. “È un mondo che mi ha prosciugato, anche per questo me ne sono allontanato passando da organico a consulente”.

Per Gavioli un metodo per “esorcizzare” l’intossicazione da quella “strana fauna” che ruota intorno al pallone è stato scrivere un romanzo. Si intitola Quarto tempo. Una storia di sesso e doping, appena pubblicato da Aliberti Editore. “E dire che il mio libro voleva essere un esperimento letterario. Invece mi ritrovo ancora a parlare dei retroscena delle squadre”, scherza il medico che negli ultimi giorni, dopo l’esplosione dell’inchiesta di Cremona sul calcio scommesse, viene contattato non tanto per parlare della sua opera, ma di un ambiente che va molto oltre il semplice fatto sportivo.

Domani di Maurizio Chierici“La mia intenzione”, prosegue Gavioli, “era quella di usare il calcio come allegoria per parlare di discriminazione, sistemi illegali per aggirare le regole, sessismo, culto frenetico dell’immagine”. Tombola, insomma, a leggere le carte giudiziarie della procura lombarda, ma anche quelle di Napoli, dove c’è un fascicolo che racconta dei contatti di Mario Balotelli, classe 1990 e maglia della nazionale, con gente della camorra. Per quanto lui neghi di aver saputo che quelle persone appartenessero alla criminalità organizzata, sarebbero loro ad avergli organizzato un “tour turistico” nelle piazze di spaccio di Scampia.
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La P2 nei diari di Tina Anselmi: “Basta una sola persona che ci governa ricattabile perché la democrazia sia a rischio”

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La P2 nei diari segreti di Tina AnselmiHa più i connotati del documento storico che quelli della ricostruzione il libro uscito poche settimane fa per i tipi di Chiarelettere. Si tratta del volume La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, curato dalla saggista e scrittrice Anna Vinci, 576 pagine in cui si cerca di rispondere a una domanda che formulò Giuliano Turone, il magistrato che il 17 marzo 1981 scoprì insieme a Gherardo Colombo gli elenchi della loggia massonica di Licio Gelli: «Perché questa volontà pertinace di sottovalutare, di ignorare, persino di scacciare dalla mente il fenomeno P2 e tutte le allarmanti vicende connesse che sono emerse negli ultimi trent’anni?»

Il libro curato da Vinci riunisce più di tre anni e mezzo di appunti presi dal dicembre 1981 al luglio del 1984 dalla presidentessa della commissione parlamentare che indagò sulla P2. Fogli, in alcuni casi, pagine più organiche in altri, per tenere a mente informazioni che riguardano moltissime delle persone che, per un motivo o per un altro, erano entrati in contatto con il sistema gelliano. Tra queste Flavio Carboni, grande “protagonista” di quegli anni e attualmente sotto indagine per la cosiddetta P3, Roberto Calvi, Fabrizio Cicchitto, Giulio Andreotti, Giancarlo Elia Valori. In coda al libro, poi, ci sono lettere scritte da Francesco Cossiga, Michele Sindona e dallo stesso Gelli.
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P3: l’inchiesta raccontata da Giusy Arena e Filippo Barone tra ricostruzioni e intercettazioni

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P3 di Giusy Arena e Filippo BaroneDai palazzi del potere non si è più in tempo per impedire la pubblicazione delle intercettazioni raccolte in appendice al volume P3 – Tutta la verità di Giusy Arena e Filippo Barone. Trascrizioni curate dal nucleo informativo e dal reparto operativo dei carabinieri del Lazio in cui si attesta che l’affaire esploso a fine primavera non era una cricchetta limitata a pochi “pensionati sfigati” che giocava a corrompere frange limitate della cosa pubblica e privata. Anzi, con interviste e testimonianze inedite, il volume parte dall’inchiesta “Insider”, che tocca Marcello dell’Utri, Denis Verdini, Flavio Carboni e molti altri personaggi della ribalta politica, imprenditoriale e faccendieristica italiana.

E lo fa in momenti delicati. Carboni, uomo che ha attraversato sostanzialmente indenne molte vicende di malaffare tricolore, in secondo grado era appena stato assolto (per insufficienza di prove, si sarebbe detto una volta) per l’omicidio del banchiere di Dio Roberto Calvi. Mentre dell’Utri, ai tempi in cui scatta l’operazione di magistratura e forze dell’ordine, è ancora sotto processo e oggi è fresco di condanna in appello per i suoi disinvolti rapporti con cosa nostra. Rapporti di cui beneficiò – dice la sentenza, le cui motivazioni sono state rese note alla fine dello scorso novembre – Silvio Berlusconi, il probabile “Cesare” dell’inchiesta “Insider”.

Questo libro, da poco uscito per i tipi della Editori Riuniti, è dunque un utile vademecum per districarsi una volta di più nel complesso disegno del crimine sotto l’egida della politica, dei vincoli massonici o pseudo tali, degli affari a scopo unico di arricchimento personale (non c’è nemmeno più la scusa dei quattrini incassati e girati al partito). Se le responsabilità personali saranno individuate in processi che devono ancora partire, le pagine di questo volume sono un viaggio in sigle ed espressioni che spesso compaiono sui giornali di questo periodo: lodo Alfano, faccende all’ombra del Vesuvio, giochi tracciati nei corridoi della Mondadori.
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E rimasero impuniti: “Se domani il santissimo non mi paga le fatture della Polonia, lo faccio saltare”

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E rimasero impunitiL’istituto vaticano, dunque, sembra proiettato verso un futuro che annulli – o quanto meno riduca – le malversazioni per le quali i suoi conti hanno fatto molto parlare. Malversazioni che, lungi dall’essere state punite, non sono state neanche mai del tutto chiarite. La banca vaticana nacque nel 1942 per farsi carico dei possedimenti terreni di pochi clienti d’élite e per questo chiedeva loro opere di carità. Che la carità non fosse però proprio uno stile di vita condiviso da tutti era emerso già nella seconda metà degli anni Settanta, quando intercorrevano i primi abboccamenti tra Santa Sede e governo italiano per il rinnovo del concordato nel 1929, siglato il 18 febbraio 1984.

In quel periodo, un gruppo di cronisti dell’Europeo, capitanato da Paolo Ojetti e sotto la direzione di Gianluigi Melega, «inciampò» negli estratti catastali di molti palazzi romani, concentrati soprattutto nel centro della capitale e nelle zone più prosperose delle periferie collinari. Scavando, si arrivò a stabilire che uno su quattro di quegli edifici era o era stato di proprietà del Vaticano e che le attività di compravendita avevano generato guadagni e plusvalenze mai toccate dal fisco.

Lo scandalo che ne seguì fu notevole, considerando poi che si era lavorato su una sola città, Roma, per quanto conosciuta come la città delle 1265 chiese. Da oltre Tevere si accusarono direttore e giornalisti di condurre una battaglia contro la religione cattolica e il clero. E sebbene tutto ciò che era stato scritto fosse dimostrabile, Melega lasciò il suo posto alla direzione del mensile di casa Rizzoli, nel frattempo sotto l’arrembaggio di Licio Gelli, Umberto Ortolani e Bruno Tassan Din, che volevano il Corriere della Sera. Ma ciò che emerse dalle pagine del periodico milanese sarebbe stata la punta dell’icerberg.
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E rimasero impuniti: trasparenza sul futuro e foschia sul passato

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E rimasero impunitiIl processo di primo grado contro gli imputati dell’omicidio Calvi, dopo novanta udienze succedutesi nell’arco di due anni e al termine di una giornata di camera di consiglio, non è stato in grado di chiarire una serie di punti. Primo tra tutti, il nome di mandanti ed esecutori. Se sembra provato – come è scritto nelle motivazioni – che «l’uccisione di Roberto Calvi è stata deliberata dalla mafia per punirlo e per evitare che rendesse pubblica la sua attività di riciclaggio e rivelasse i suoi rapporti con le persone che fungevano da canale di collegamento con l’organizzazione criminale», non si è andati oltre un’idea verosimile degli ultimi giorni di vita del banchiere.

Ma non l’esatta ricostruzione di quanto accaduto. E nemmeno è stata data una descrizione di quanto Roberto Calvi minacciava di rivelare proprio alla vigilia della sua morte attraverso una ridda di lettere e di colloqui con il suo fido braccio destro di allora, Flavio Carboni. A tanti anni di distanza, in attesa delle sentenze d’appello e di Cassazione, quello del banchiere di Dio continua a essere uno dei fantasmi più frequenti, misteriosi e forse comodi della recente storia italiana.

Il presidente del Banco Ambrosiano è infatti ancora una presenza concreta nella vita italiana. Si pensi che non sono trascorsi che alcuni mesi da quando si discuteva dell’inclusione di Roberto Calvi e di Michele Sindona nel dizionario biografico degli imprenditori della Treccani, almeno nell’opera generale (poi però la crisi dell’editoria e quella più in generale dell’economia hanno fatto mettere in discussione la vita stessa del dizionario, sotto lo spauracchio di un drastico taglio del suo budget). E – nota a margine – nessuno gli ha mai revocato l’onorificenza di cavaliere del lavoro e medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte.
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“E rimasero impuniti”: sotto il ponte un corpo con i piedi immersi nell’acqua del Tamigi

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E rimasero impunitiIl 18 giugno 1982, il primo ad accorgersi di un cadavere fu un dipendente della Daily Express. Si chiamava Anthony James Huntley e alle 7,25 stava camminando lungo la riva del Tamigi, sul lato nord del fiume. Percorrendo quella strada, sarebbe passato sotto il ponte dei Frati Neri al quale era fissata un’impalcatura che finiva nell’acqua. Quella mattina, all’impalcatura, c’era attaccato qualcosa di strano e Huntley si sporse per vedere di che si trattasse. Era il corpo di un uomo. I piedi erano immersi nell’acqua fino alle caviglie e intorno al collo passava una corda annodata a uno dei tubolari.

L’istinto del passante fu quello di scappare e come un dannato fece il suo ingresso al lavoro. Stephen Edwin Pullen, un collega, si accorse che qualcosa non andava e nel giro di qualche minuto aveva avvertito la polizia per poi trascinare Huntley di nuovo verso il ponte. Così, venticinque minuti più tardi, i due erano già lì a indicare il corpo dello sconosciuto agli agenti John Palmer e Gerald Saint. Che si misero ad appuntare i primi particolari della scena. La corda che a cappio passava intorno alla gola del cadavere era in fibra sintetica arancione ed era stata legata intorno a un occhiello di metallo del secondo tubo dell’impalcatura, allestita il 10 maggio 1982 per alcuni lavori di manutenzione a un canale di scolo. La struttura, in base alle annotazioni della polizia metropolitana, era stata agganciata una ventina di centimetri sotto il parapetto del ponte e scendeva per otto metri. Vi si poteva accedere usando una scala a pioli di metallo che arrivava a lambire la superficie del fiume e gli ottanta centimetri che la separavano dall’impalcatura erano colmati da un’asse di legno.

Intanto era arrivata anche una motolancia della polizia fluviale con altri tre agenti, Michael Stewart, John Johnston e Donald Bartliff, che slegarono la fune senza rimuovere il cappio dal collo. Dopodiché, tutti e tre adagiarono il corpo sull’imbarcazione lottando contro i suoi 85 chili e i flutti della marea crescente. Infine raggiunsero la banchina di Waterloo, dove il morto venne disteso in attesa del medico legale, che arrivò alle 9,40.
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Caso Calvi, banchiere di Dio: tutti assolti, ucciso da nessuno

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Domani di Maurizio ChiericiNon che ci si aspettasse qualcosa di diverso. I (pochi, pochissimi) giornali che hanno coperto il processo d’appello per l’omicidio di Roberto Calvi lo avevano annunciato: dal dibattimento non sta emergendo alcun elemento nuovo rispetto al primo processo ed è dunque probabile che saranno di nuovo tutti assolti. Così è stato. Flavio Carboni (http://domani.arcoiris.tv/?p=3277), tornato a occupare le cronache giudiziarie insieme al pidiellino Denis Verdini per business poco chiari nell’eolico, Pippo Calò ed Ernesto Diotallevi – simboli rispettivamente di affarismo, mafia e banda della Magliana – non sono stati ritenuti responsabili né materialmente né moralmente della fine che fece il “banchiere di Dio”, impiccato il 18 giugno 1982 a Londra, sotto il ponte dei Frati Neri.

Rimane la chiazza, in forza della pur non più recentissima riforma del codice di procedura penale, del secondo comma all’articolo 530 del codice di procedura penale, quello secondo cui «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». Una volta si chiamava insufficienza di prova, ma la rimozione formale di quest’espressione non toglie la sostanza di un’assoluzione a cui viene applicato questo sigillo: secondo la corte, manca l’elemento definitivo di colpevolezza e dunque non c’è margine per la condanna.

Se sul piano personale si tratta di una vittoria per gli imputati, a un livello più ampio è una sconfitta politica e storica. Non tanto per il bis assolutorio quanto perché questa sentenza pone di fatto la parola fine al percorso giudiziario che avrebbe di fatto dovuto stabilire chi e perché fece fuori uno dei banchieri più potenti d’Italia, secondo forse solo al suo più abile e cinico predecessore, Michele Sindona. Tempo un paio d’anni, infatti, e la parola prescrizione dichiarerà l’estinzione del reato. E se una qualsiasi ulteriore ricostruzione sarà possibile, ora tocca ai ricercatori e agli storici.
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Delitto Calvi: la seconda assoluzione e un crimine senza colpevoli

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E rimasero impunitiSeconda assoluzione per il delitto Calvi. Di questa sentenza sarà molto interessante leggere le motivazioni, quando usciranno, per capire in che modo Roberto Calvi è stato ucciso per la seconda volta e che differenza c’è rispetto al primo grado (che si avvaleva del secondo comma all’articolo 530 del codice di procedura penale. Questo). E a proposito di questo caso e di diversi altri collegati, ecco cosa scrive Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, a prefazione di E rimasero impuniti.

Questo libro dimostra che c’è un livello di impunità tutt’altro che marginale in questo Paese. Il caso Calvi, presentato all’inizio come un suicidio al quale in pochi hanno creduto, si è delineato per quello che in realtà era: un omicidio. Un omicidio per il quale, però, non ci sono colpevoli, allo stato attuale, ma solo degli imputati, già assolti in primo grado.

Era il 18 giugno 1982 quando il banchiere Roberto Calvi venne trovato impiccato sotto il ponte di Blackfriars, sul Tamigi. Sono passati quasi ventotto anni da allora, ma la sua morte e i processi che sul suo caso furono aperti tracciarono un’epoca intrisa di affarismo e giochi finanziari che videro incrociarsi il “salvatore” della lira Michela Sindona, lo IOR (la banca del Vaticano), la loggia massonica P2 e alcuni esponenti di spicco della banda della Magliana e della mafia (come Giuseppe Calò, Francesco Di Carlo e altri). Infine non è mancato il più volte inquisito Flavio Carboni.

Sono trascorsi ventotto anni in cui, oltre a dare un riscontro di verità a quella morte, l’Italia dovrebbe avere subito un riassetto in cui certe spericolate operazioni e il mondo che faceva capo alla cosiddetta prima Repubblica avrebbero dovuto essere un retaggio del passato. Un retaggio a cui si sarebbe potuto guardare dicendo che ormai siamo immuni da certe situazioni.
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“E rimasero impuniti”: crimini legati al delitto Calvi il 19 maggio in libreria e in download

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E rimasero impunitiSi intitola E rimasero impuniti – Dal delitto Calvi ai nodi irrisolti di due Repubbliche e uscirà in libreria per Socialmente Editore il prossimo 19 maggio (contestualmente il pdf integrale sarà scaricabile da Internet). Il libro si pone in continuità con Il programma di Licio Gelli (in download da qui), uscito un anno fa, e può essere considerato come un secondo capitolo di una storia tutt’altro che chiusa. Per sommi capi, ecco ciò di cui si parla:

La sentenza che chiude il processo di primo grado per la morte di Roberto Calvi, il banchiere di Dio, manda assolti tutti gli imputati, qualcuno con formula piena e quasi tutti gli altri con la vecchia insufficienza di prove. Tra questi ci sono Flavio Carboni, Pippo Calò, Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor. Nomi che, nella recente storia italiana, significano imprenditoria disinvolta, affarismo, cosa nostra, banda della Magliana, terrorismo, stragi e contrabbando. Ripercorrere questo pezzo di passato prossimo significa addentrarsi in angoli di una Repubblica che, tra Prima e Seconda incarnazione, non ha ancora fatto i conti con quanto ha vissuto negli ultimi decenni.

La prefazione è stata scritta da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Ed è dedicato a Oscar Marchisio, amico ed editore scomparso lo scorso agosto. Mi aveva proposto meno di due anni fa di scrivere Il programma di Licio Gelli e dunque anche questo secondo lavoro non sarebbe in pubblicazione se non fosse stato per lui.

Il caso Calvi e la valigetta dei documenti che ricomparve anni dopo il suo omicidio

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Black Friars - Foto di Marco ZakRoberto Calvi. Un nome che torna spesso – e in tempi di rivisitazione della storia craxiana – è tornato con maggiore frequenza. La sua carriera all’interno del Banco Ambrosiano con bancarotta finale, le sue pericolose commissioni affaristico-criminali con banchieri vaticani, P2, partiti politici (Dc e Psi in primis) e avventurieri vari hanno dato origine a molteplici procedimenti giudiziari. In attesa della sentenza d’appello ai suoi presunti assassini, assolti in primo grado con una formula che richiama la vecchia insufficienza di prove, tra questi processi ce n’è però uno che con gli anni è andato progressivamente dimenticato: quello per la ricettazione dei documenti contenuti nella borsa che Calvi portò con sé negli ultimi giorni della sua vita, finita sotto il ponte dei Frati Neri di Londra il 17 giugno 1982. Per iniziare a raccontarlo, questo pezzo di storia, occorre fare un salto in avanti.

Il primo giorno dell’aprile 1986 i telespettatori che seguono la trasmissione Spot di Enzo Biagi assistono in diretta a una scena per lo meno curiosa: in studio, oltre al celebre giornalista, ci sono il senatore Giorgio Pisanò e un imprenditore sardo, Flavio Carboni, già noto alle cronache giudiziarie per essere stato il braccio destro di Roberto Calvi e averlo accompagnato nel suo ultimo viaggio verso la Gran Bretagna. Il senatore con sé ha una borsa nera, una Valextra a soffietto, e prima di compiere qualsiasi gesto premette di non conoscerne il contenuto. Dopodiché la apre tenendo con il fiato sospeso chi guarda, memore della fine violenta che poco meno di quattro anni prima aveva fatto il suo proprietario. Si tratta infatti della borsa di Roberto Calvi, spiega l’allora parlamentare che, dal 10 novembre 1981 all’11 luglio 1983, aveva anche fatto parte della commissione d’inchiesta sulla P2. E a «certificarne» l’autenticità non a caso c’è Carboni.
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