A due anni dall’operazione Piombo Fuso, le conseguenze dei metalli pesanti presenti nelle armi utilizzate

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Il 27 dicembre di due anni fa iniziava l’operazione Piombo Fuso nella striscia di Gaza. Nei giorni scorsi PeaceReporter ha raccontato che il New Weapons Research Group scopre metalli tossici nei tessuti della popolazione:

Uno studio del New Weapons Research Group ha rivelato che la presenza di metalli tossici nei tessuti è prova dell’utilizzo di armi sconosciute nelle offensive israeliane nella Striscia. La presenza di metalli in ordigni che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Oltre a identificare i metalli presenti nelle armi amputanti, anche le bruciature da fosforo bianco contengono metalli in quantità elevate. La presenza di metalli in tutte queste armi implica anche la loro diffusione nell’ambiente in quantità e in un’area di dimensioni a noi ignote, variabili secondo il tipo di arma. Un nuovo atto d’accusa contro la ferocia degli israeliani nell’operazione Piombo Fuso, lanciata nel dicembre 2008 e costata la vita a 1.300 palestinesi.

Di più se ne può leggere nell’approfondimento Gaza, le armi proibite.

In casa Calipari adesso i figli sanno come il governo ha tradito il padre

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Domani di Maurizio ChiericiSperiamo che sia vero. Speriamo che i dissidi interni a Wikileaks ci portino in dono altri cloni dell’esperienza che si sovrappone al volto di Julian Assange. Perché c’è un bisogno disperato di documenti. Un bisogno che suffraghi prove alla mano l’impressione della pochezza politica, in primis quella italiana. E che, forte di questo suffragio, sia forse uno sprone a un cambiamento reale.

Ai funerali di Nicola Calipari, ucciso a Baghdad il 5 marzo 2005 dopo la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri, aveva detto: «C’è lo Stato con le sue istituzioni per garantire la libertà e la sicurezza ai cittadini». Un tributo al funzionario del Sismi che, con il suo «eroico sacrificio», ricordava ancora Letta, aveva dato lustro alla cosa pubblica e per questo era stato insignito della medaglia d’oro al valor militare dopo la sua morte. E la moglie di Calipari, Rosa Maria Villecco, era diventata senatrice del partito democratico.

Oggi invece, con la diffusione dei cablogrammi statunitensi, è possibile aprire un pacco natalizio in cui viene distribuita a tutti una fetta della menzogna spacciata ai cittadini che dovrebbero avere fiducia in quelle istituzioni citate nel discorso funebre per Calipari. E in particolare la torta di compone di queste singole menzogne (traduzione del documento originale, in inglese):
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1990, inchiesta Remondino su Cia-P2: “Negli Usa sarebbe stata da Pulitzer. Invece ci fecero fuori tutti”

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Questo speciale di RaiNews (la seconda parte è disponibile qui) racconta del reportage in quattro puntate realizzato nell’estate 1990 da Enzo Remondino per il Tg1. Reportage che provocò un vero terremoto, tanto che il direttore della testata, Nuccio Fava, saltò venendo sostituito da Bruno Vespa. A parlare era un ex collaboratore della Cia, Richard Brenneke. Il quale disse:

Conosco la P2 dal 1969 e ho trattato con la P2 in Europa da allora sino ai primi degli anni 80. Vede, il governo degli Stati Uniti ha mandato soldi alla P2, in un certo periodo una somma inviata toccò i dieci milioni di dollari al mese. Dieci milioni di dollari in un mese, altre volte queste somme erano inferiore a un milione di dollari al mese, una volta agli inizi degli anni Settanta, mi ricordo chiaramente perché fui io a consegnare i soldi, ricordo che la somma totale superava i 10 milioni di dollari. Ci siamo serviti di loro per creare situazioni favorevoli nell’esplodere del terrorismo in Italia e in altri paesi europei agli inizi degli anni Settanta, fatti questi che ebbero gran peso perché ci furono dei governi che caddero in seguito a questa situazione.

Inoltre Brenneke parlò dell’omicidio del premier svedese Olaf Palme, commesso a Stoccolma il 1 marzo 1986, e tirava in ballo una serie di reati attribuiti a George Bush senior quando era a capo della Cia e in seguito degli Stati Uniti. Roberto Morrione, nel ’90 caporedattore in cronaca al Tg1, dice in questo servizio:

Fra di noi dicevamo: chissà, su quest’inchiesta negli Stati Uniti ci darebbero il premio Pulitzer. Magari. Invece ci fecero fuori tutti.

Il lavoro di Remondino su Cia-P2 provocò anche le ire di Francesco Cossiga, ai tempi in cui era presidente della Repubblica, che prese carta e penna per scrivere a Giulio Andreotti. Il quale, in veste di presidente del consiglio, poi dovette riferire il 1 agosto 1990 alla Camera dei deputati. Di fatto Andreotti però si limitò parlare di “atteggiamento provocatorio veramente inusuale”. In Piccone di Stato, ho riportato una parte della ricostruzione dello stesso Remondino, Feci infuriare Cossiga: storia di un intrigo internazionale.

Il bambino che sognava i cavalli: la storia di Giuseppe di Matteo nel racconto del padre Santino

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Il bambino che sognava i cavalli di Pino NazioEra il 23 novembre 1993 quando ad Altofonte, provincia di Palermo, sparì un ragazzino di dodici anni. Anzi, più precisamente scomparve dal maneggio di Villabate, dove andava ogni volta che poteva per allenarsi con il suo cavallo e sognare un futuro da fantino professionista. Ad andarlo a prendere fu un gruppo di uomini che si fecero passare per agenti della Direzione investigativa antimafia. Ma erano esattamente il contrario.

Erano uomini di cosa nostra che, per decisione di Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, dovevano punire il padre del ragazzino. Un “infame”, dal loro punto di vista. Un “collaboratore di giustizia”, dal punto di vista dei magistrati. Si sta parlando di Santino di Matteo, che dopo una vita trascorsa nelle fila della mafia e una carriera di killer, aveva deciso di raccontare i retroscena degli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E si sta parlando soprattutto di suo figlio, Giuseppe, che venne tenuto prigioniero per oltre due anni (i 779 giorni del sottotitolo del libro) per indurre il padre, Mezzanasca il suo soprannome, a smetterla con le sue rivelazioni.

Nel libro Il bambino che sognava i cavalli, trasposizione in termini di non-fiction di una vicenda tragica, è il frutto di un incontro tra l’autore, Pino Nazio, giornalista che collabora con la trasmissione “Chi l’ha visto”, e Santino Di Matteo. Ma anche con sua moglie Franca, con altri familiari del bambino e con i magistrati che hanno condotto le indagini su quel sequestro finito in omicidio. Giuseppe, infatti, dopo essere stato torturato durante la sua prigionia, venne strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido in modo che la famiglia non avesse nemmeno una tomba su cui piangere.
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Pentiti di niente: “Quel sequestro doveva sembrare roba di mafia, non di politica”

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Carlo SaronioAlla fine si scoprirà che il memoriale di Carlo Fioroni non avrà una consistenza molto maggiore rispetto a quello di Marco Pisetta. Però al momento gli viene tributata credibilità. Infatti, tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, Fioroni inizia con il rievocare la terza conferenza nazionale del settembre ’71 a cui partecipa come delegato della sezione di Milano, ma viene escluso dagli incontri al vertice riservati a Franco Piperno, Toni Negri, Oreste Scalzone, Mario Dalmaviva e Valerio Morucci.

Rientrato però nel capoluogo lombardo, si vede convocare dal professor Negri che lo informa della nascita di Lavoro Illegale, braccio armato di POTOP sotto la direzione politica di Piperno e militare di Morucci. A livello regionale si è deciso che ne faranno parte lui ed Emilio Vesce e il loro lavoro deve rimanere assolutamente riservato, sconosciuto anche al servizio d’ordine che mantiene i suoi scopi difensivi. Fioroni si occupa soprattutto della creazione della rete comasca di Lavoro Illegale, capeggiata da Cecco Bellosi e costituita dallo stesso Piperno con l’aiuto di Fioroni e del compagno “Siro”, in seguito identificato come Silvano Gelatti e arrestato l’11 marzo 1981.

Fioroni dichiara ancora che il suo compito era di allestire la rete logistica milanese, rifornire l’arsenale, occuparsi della tecnica militare e tenere contatti con i nuclei in fase di allestimento in Svizzera, paese che inizierà a frequentare con costanza e che farà raggiungere ai compagni nei guai con la giustizia italiana. È il caso – dice – di Caterina Pilenga, programmista Rai di Milano, presso cui il militante di POTOP farebbe alloggiare due terroristi appartenenti alla Brigata XXII Ottobre e ricercati per l’omicidio Gadolla. Ma con le attività demandate al servizio d’ordine non ci deve avere nulla a che fare. Mai. Solo che in vista della manifestazione milanese per il secondo anniversario della strage di piazza Fontana, Toni Negri gli ordina di mettere a disposizione il suo appartamento di via Galileo Galilei per la fabbricazione delle 351 molotov sequestrate poi dalla polizia.
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Il caso Claps: quando le ragazzine scompaiono e una comunità intera è per lo meno omertosa

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Il caso Claps di Pino CasamassinaPino Casamassina, nel corso della sua carriera di giornalista, ha seguito più spesso storie di terrorismo e di criminalità di politica. Ma quella di Elisa Claps non è semplicemente una vicenda da archiviare nelle pagine di cronaca nera. Nel libro Il caso Claps, uscito a ottobre 2010 per i tipi di Albatros, ricostruisce una concatenazione di eventi che culmina il 12 settembre 1993 con la scomparsa della sedicenne potentina, che sparisce nel nulla una volta che si è avvicinata alla Chiesa della Santissima Trinità. Lì, intorno a mezzogiorno, aveva appuntamento con un ragazzo, Danilo Restivo. Il quale dice che sì, Elisa l’aveva vista, di fronte al portone, ma per pochi minuti. Poi lei se n’era andata e lui era entrato per pregare.

Domani di Maurizio ChiericiQuesta è la prima bugia e quando è chiaro che Elisa quella sera non farà ritorno a casa, i familiari si rivolgono alla polizia e chiedono aiuto. Ma verranno rimbalzati perché la tesi che prende il sopravvento è quella dell’allontanamento volontario. Certo, non tutti se ne laveranno le mani: c’è quel dirigente della squadra mobile di Potenza che, in una relazione di servizio redatta poche settimane dopo, parla di omicidio a sfondo sessuale e del cadavere che giace probabilmente nascosto nelle vicinanze. Ma in molti invece fanno meno del minimo indispensabile. I presunti motivi emergeranno nel corso dei 17 anni in cui niente si saprà di Elisa: comuni appartenenze massoniche, commistioni di interessi, amici che si trovano nella scomoda posizione di indagare su altri amici.
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P3: l’inchiesta raccontata da Giusy Arena e Filippo Barone tra ricostruzioni e intercettazioni

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P3 di Giusy Arena e Filippo BaroneDai palazzi del potere non si è più in tempo per impedire la pubblicazione delle intercettazioni raccolte in appendice al volume P3 – Tutta la verità di Giusy Arena e Filippo Barone. Trascrizioni curate dal nucleo informativo e dal reparto operativo dei carabinieri del Lazio in cui si attesta che l’affaire esploso a fine primavera non era una cricchetta limitata a pochi “pensionati sfigati” che giocava a corrompere frange limitate della cosa pubblica e privata. Anzi, con interviste e testimonianze inedite, il volume parte dall’inchiesta “Insider”, che tocca Marcello dell’Utri, Denis Verdini, Flavio Carboni e molti altri personaggi della ribalta politica, imprenditoriale e faccendieristica italiana.

E lo fa in momenti delicati. Carboni, uomo che ha attraversato sostanzialmente indenne molte vicende di malaffare tricolore, in secondo grado era appena stato assolto (per insufficienza di prove, si sarebbe detto una volta) per l’omicidio del banchiere di Dio Roberto Calvi. Mentre dell’Utri, ai tempi in cui scatta l’operazione di magistratura e forze dell’ordine, è ancora sotto processo e oggi è fresco di condanna in appello per i suoi disinvolti rapporti con cosa nostra. Rapporti di cui beneficiò – dice la sentenza, le cui motivazioni sono state rese note alla fine dello scorso novembre – Silvio Berlusconi, il probabile “Cesare” dell’inchiesta “Insider”.

Questo libro, da poco uscito per i tipi della Editori Riuniti, è dunque un utile vademecum per districarsi una volta di più nel complesso disegno del crimine sotto l’egida della politica, dei vincoli massonici o pseudo tali, degli affari a scopo unico di arricchimento personale (non c’è nemmeno più la scusa dei quattrini incassati e girati al partito). Se le responsabilità personali saranno individuate in processi che devono ancora partire, le pagine di questo volume sono un viaggio in sigle ed espressioni che spesso compaiono sui giornali di questo periodo: lodo Alfano, faccende all’ombra del Vesuvio, giochi tracciati nei corridoi della Mondadori.
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“Su la testa”: traffici d’armi fra Italia, Iran e oltre

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Su la testa, numero 10Indagini giudiziarie degli ultimi anni confermano la centralità dell’Italia in traffici d’armi con Paesi sotto embargo. È vero che le rotte di affari illegali nel corso dell’ultimo ventennio hanno visto emergere lo smaltimento dei rifiuti verso nazioni dell’Est Europa e dell’Africa (ma si sono ricostruiti anche viaggi a ritroso, con interramenti in territorio italiano di materiale proveniente dal sud del mondo; si veda per esempio l’operazione Ragnatela della procura di Napoli che ha di recente lambito, tra gli altri, Eni, Agip. Alenia, Autostrade, Alitalia e Rai). I rifiuti, a un certo punto, rispetto alle armi si sono rivelati un business più remunerativo e meno rischioso, dal punto di vista penale. È però altrettanto vero che lo smercio di materiale bellico, con la recrudescenza di conflitti caldi o freddi nel vicino Medio Oriente, ha dato nuova linfa ai trafficanti.

Dall’Italia alla Nigeria e all’Eritrea passando per Teheran

Lo testimonia per esempio una notizia che del marzo 2010 si è guadagnata una certa attenzione sulla stampa italiana: l’arresto – con detenzione prima in carcere e poi passaggio ai domiciliari e permesso, in alcuni casi, di lasciare di giorno l’abitazione per andare al lavoro – di sette persone, cinque italiani più o meno legati all’industria bellica e alle transazioni estere e due iraniani (tra cui un giornalista accreditato presso la sala stampa estera di Roma. Altri due mediorientali raggiunti da mandato di cattura si sono dati alla latitanza). Per loro l’ipotesi reato era “associazione a delinquere finalizzata all’illecita esportazione verso l’Iran di armi e sistemi militari di armamento, in violazione del vigente embargo internazionale, con l’aggravante della transnazionalità”.
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E il 12 dicembre 1969 arrivò l’attentato imminente intuito mesi prima da Pasquale Juliano

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Banca nazionale dell'agricolturaSi era ancora innocenti, all’ora di pranzo del 12 dicembre 1969, quando il telegiornale delle 13.30 aveva raccontato agli italiani che la Grecia dei colonnelli si era ritirata dal consiglio d’Europa dove si discuteva della sua sospensione. E aveva raccontato anche che la vertenza sindacale dei lavoratori dell’editoria sembrava mettersi al bene mentre nulla cambiava per i metalmeccanici, che restavano in stato di agitazione. Intanto – proseguiva la catena delle notizie – a Palermo non si arrestavano le indagini per la strage di viale Lazio, uno dei momenti più feroci della prima guerra di mafia. Ma in mezzo a tutti quegli scorci di vita e fatti, l’edizione del notiziario si concludeva con un soffio dell’innocenza tramontante degli anni Sessanta.

Lucio Battisti, snobbato dalla sinistra perché poco o per nulla impegnato, un fascistoide per qualcuno, come tutti quelli che non si schieravano, continuava a respirare a pieni polmoni la consacrazione del suo successo dopo ostacoli e delusioni. Era stato un anno fortunato, per lui, il migliore di tutti, iniziato in febbraio con il successo al festival di Sanremo dove aveva cantato Un’avventura e proseguito in estate con Acqua azzurra, acqua chiara, pezzo del trionfo al Festivalbar e al Cantagiro. Con una cadenza burina a rivendicare la sua estrazione sabina, e mentre confessava con una punta di imbarazzo al microfono di Lello Bersani che non aveva mai studiato musica, mescolava la timidezza dello sguardo alla caparbietà del suo percorso artistico.

«Intanto io canto le canzoni che mi vanno veramente a genio, insomma, quelle che sento. E di solito, in partenza, sono sempre quelle un po’ più difficili, che agli altri non piacciono, che gli altri trovano azzardoso interpretare, ecco».
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“Moby Prince: mistero irrisolto” di Luciano Scalettari e tutte quelle navi nel porto di Livorno

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Traghetto Moby PrinceLuciano Scalettari, sul blog Voglio Scendere, interviene parlando del caso Moby Prince: mistero irrisolto:

Invece successe qualcosa di ben diverso: quella sera nel golfo di Livorno c’erano 7 navi militari e militarizzate americane che trasbordavano materiale bellico dalla base di Camp Derby (che come sappiamo è la più grande base americana in Europa). Ci fu una copertura di disturbo radio e poi ci furono una serie di altre imbarcazioni che si muovevano in questo piccolo braccio di mare, navi fantasma, alcune delle quali mai identificate. In questo traffico incredibile, alle 22,27 il traghetto Moby Prince entrò proprio in una delle cisterne dell’Agip Abruzzo, una gigantesca petroliera illuminatissima. La cascata di liquido infiammabile che ne uscì e che investì il traghetto provocò un incendio, poi le due navi si staccarono. La Moby Prince vagò per tutta la notte senza che nessuno andasse a soccorrere gli eventuali sopravvissuti. Fu recuperata, portata in porto e le prime persone di soccorso che salirono a bordo del Moby Prince, vi salirono verso le 13 del giorno successivo. Troppo tardi.

Un documento interessante da leggere in proposito è la richiesta di riapertura del procedimento penale [pdf, 360 KB] presentata l’11 ottobre 2006 dall’avvocato Carlo Palermo. E leggere anche il libro 1994 – L’anno che ha cambiato l’Italia (Chiarelettere, 2010) scritto, oltre che dallo stesso Scalettari, anche da Luigi Grimaldi.