“Chi ha ucciso Pio La Torre?”: vita e morte di un uomo che “diede fastidio a tutti” nella recensione di E Il Mensile

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Chi ha ucciso Pio La TorreAntonio Marafioti pubblica la sua recensione per E Il Mensile del libro di Paolo Mondani e Armando Sorrentino intitolato Chi ha ucciso Pio La Torre? (Castelvecchi, prefazione di Andrea Camilleri). E usa queste parole:

Gli intrighi noti al segretario siciliano erano davvero tanti e lui non si risparmiò mai nella ricerca di quella verità che ancor oggi sembra lontana dall’essere appurata: Portella della Ginestra, la stagione degli omicidi politici siciliani, l’installazione dei missili a Comiso, la lotta per la legge Rognoni-La Torre per la confisca dei beni alle cosche e l’introduzione del reato di associazione mafiosa. E ancora Cosa nostra e la Democrazia Cristiana di Vito Ciancimino e Salvo Lima, Gladio in Sicilia, l’Anello di Andreotti, La P2 di Licio Gelli, e l’incrocio fra massoneria e capi mafia. Pio La Torre “diede fastidio” proprio a tutti, si mise al centro di un fuoco incrociato che partiva finanche dai fucili Thompson di fabbricazione statunitense.

Furono queste le armi usate per la sua esecuzione e ancora ci si chiede il perché, visto che la mafia aveva a disposizione i ben più potenti e nuovi kalashnikov. Ma quella mafiosa, seppur la più plausibile, non sembrerebbe essere l’unica pista da seguire. Se gli esecutori sono stati rintracciati i mandanti rimangono ancora occulti. Per molti l’attentato a La Torre avrebbe fatto comodo a qualcuno più in alto della cupola di Cosa nostra. È quello che lui chiamava “terrorismo politico mafioso” e che affonda le radici in episodi mai del tutto chiariti, come quello del tentato golpe che Junio Valerio Borghese cercò di organizzare nel dicembre del 1970 con l’aiuto della mafia siciliana.

Continua qui. Invece la scheda del libro si trova qui.

Quello sconosciuto “anello” della Repubblica. “Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro” nella ricostruzione di Aldo Giannuli

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Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro di Aldo GiannuliPer lungo tempo sembrò poco più di un parto di fantasia. Eppure oggi si può dire non solo che è esistito davvero, ma che i suoi uomini hanno avuto ruoli in alcune vicende di primo piano nella storia della prima Repubblica. Si parla del libro di Aldo Giannuli Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea Editore) e di un apparato conosciuto anche con il nome di Anello, un servizio segreto “ufficioso” fondato nella fase calante della seconda guerra mondiale dal potente generale Mario Roatta e poi sopravvissuto ai riassetti – talvolta solo di facciata – degli apparati dello Stato dopo la fine del fascismo.

Notizie – o frammenti di esse – che ne parlano si rintracciano nelle indagini del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana e in qualche commissione parlamentare. E poi ci sono i faldoni del Viminale, quelli scoperti nel 1996, oltre inchieste che hanno portato a processi come quelli per la strage di piazza della Loggia, a Brescia, del 28 maggio 1974. In tutto questo materiale documentale – disponibile anche negli archivi di Stato maggiore, dei ministeri o dei servizi segreti – ecco che emerge una struttura d’intelligence che avrà una proposta “testa”: quella di Giulio Andreotti, che condivideva l’informazione con uno sparuto gruppo di politici nazionali, tra cui Aldo Moro e Bettino Craxi.
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“Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”: in uscita il nuovo libro di Aldo Giannuli

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Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro di Aldo GiannuliAldo Giannuli lo annuncia sul blog: è in uscita per i tipi di Marco Tropea Editore il volume Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro. Che così si presenta:

Questo libro è il risultato di un lavoro di ricerca durato quasi 15 anni che l’autore ha svolto – per conto dell’autorità giudiziaria di Brescia, di Milano e di Palermo – presso gli archivi della presidenza del consiglio, del ministero dell’interno, della guardia di finanza, del Sismi, del Sisde, dell’ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, dei tribunali e delle questure di Roma e Milano e molti altri. Ne è scaturita la storia, completamente sconosciuta, di un servizio segreto clandestino, nato negli ultimi anni della guerra e poi sopravvissuto, con molte trasformazioni, sino agli anni ottanta.

Questo servizio ebbe come suo referente politico il senatore Giulio Andreotti, con la cui parabola politica si intreccia strettamente, e al quale è riservata una parte ragguardevole del testo. Una vicenda fra politica, finanza, spionaggio che permette di rileggere in una luce completamente nuova molte pagine della storia più recente d’Italia: dal colpo di stato di Junio Valerio Borghese alle principali vicende della strategia della tensione, per culminare nel caso Moro di cui si offre una lettura originale, distante da tutte le ricostruzioni fatte sinora.

Fra le “scoperte” del libro ricordiamo il ruolo delle associazioni imprenditoriali e dei loro servizi segreti, lo scontro interno alla Chiesa e la partecipazione di diversi religiosi alla lotta politica e all’intelligence del tempo, un lontano tentativo di colpo di stato (1947) mai emerso sinora, le pressioni delle gerarchie militari sulla classe politica per una svolta autoritaria, gli intrecci fra istituzioni e mafia. Una massa di centinaia di carte e di decine di testimoni offre un solido supporto documentale alle affermazioni e – talvolta – alle ipotesi avanzate dall’autore.

Qui a breve si potrà leggere il primo capitolo del testo.

Stefania Limiti: intervista a un ex carabiniere che sorvegliò il covo di via Montalcini

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Stefania Limiti, l’autrice del libro L’anello della Repubblica sul Noto Servizio di cui si era parlato qui, pubblica sul blog Cado in piedi il post-intervista Caso Moro: le verità nascoste. A rispondere alle domande della giornalista è un ex carabiniere a cui fu ordinato di tenere sotto sorveglianza il covo brigatista di via Montalcini durante i cinquantacinque giorni del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana. E commenta in coda Limiti:

L’esperienza del signor Mario può suggerire tante cose ma tutte andrebbero verificate. E’ certo che lascia di stucco: durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro nessuno sapeva dell’esistenza di un covo-prigione in via Montalcini. Il generale Dalla Chiesa suggerì una sua ipotesi durante un’audizione in parlamento: cioè che da via Montalcini fosse uscita una Renault 4 quella mattina, ma vuota. Ciò che Moro non fosse lì. Comunque, qualcuno sapeva che in quell’appartamento non c’era solo una normale coppia di giovani sposi. Così come era sotto osservazione, da lontano, il covo di via Gradoli: lo ha detto un uomo dell’Anello, spiegando che fu impedito un blitz per liberare Moro.

Continua qui.

Paolo Bolognesi su “Domani”: «Altre indagini per cercare la verità. Questo potrebbe essere il momento giusto»

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Domani di Maurizio ChiericiAll’inizio Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della bomba che il 2 agosto 1980 esplose alla stazione del capoluogo emiliano, avrebbe voluto che non ci fosse alcun clamore sull’istanza presentata alla procura per chiedere nuove indagini sui mandati dell’attentato. Preferiva che i magistrati avessero modo di valutare con tranquillità la fondatezza della richiesta e di rispondere con altrettanta tranquillità che i familiari si sbagliavano, se lo avessero pensato. Così il 13 gennaio 2011 l’associazione aveva deciso di mantenere il riserbo sulla sua azione, che a poco meno di due mesi di distanza così campata per aria non sembra essere.

Perché presentare adesso l’istanza per chiedere un’indagine sui mandanti? È cambiato qualcosa rispetto al passato?

«Certo. Sono diventati noti a tutti i documenti relativi soprattutto al processo per la strage di Brescia, processo concluso alla fine del 2010. Una serie di testimonianze e di documenti hanno dimostrato che certe figure, ritenute marginali nell’inchiesta su Bologna, assumevano un ruolo più centrale. Si era già visto con gli atti del processo per la strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969, e ora con quello di piazza della Loggia. La nostra richiesta, dunque, non è tanto di dire “adesso troviamo i mandanti”, ma chiediamo che una serie di documenti vengano presi in considerazione dall’indagine in corso».
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