E rimasero impuniti: trasparenza sul futuro e foschia sul passato

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E rimasero impunitiIl processo di primo grado contro gli imputati dell’omicidio Calvi, dopo novanta udienze succedutesi nell’arco di due anni e al termine di una giornata di camera di consiglio, non è stato in grado di chiarire una serie di punti. Primo tra tutti, il nome di mandanti ed esecutori. Se sembra provato – come è scritto nelle motivazioni – che «l’uccisione di Roberto Calvi è stata deliberata dalla mafia per punirlo e per evitare che rendesse pubblica la sua attività di riciclaggio e rivelasse i suoi rapporti con le persone che fungevano da canale di collegamento con l’organizzazione criminale», non si è andati oltre un’idea verosimile degli ultimi giorni di vita del banchiere.

Ma non l’esatta ricostruzione di quanto accaduto. E nemmeno è stata data una descrizione di quanto Roberto Calvi minacciava di rivelare proprio alla vigilia della sua morte attraverso una ridda di lettere e di colloqui con il suo fido braccio destro di allora, Flavio Carboni. A tanti anni di distanza, in attesa delle sentenze d’appello e di Cassazione, quello del banchiere di Dio continua a essere uno dei fantasmi più frequenti, misteriosi e forse comodi della recente storia italiana.

Il presidente del Banco Ambrosiano è infatti ancora una presenza concreta nella vita italiana. Si pensi che non sono trascorsi che alcuni mesi da quando si discuteva dell’inclusione di Roberto Calvi e di Michele Sindona nel dizionario biografico degli imprenditori della Treccani, almeno nell’opera generale (poi però la crisi dell’editoria e quella più in generale dell’economia hanno fatto mettere in discussione la vita stessa del dizionario, sotto lo spauracchio di un drastico taglio del suo budget). E – nota a margine – nessuno gli ha mai revocato l’onorificenza di cavaliere del lavoro e medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte.

Se si parla di pubblici riconoscimenti, poi, il banchiere è in buona compagnia, se si tiene conto che tra i meritevoli morti spiccano i nomi di Umberto Ortolani, braccio destro di Licio Gelli, e di Giovanni De Lorenzo, il generale del Piano Solo, e tra i vivi di Callisto Tanzi, malgrado il clamoroso crac della Parmalat, e Duilio Poggiolini, piduista napoletano divenuto il «Re Mida» della sanità e coinvolto negli anni novanta nello scandalo del sangue infetto.

Intanto, sempre negli ultimi anni e appena prima della discussione sul dizionario biografico, erano stati messi all’asta alcuni beni, tra arredi e opere d’arte, dell’architetto Silvano Larini, noto per essere stato un fedelissimo di Bettino Craxi al punto da gestirne il Conto Protezione. Il denaro ricavato da quella vendita, quarantottomila euro circa, sono andati a risarcire un piccolo gruppo dei quaranta mila risparmiatori truffati con il crac della banca di Calvi. Il collegamento tra il professionista socialista e gli affari piduistico-ambrosiani passa attraverso le sollecitazioni di Licio Gelli al segretario del PSI Craxi: quest’ultimo doveva saldare un debito da ventuno milioni di dollari contratti con l’istituto di Calvi. Ne sono stati restituiti, secondo le indagini condotte al tempo di Mani Pulite, solo sette, transitati in due operazioni sul conto 633369 dell’UBS di Lugano.

Ma ci sono ancora le recentissime dichiarazioni dell’Accattone, al secolo Antonio Mancini, il componente della banda della Magliana tornato a raccontare i presunti retroscena della scomparsa della quindicenne vaticana Emanuela Orlandi. Sulla scorta di rivelazioni da qualche anno affidate a Sabrina Minardi, ex amante di un altro componente della Magliana, Enrico De Pedis, Mancini ha ribadito nell’inverno 2010 che l’adolescente svanita nel nulla il 22 giugno 1983 sarebbe stata prelevata proprio da De Pedis allo scopo di far pressioni sul papa. E quel rapimento sarebbe stato un’escalation passata – riportava La Repubblica – dall’«aver provato, inutilmente, a uccidere il vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, aver inviato foto compromettenti di papa Carol Wojtyla attraverso Licio Gelli, aver preso parte all’eliminazione di Roberto Calvi».

Inoltre, in merito alle dichiarazioni fatte al fratello della ragazza da parte dello sparatore del papa, il turco Mehmet Ali Ağca, rilasciato il 18 gennaio 2010, Mancini aggiunge: «Continua a dire che è viva, no? Che la riporta in Vaticano a giugno, giusto? Aspettiamo e speriamo bene, così siamo tutti contenti». Chi stia dicendo anche solo un briciolo di verità in questa vicenda a quasi trent’anni dai fatti non si sa.

Inoltre, c’è una parte della storia del delitto Calvi che non è arrivata davanti a una corte perché nel 2008 ne è stata chiesta, ottenendola, l’archiviazione. Anche in questo caso non è stato messo in dubbio l’omicidio del banchiere, confermato dopo il «verdetto aperto» inglese e le indagini italiane, anche dalla svolta data alle indagini di Otello Lupacchini che, nel 1999, in qualità di giudice istruttore, fece riesumare il corpo della vittima per condurre nuovi accertamenti. Quella che è stata archiviata è l’indagine a carico di Licio Gelli, Hans Albert Kunz (che ebbe un ruolo centrale nella fuga dall’Italia di Calvi e che si occupò soprattutto della logistica e degli spostamenti su aerei privati) e Gaetano Badalamenti (indicato da un pentito come mandante del delitto). Per quest’ultimo si è arrivati alla chiusura del fascicolo perché morto nel 2004 mentre si trovava in una clinica del Massachusetts. Per gli altri due, invece, non sono stati «raggiunti […] elementi di prova idonei a sostenere proficuamente l’accusa in giudizio».

Però le indagini non si sono fermate. In questi anni, il procuratore Giovanni Ferrara e il sostituto Luca Tescaroli hanno tentato di passare al setaccio alcuni conti correnti aperti alle Bahamas. In proposito, il quotidiano inglese The Observer scriveva nell’estate del 2007 che proprio lì sarebbero finiti i vari miliardi di lire volatizzatisi dopo la bancarotta dell’Ambrosiano. Ne era certa Scotland Yard e la magistratura italiana lo pensava da almeno due anni ni. Tanto che la prima richiesta di rogatoria è datata settembre 2005. Ma mancando qualsiasi risposta dall’arcipelago delle Indie Occidentali, la procura romana aveva chiesto di nuovo all’allora governo di Romano Prodi di intervenire. Ne sono seguite risposte interlocutorie che non hanno consentito, neanche dopo l’avvicendamento politico dell’aprile 2008 a Palazzo Chigi, di procedere su questo versante.