Pentiti di niente: 19 ottobre 1991, morte del dissociato Carisati

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Carlo SaronioLo trovano morto di prima mattina, Carlo Casirati, che dopo i passati clamori giudiziari per vivere recuperava rottami di mezzi agricoli. Addosso ha solo il pigiama e sopra un impermeabile. Giace a pochi metri dalla sua Lancia Thema e pare che nella notte tra venerdì 18 e sabato 19 ottobre l’uomo abbia perso il controllo del veicolo a poche centinaia di metri da casa sua, a Treviglio. All’incidente sembra non aver assistito nessuno.

Solo uno degli abitanti della zona dice di aver sentito intorno alle 22.30 un botto, come di un copertone che esplodeva, e di essersi affacciato. Ma non aveva visto nulla. Da dove si trovava non poteva effettivamente vedere l’automobile che era volata fuori dall’asse stradale finendo dieci metri più sotto. Casirati, sbalzando fuori dall’abitacolo, muore così, da solo, a 49 anni, in una notte d’autunno. Dopo essere stato un bandito, un rapitore, un assassino e infine un pentito ritenuto inattendibile.
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Pentiti di niente: “Un memoriale cosparso di frasi dubitative”

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Carlo SaronioÈ a fine ’79 che in questa vicenda dunque Carlo Fioroni si presenta come protagonista, sulla scia di quanto sta già facendo un altro ex-compagno, Antonio Romito, che ha fatto partire l’indagine padovana. Nei primi giorni del dicembre 1979 Fioroni chiede di poter essere ascoltato nell’ambito dell’indagine “7 aprile” e inizia un racconto che calza a pennello con quanto i magistrati stanno delineando: mette in relazione infatti il nome di Toni Negri con quello di altri 149 militanti della sinistra extraparlamentare, indicati tutti come complici in moltissime azioni che vanno dal sequestro Saronio a una serie di delitti commessi quando Fioroni era già in carcere e che dunque non può conoscere. Almeno non di prima mano. In merito alle accuse che piovono copiose prima e durante il processo di secondo grado per la morte di Carlo Saronio e che vengono credute malgrado l’imprecisione della fonte, scrive in proposito il giornalista e scrittore Pasquino Crupi:

Tutto il memoriale di Fioroni è cosparso e, nei punti delicati, sorretto (diciamo demolito) da sospensioni di memorie, incisi dubitativi, impressioni, opinioni, deduzioni, sensazioni, locuzioni cautelative, allargamenti, estensioni e generalizzazioni. Li trascriviamo, mettendo in parentesi le frequenze d’onda. Non so (6); Non ricordo se (12); se ben ricordo (2); non mi sovviene il nome (1); non ricordo il nome (7); se non ricordo male (1); non ricordo (3); ho il vago ricordo (1); a quanto ricordo (1); di cui non so il nome (1); mi pare (16); mi sembra (8); avevo l’impressione (1); non sono sicuro (1); non sono sicurissimo (1); sono quasi sicuro (1); ritenni (1); ritengo (6); sono intimamente convinto (1); mi convinsi (1); ho sempre ritenuto (1); non escludo (3); se non erro (6); se non m’inganno (1); se non vado errato (7); se non sbaglio (1); mi posso sbagliare (2); mi riferì (7); mi fu riferito (2); che io sappia (1); a quanto seppi (1); a quel che seppi (2); per quanto io ne sappia (1); come seppi (3); da quanto appresi (1); a quanto appresi (2); come m’informò (1); come mi raccontò (1); mi risulta (4); non sono in grado (4); mi domando ancora (1); nessun dubbio (1); non ebbi dubbi (1); mi fece intendere (1); io intesi (1); solo in via d’ipotesi posso pensare (1); mi fece pensare (1); attribuii successivamente nella mia mente (1); trassi il sospetto (1); non posso precisare (1); si può affermare (1); poco prima o poco dopo (1); dopo un giorno o due (1); a mio avviso (1); forse (7); probabilmente (3); quasi sicuramente (1); quasi certamente (2).

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Pentiti di niente: e Toni Negri diventò il nuovo grande inquisito

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Carlo SaronioInsomma su Antonio Negri – che sta via via assumendo i connotati del grande vecchio della sovversione italiana, il manipolatore di giovani menti, il profittatore del patrimonio di militanti fragili e dall’animo travagliato – si addensano due distinti temporali: quello seguito dal pubblico ministero Spataro a Milano e l’altro, quello romano, istruito dal giudice Amato.

Al momento ci sono solo parole, contro di lui, ancora nessuna prova, nessun indizio che lo inchiodi alle responsabilità che gli vengono attribuite. Ma occorre indagare, interrogare. E così il professore padovano che nei primi anni Settanta era stato uno dei leader di Potere Operaio, deve rispondere alle domande dei magistrati. Inizia a raccontare di aver conosciuto Carlo Fioroni nel 1967 a Bologna e i due si erano incrociati negli anni in cui era entrato a far parte di POTOP assumendo a un certo punto l’iniziativa “tutta personale” di instaurare rapporti con Giangiacomo Feltrinelli. E prosegue:

Fioroni era entrato nella logica gappista per molte ragioni, ivi compresa la sua condizione personale e familiare che lo condizionavano notevolmente. Ciò dico per non per attaccare Fioroni, perché si tratta di circostanze assai penose e meritevoli di attenzione piuttosto che di critica malevola, ma perché servono a inquadrare la sua figura e la sua storia personale. Dopo essere stato coinvolto in vicende giudiziarie di notevole gravità, ripresi i contatti col movimento, egli appariva ed era un uomo solo, nel senso che riceveva da un lato poco credito e dall’altro tentava di far valere la sua precedente militanza ed esperienza come unico elemento di qualificazione.

Io ebbi nei confronti del Fioroni un atteggiamento amichevole, umanamente gli fui vicino. Lo aiutai materialmente e in ogni modo che mi fu possibile. Mi venne allora criticata, e mi viene tanto più ora criticata, la ‘debolezza’ dei miei comportamenti nei suoi confronti. Mi trovai nella condizione di doverlo difendere contro tutti anche perché Fioroni giocava contemporaneamente su più tavoli, per esempio tenendo contatti separati fra compagni, organismi, collettivi ed altro (che non avevano relazioni politiche fra di loro), ma presentandosi all’uno come ‘agente’ dell’altro e all’altro come ‘agente’ dell’uno […]. Aggiungo che mi accorsi allora […] che Fioroni […] si stava muovendo alla disperata sulla base di un suo progetto organizzativo.

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Pentiti di niente: “Hanno buttato lì la proposta di rapire Saronio. Tu che ne pensi?”

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Carlo SaronioQuando si torna a esaminare la “verità Casirati”, il criminale comune non chiarisce ma butta altra legna sul fuoco. Parla infatti di Alceste Campanile, il ragazzo assassinato nella campagna reggiana nel 1975 poco più di due mesi dopo il sequestro, e sostiene che secondo lui assomiglia fin troppo a un giovane che andava in giro con Carlo Fioroni e Franco Prampolini prima che fossero arrestati a Lugano. Inoltre i carcerieri dell’ingegnere gli hanno descritto il ragazzo che accompagnava Fioroni quando questi si presenta nella villa di Garbagnate: dalle loro parole si convince che è proprio Alceste Campanile tanto che – gli dicono – aveva pure la parlata emiliana.

Ribadisce poi che il vertice dell’Organizzazione aveva dato il suo benestare ai sequestri per autofinanziamento e che Gianfranco Pancino, durante un incontro nella Torre Velasca di Milano, gli aveva consegnato una fiala su cui c’era scritto “etere” da utilizzare prima con Vittorio Duina e poi impiegata per Saronio. Infine sostiene che l’Alfetta usata per il trasferimento dell’ostaggio da Garbagnate a Melnate era stata bruciata perché non rimanessero impronte digitali e l’odore di etere era così forte che la polizia avrebbe potuto insospettirsi se l’avessero fermata.

Incalzato dal pubblico ministero Armando Spataro a proposito di una serie di incongruenze che non sono state spiegate, Casirati ammette che tutta la verità non l’ha ancora raccontata. Innanzitutto cova rancore nei confronti di Fioroni che lo accusa subito dopo l’arresto in Svizzera e poi si duole di aver fatto il nome dei carcerieri, che avevano sempre tenuto un comportamento più che corretto verso l’ostaggio. Infine ritratta di nuovo tutto: i finti carabinieri non indossano alcuna divisa ma si limitano a qualificarsi come tali, non è mai esistita alcuna prigione perché Carlo Saronio non muore durante un cambio di covo, ma viene assassinato subito dopo essere stato catturato.
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Pentiti di niente: la parola al compagno Casirati, nuovo dissociato

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Carlo SaronioDi politica Carlo Casirati si era sempre occupato poco o nulla fino a quando, all’inizio degli anni Settanta, rinchiuso nel carcere di San Vittore, non sente voci su fantomatiche collaborazioni che stavano nascendo tra politici e comuni. Quello di Oreste Strano è un nome che circola parecchio, in proposito.

Così, quando all’inizio del 1974 Casirati evade, attraverso di lui prende contatto con l’Organizzazione e con Carlo Fioroni. Ma non gli piace, il professorino, gli sembra uno sprovveduto, uno che si fa di troppa teoria, e allora riceve l’autorizzazione ad agire per conto suo, nella più completa indipendenza quando si tratta di scegliere obiettivi e complici degli espropri proletari. D’altro canto i suoi rapporti con Toni Negri sono così disinvolti e talmente poco gerarchici che, dopo una rapina, si rifugia con Alice Carobbio nella casa padovana del docente universitario e ottiene di dormire con lei nel letto matrimoniale di Negri tra i rimbrotti dei compagni e la divertita disponibilità del suo ospite.

Inizia così la dissociazione di Carlo Casirati e inizia così il nuovo racconto che fa degli eventi che hanno portato alla morte di Carlo Saronio. Ma come per Fioroni, anche le sue parole verranno smontate e fatte a pezzi negli anni successivi, frutto di suggestioni ben congegnate che avrebbero dovuto portare – e portarono – in carcere le decine di persone giudicate nel processo “7 aprile”.

Casirati dice di fare lo sbruffone con Negri, ma di esserne anche in qualche modo soggiogato, vittima di una specie di lavaggio del cervello che lo porterà a partecipare a una rapina in uno stabilimento di Marghera per portare via le buste paga, a un’altra alla Montedison di Porto Marghera, a incursioni in ville e appartamenti per arraffare preziosi e argenteria e a trafficare con documenti da falsificare. Descrive se stesso come punto di snodo tra la criminalità politica e comune, passante attraverso cui transitano armi usate dall’una o dall’altra schiera, riferimento per le attività di ricettazione.
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Pentiti di niente: “Quel sequestro doveva sembrare roba di mafia, non di politica”

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Carlo SaronioAlla fine si scoprirà che il memoriale di Carlo Fioroni non avrà una consistenza molto maggiore rispetto a quello di Marco Pisetta. Però al momento gli viene tributata credibilità. Infatti, tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, Fioroni inizia con il rievocare la terza conferenza nazionale del settembre ’71 a cui partecipa come delegato della sezione di Milano, ma viene escluso dagli incontri al vertice riservati a Franco Piperno, Toni Negri, Oreste Scalzone, Mario Dalmaviva e Valerio Morucci.

Rientrato però nel capoluogo lombardo, si vede convocare dal professor Negri che lo informa della nascita di Lavoro Illegale, braccio armato di POTOP sotto la direzione politica di Piperno e militare di Morucci. A livello regionale si è deciso che ne faranno parte lui ed Emilio Vesce e il loro lavoro deve rimanere assolutamente riservato, sconosciuto anche al servizio d’ordine che mantiene i suoi scopi difensivi. Fioroni si occupa soprattutto della creazione della rete comasca di Lavoro Illegale, capeggiata da Cecco Bellosi e costituita dallo stesso Piperno con l’aiuto di Fioroni e del compagno “Siro”, in seguito identificato come Silvano Gelatti e arrestato l’11 marzo 1981.

Fioroni dichiara ancora che il suo compito era di allestire la rete logistica milanese, rifornire l’arsenale, occuparsi della tecnica militare e tenere contatti con i nuclei in fase di allestimento in Svizzera, paese che inizierà a frequentare con costanza e che farà raggiungere ai compagni nei guai con la giustizia italiana. È il caso – dice – di Caterina Pilenga, programmista Rai di Milano, presso cui il militante di POTOP farebbe alloggiare due terroristi appartenenti alla Brigata XXII Ottobre e ricercati per l’omicidio Gadolla. Ma con le attività demandate al servizio d’ordine non ci deve avere nulla a che fare. Mai. Solo che in vista della manifestazione milanese per il secondo anniversario della strage di piazza Fontana, Toni Negri gli ordina di mettere a disposizione il suo appartamento di via Galileo Galilei per la fabbricazione delle 351 molotov sequestrate poi dalla polizia.
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Pentiti di niente: Reggio Emilia, 12 giugno 1975, l’omicidio di Alceste Campanile

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Alceste CampanileL’omicidio di Alceste Campanile, avvenuto il 12 giugno 1975, è rimasto per quasi venticinque anni un mistero – si diceva – che a un certo punto si è innestato sul caso del sequestro e dell’assassinio di Carlo Saronio. Oggi è un mistero che, a meno di risultanze processuali che cambino le carte in tavola in appello e in Cassazione [il testo è stato scritto prima del processo di secondo grado a Paolo Bellini, condannato per questo delitto. Si veda qui. NdB], sembra essere stato chiarito e non c’entra nulla con la sorte dell’ingegnere milanese. Anche se sulla vicenda specifica rimangono dubbi. Dubbi sulla matrice dell’omicidio: per la giustizia, frutto di un litigio improvviso con un reo confesso che se n’è addossato la responsabilità; per la famiglia, che sottolinea una serie di lacune nell’indagine, originato e consumatosi negli ambienti dell’estrema sinistra reggiana. Ma come accade che i due casi a un certo punto si incrocino?

Carlo SaronioPer capirlo occorre ripercorrere la vicenda dall’inizio. Siamo nel cuore dell’Emilia Romagna, provincia di Reggio, sono le undici di sera, l’estate è ormai incombente, e una coppia sta percorrendo in auto la strada provinciale che da Montecchio porta a Sant’Ilario. Lei a un certo punto chiede al marito di fermarsi, non si sente bene ed è meglio che scenda e faccia quattro passi. Ma appena la donna mette piede nel campo a lato della carreggiata, si imbatte in una specie di fagotto: è il corpo di un uomo, un giovane, che giace supino ed è sdraiato sopra il braccio destro ritorto dietro la schiena. Sopra la camicia indossa un giubbotto di tela leggera e su di esso è chiaramente visibile una macchia di sangue provocata da un proiettile che gli si è piantato in un polmone. Porta anche un paio di occhiali da sole che si sono spostati sulla fronte: sotto di essi c’è un secondo foro, largo, un foro d’uscita perché qualcuno gli ha sparato alla nuca.
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Pentiti di niente: “Nessuna angoscia morale, ma freddo, lucido e bieco calcolo”

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Carlo SaronioNel processo di primo grado per il sequestro e l’omicidio dell’ingegnere Carlo Saronio e nella relativa sentenza, un lungo capitolo viene dedicato all’idea di rapirlo: chi fu ad averla? E quali furono i passaggi per trasformarla in realtà? Se Fioroni cerca di farsi passare come un personaggio di ripiego, entrato in questa faccenda per salvare un amico e comunque soggetto alle decisioni di un comitato di terroristi che deve avallare le sue azioni, le risultanze processuali raccontano altro.

Casirati non può essere stato a concepire per primo il rapimento: non sapeva neanche chi fosse Carlo Saronio prima che Fioroni glielo dicesse. Questa constatazione taglia fuori anche gli altri criminali “comuni”: Carobbio, De Vuono e tutti gli altri entrano nell'”affare” su invito del malavitoso meneghino e dunque è necessario che lui per primo venga a conoscenza del piano e che accetti di prendervi parte. E non può essere frutto del ragionamento collettivo di un gruppo politico, come invece affermato da Casirati senza che si sia trovato riscontro alcuno alla sua esistenza. Non rimane per i giudici che una spiegazione: Carlo Fioroni è la mente dietro al sequestro. Si legge nella sentenza di primo grado:

La sua partecipazione alla fase esecutiva infatti è piena e forse non era presente alla cattura (e, invero, non vi era motivo che lo fosse), ma partecipò alla discussione sul cloroformio; alla discussione sulle divise; seppe di Cavallo; seppe di De Vuono, del quale conobbe anche il compito specifico di speaker con la famiglia Saronio; seppe che per due volte ‘il legionario’ era stato sostituito al telefono da un complice che non aveva accento calabrese. E non si trattava di notizie frammentarie su particolari che egli ‘non era tenuto a sapere’ ma che ugualmente riusciva a estorcere (con le buone maniere) a Casirati, bensì avvenimenti ai quali aveva partecipato o dei quali a pieno titolo veniva posto a conoscenza.

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Pentiti di niente: tra versioni opposte e l’inutile carta dell’infermità mentale

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Carlo SaronioQuando a inizio 1979 si apre il processo di primo grado, Carlo Fioroni è il primo a essere interrogato.

Sono qui sotto il peso di una responsabilità morale molto grave e di una sofferenza incancellabile, per accusarmi e accusare e capire con voi cosa è accaduto tre anni e mezzo fa. Ridico a voi ciò che ho sempre detto e riaffermato di recente: non so cosa sia accaduto a Carlo. Non so nulla a questo riguardo, alla sua presunta morte. Non a caso dico presunta perché ancora oggi, anche se può apparire assurdo, la speranza che la morte non sia avvenuta non mi ha ancora lasciato.

Da questo momento in avanti, tutto o quasi tutto ciò che viene ricostruito in fase istruttoria, se si dà retta a Fioroni, è da prendere e buttare via. Casirati, continua a raccontare, gli avrebbe detto che Saronio si sarebbe sentito male dopo essere stato catturato tanto che il comune si dà da fare, trova una farmacia di turno e acquista delle gocce per il cuore che lo stabilizzino. Per Fioroni, Carlo è vivo perché il complice gliel’ha assicurato. Ma come fa a credergli, gli chiede la corte? E lui risponde che gli crede per una sorta di “inerzia mentale”: la condotta politica che deve rispettare gli impone di non approfondire certe questioni. Quindi prosegue ritrattando altre dichiarazioni rese al giudice istruttore: del rapimento aveva saputo solo a cose fatte e mai prima, anche se era nell’aria l’idea di sequestrare qualcuno per finanziare la lotta armata.

E aggiunge: “Spero che le mie parole siano udite anche fuori da quest’aula. Spero che qualcuno mi ascolti fuori da questa aula”. Vai a sapere a chi sta parlando, se sta parlando con qualcuno e se questa frase non è che l’ennesimo atto di una sceneggiata che dura da anni. Atto che – prosegue Fioroni – lo vede coinvolto quando ormai non può fare altro che diventare complice della banda per salvare l’amico. E facendolo esegue anche un ordine ricevuto dal gruppo politico a cui appartiene.
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Pentiti di niente: un mosaico che si va componendo

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Carlo SaronioNel corso del dibattimento, emergono con maggiore chiarezza diversi dettagli. Innanzitutto che Alice Carobbio non solo avrebbe avuto la lista dei rivenditori milanesi di divise militari, ma che sarebbe stata lei ad adattare le due indossate la notte del sequestro. Lei però si difende: non sa cucire nemmeno un bottone e poi le divise non le aveva neanche mai viste, stavano in una valigia che le era stata consegnata da Fioroni. Chiusa. Compito suo era di custodirla e di restituirla quando le fosse stata richiesta indietro.

Gli elementi più drammatici emergono dagli esami effettuati sulle spoglie che Casirati fa ritrovare con le dichiarazioni che rende il 24 novembre 1978. Che Carlo Saronio, mai ricomparso dopo il pagamento del riscatto, fosse morto era considerato abbastanza certo. Ora si avrà la conferma di ciò che è accaduto. Innanzitutto si accerta attraverso verifiche odontoiatriche che quei resti appartengono proprio all’ingegnere milanese e sul cranio non viene trovato alcun segno di trauma né alcun foro di proiettile. Il che non esclude per forza che il giovane sia stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco: il proiettile avrebbe potuto essere trattenuto dalle masse muscolari senza intaccare le strutture ossee e poi andare perduto a causa del disfacimento post mortem quando il cadavere viene spostato da Casirati dopo l’arresto di Fioroni.

Ma è improbabile soprattutto a fronte di un dato: dall’analisi dei tessuti cerebrali emerge un quantitativo abbondante di toluolo, sostanza usata come solvente per resine, grassi, oli, vernici, colle o coloranti e anche per aumentare gli ottani della benzina. Inoltre i suoi vapori, altamente tossici, hanno un effetto narcotico molto specifico: bloccano la respirazione. Ed è proprio così che sarebbe morto Carlo Saronio: non stordito e ucciso accidentalmente dal cloroformio, come sostenuto in un primo tempo, ma soffocato a causa di una prolungata pressione del tampone forse imbevuto di uno smacchiatore esercitata con troppo vigore e per troppo tempo.
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