Aldo Giannuli e il racconto di una tradizione italiana, il dossieraggio a uso privato

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Aldo Giannuli racconta sul suo blog di una “tradizione” (“un pezzo di identità nazionale, metà fra storia e folklore, come la pastasciutta, Va pensiero e la mamma”) a cui l’Italia sembra tenere molto, il dossieraggio a uso privato. E ne fa un po’ di storia:

Il generale De Lorenzo si difese davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sul Sifar dicendo: “La pratica dei dossier non l’ho inventata io, quando arrivai alla guida del Sifar, essa già c’era”. Infatti, se è con Giolitti che inizia la schedatura sistematica degli oppositori con il Casellario Politico Centrale, con Mussolini nasce la prassi di schedare le massime autorità dello Stato.

Aggiungendo una particolarità:

Il nostro è un dossieraggio democratico: mica solo spionaggio del governo contro l’opposizione, ma anche nei confronti dei colleghi di governo. Tutti schedati, tutti a rischio sputtanamento. La prassi raggiunse livelli di arte sopraffina con la guerra fra i vari potentati Dc dal 1953 in poi.

Per ripercorrerla, la storia di questa tradizione, ricostruisce il caso Montesi e poi si inoltra nello zelo che dimostrò il generale Giovanni De Lorenzo. Il post di Giannuli continua qui.

E rimasero impuniti: trasparenza sul futuro e foschia sul passato

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E rimasero impunitiIl processo di primo grado contro gli imputati dell’omicidio Calvi, dopo novanta udienze succedutesi nell’arco di due anni e al termine di una giornata di camera di consiglio, non è stato in grado di chiarire una serie di punti. Primo tra tutti, il nome di mandanti ed esecutori. Se sembra provato – come è scritto nelle motivazioni – che «l’uccisione di Roberto Calvi è stata deliberata dalla mafia per punirlo e per evitare che rendesse pubblica la sua attività di riciclaggio e rivelasse i suoi rapporti con le persone che fungevano da canale di collegamento con l’organizzazione criminale», non si è andati oltre un’idea verosimile degli ultimi giorni di vita del banchiere.

Ma non l’esatta ricostruzione di quanto accaduto. E nemmeno è stata data una descrizione di quanto Roberto Calvi minacciava di rivelare proprio alla vigilia della sua morte attraverso una ridda di lettere e di colloqui con il suo fido braccio destro di allora, Flavio Carboni. A tanti anni di distanza, in attesa delle sentenze d’appello e di Cassazione, quello del banchiere di Dio continua a essere uno dei fantasmi più frequenti, misteriosi e forse comodi della recente storia italiana.

Il presidente del Banco Ambrosiano è infatti ancora una presenza concreta nella vita italiana. Si pensi che non sono trascorsi che alcuni mesi da quando si discuteva dell’inclusione di Roberto Calvi e di Michele Sindona nel dizionario biografico degli imprenditori della Treccani, almeno nell’opera generale (poi però la crisi dell’editoria e quella più in generale dell’economia hanno fatto mettere in discussione la vita stessa del dizionario, sotto lo spauracchio di un drastico taglio del suo budget). E – nota a margine – nessuno gli ha mai revocato l’onorificenza di cavaliere del lavoro e medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte.
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