Pentiti di niente: tra versioni opposte e l’inutile carta dell’infermità mentale

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Carlo SaronioQuando a inizio 1979 si apre il processo di primo grado, Carlo Fioroni è il primo a essere interrogato.

Sono qui sotto il peso di una responsabilità morale molto grave e di una sofferenza incancellabile, per accusarmi e accusare e capire con voi cosa è accaduto tre anni e mezzo fa. Ridico a voi ciò che ho sempre detto e riaffermato di recente: non so cosa sia accaduto a Carlo. Non so nulla a questo riguardo, alla sua presunta morte. Non a caso dico presunta perché ancora oggi, anche se può apparire assurdo, la speranza che la morte non sia avvenuta non mi ha ancora lasciato.

Da questo momento in avanti, tutto o quasi tutto ciò che viene ricostruito in fase istruttoria, se si dà retta a Fioroni, è da prendere e buttare via. Casirati, continua a raccontare, gli avrebbe detto che Saronio si sarebbe sentito male dopo essere stato catturato tanto che il comune si dà da fare, trova una farmacia di turno e acquista delle gocce per il cuore che lo stabilizzino. Per Fioroni, Carlo è vivo perché il complice gliel’ha assicurato. Ma come fa a credergli, gli chiede la corte? E lui risponde che gli crede per una sorta di “inerzia mentale”: la condotta politica che deve rispettare gli impone di non approfondire certe questioni. Quindi prosegue ritrattando altre dichiarazioni rese al giudice istruttore: del rapimento aveva saputo solo a cose fatte e mai prima, anche se era nell’aria l’idea di sequestrare qualcuno per finanziare la lotta armata.

E aggiunge: “Spero che le mie parole siano udite anche fuori da quest’aula. Spero che qualcuno mi ascolti fuori da questa aula”. Vai a sapere a chi sta parlando, se sta parlando con qualcuno e se questa frase non è che l’ennesimo atto di una sceneggiata che dura da anni. Atto che – prosegue Fioroni – lo vede coinvolto quando ormai non può fare altro che diventare complice della banda per salvare l’amico. E facendolo esegue anche un ordine ricevuto dal gruppo politico a cui appartiene.

In fase dibattimentale si torna a lungo poi sul ruolo che effettivamente ebbero Maria Cristina Cazzaniga e Franco Prampolini e la posta in gioco non è indifferente: occorre capire se condannarli anche per l’omicidio di Carlo Saronio, oppure se ascrivere loro compiti più marginali legati a riciclaggio del denaro e poco altro. Il primo elemento che viene approfondito riguarda la loro partecipazione politica alle attività di Fioroni: aver accettato di prendere parte ad azioni criminali per sostenere la causa è sicuro, dato che la giovane dà alloggio a Casirati e ad Alice Carobbio, fornisce loro documenti rubati ad amici e ai suoi ospiti, probabilmente insieme a Prampolini compie ispezioni alla dogana con la Svizzera prima di trafugare all’estero il denaro del sequestro e sa che quei quattrini avevano provenienza illecita.

Ma tutto ciò non prova comunque che entrambi sapessero anche del sequestro stesso e del successivo omicidio che per di più riguardava un compagno di lotta. Non lo prova nemmeno il foro praticato nella Fiat 124 per nascondere il denaro nella bombola del gas dell’auto. Infine c’è un elemento che gioca a favore dei due imputati politici: del bottino a loro non va una lira. Dunque non possono essere ritenuti colpevoli che di favoreggiamento reale e del furto di documenti. Nel corso delle udienze viene ricostruito il rapporto che si era instaurato tra Fioroni e soprattutto Prampolini. Finiti gli anni dell’università si erano persi di vista per ritrovarsi tempo dopo quando – dice a processo Prampolini – era evidente che Fioroni era coinvolto in qualcosa, anche se gli sfuggiva cosa fosse.

Via via che i due tornano a frequentarsi, Fioroni gli dirà di far parte di Soccorso Rosso per aiutare “persone bisognose”. Per farlo beneficiava di finanziamenti che provenivano da due fonti differenti: da un lato c’erano dei sovvenzionatori esterni a cui non sapeva dare un nome; dall’altro ricorreva al metodo degli “espropri”, cioè delle rapine. Se anche Prampolini avesse voluto dare una mano, era il benvenuto, ma prima doveva essere messo alla prova: riciclare del denaro e che non facesse domande sull’origine dei quattrini.

Meglio che non sapesse e tanto non ci voleva molto per capire che arrivavano da circuiti illeciti. “D’accordo, ci sto,” avrebbe risposto Prampolini che così va a Reggio Emilia, ricava una camera dove occultare del denaro dalla bombola della Fiat 124 e deve poi occuparsi di distruggere le ricevute dei cambi, a riciclaggio ultimato. E no, Prampolini dice di non aver mai conosciuto Carlo Saronio. Di lui aveva parlato con Fioroni solo quando la stampa inizia a riportare notizie sul sequestro. “È un militante ricco di sinistra, mi sto dando da fare per liberarlo,” si sarebbe limitato a dire Fioroni. Contatti invece con Casirati ce li aveva avuti: gli era stato presentato come un comune convertito alla politica, ma poco preparato dal punto di vista dottrinario.

Di Soccorso Rosso, Fioroni parla anche a Maria Cristina Cazzaniga. La quale però non fa parte di alcun gruppo organizzato: i suoi unici contatti con la criminalità politica si limitano a Fioroni e sono incentrati per lo più su disquisizioni teoriche. Quando le viene proposto di collaborare alla ripulitura di una consistente somma di denaro di sicura provenienza illecita, lei accetta e sembra commuoversi anche un po’ di fronte alle doglianze di Fioroni quando si viene a sapere del sequestro Saronio che però non mette in relazione con i giri di denaro a cui stava in parte assistendo.

Per l’accusa di occultamento di cadavere, invece, devono rispondere tutti coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di sequestro di persona e omicidio preterintenzionale, dato che a nessuno di loro era ignota la morte di Carlo Saronio: Carlo Fioroni, Carlo Casirati, Giustino De Vuono e Alice Carobbio. Quando viene sentito Casirati, la cui latitanza si interrompe il 24 febbraio 1976 mentre si trova ancora in Francia, anche il suo racconto è ritenuto “pieno di contraddizioni quanto quello del Fioroni nonché di ‘segnali’ che anche lui lancia ai coimputati presenti al dibattimento e a quelli assenti e i cui nomi sono rimasti nell’ombra”.

In base alle sue dichiarazioni, conosce Fioroni dopo l’evasione da San Vittore, dove era entrato in contatto con prigionieri provenienti da gruppi politici che lo avevano a loro volta politicizzato. Una volta fuori, Casirati e Fioroni accettano di “fare cose insieme” senza addentrarsi in particolari. L’idea di massima comunque c’è: rapire qualcuno. Il suo ruolo, in base a quanto dichiara, doveva limitarsi a ingaggiare qualche delinquente comune mettendo poi in contatto Fioroni con De Vuono. “Attenzione però allo ‘scotennato’,” lo avrebbe avvertito, “è uno pericoloso con cui c’è poco da scherzare”. Ne segue una cena invernale in cui si inizia a parlare più nel concreto del sequestro, ma ancora non si individua il nome della potenziale vittima e Casirati dichiara che ai tempi neanche sapeva chi fosse Carlo Saronio.

Per qualche settimana però il discorso di sequestrare qualcuno sembra caduto, nessuno ne fa più parola, fino a quando in aprile Fioroni ricompare chiedendogli aiuto. “È stato rapito uno, ma qualcosa è andato storto,” avrebbe esordito il politico aggiungendo che c’entrava poco in quella faccenda, aveva solo fornito il numero di targa dell’ostaggio. In questo momento, secondo quanto dirà alla corte Casirati, aveva sentito parlare per la prima volta di Saronio e della dinamica del sequestro che riferisce con qualche imprecisione: i finti carabinieri vengono sostituiti da finti poliziotti e Saronio sarebbe stato invitato a seguirli non in caserma, ma in questura. Caduto in trappola, l’ingegnere era stato rinchiuso dentro la cantina di una villa di Garbagnate, in provincia di Milano, e comuni e politici si sarebbero divisi esattamente a metà il riscatto.

A questo punto, dalle imprecisioni – o dalle esplicite menzogne – Casirati passa alla calunnia: dice infatti che Saronio non è stato proprio rapito, ma ha organizzato il proprio sequestro con la complicità di un uomo che aveva ospitato a Bogliasco, cioè Carlo Fioroni, per scucire alla famiglia quattro o cinque miliardi. Ma il giovane ingegnere, innescato il meccanismo, si sarebbe accorto di aver commesso una colossale sciocchezza e avrebbe tentato di tirarsi indietro facendo finire su tutte le furie Giustino De Vuono. Il quale si sarebbe adirato al punto di far temere i suoi stessi complici.

Però poi in un interrogatorio successivo ritratta in parte e la versione inizia a differire dopo che Saronio sarebbe stato rinchiuso nello scantinato di Garbagnate. Qui si presenta a un certo punto Fioroni che chiede di parlare con il prigioniero e i politici si allarmano perché si fa vedere da lui a volto scoperto. Dunque – decidono – devono trasferire Saronio e lo devono fare di nascosto. Così prelevano l’ingegnere per portarlo a Melnate, in provincia di Varese, ma incappati in un posto di blocco cercano di evitare che l’ostaggio sia notato e lo uccidono accidentalmente. Come? Casirati sostiene di non saperlo, ha immaginato però che l’abbiano soffocato. Dove è stato seppellito? Il comune dice di averlo appreso solo a cose fatte, di non essere stato presente, ma aveva disegnato una mappa del luogo che il suo difensore consegna alla corte.

Casirati prosegue il suo racconto ritagliandosi sempre il ruolo dello spettatore. A pochissime settimane dal sequestro, Fioroni lo informa che è stata versata la prima rata del riscatto, ma di sentirsi in pericolo. “Devi aiutarmi a espatriare in Francia,” gli avrebbe chiesto sentendosi promettere in cambio 160 milioni. Casirati, allettato dalla quantità di denaro offertagli, accetta, ma Fioroni lo deve pagare in anticipo. Così riceve i soldi, ma poi “me ne andai per i fatti miei”, lasciando il presunto complice ad arrangiarsi. Tuttavia anche qui modifica in corsa la sua versione dei fatti. Ha ricevuto tutto quel denaro, ma non era per lui, lo doveva riciclare per conto di Fioroni.

Nella vicenda, aggiunge inoltre, ci finisce solo perché doveva tenere tranquilli i criminali comuni inveleniti nei confronti di Fioroni. E poi era stato mosso a pietà verso la madre di Carlo Saronio e voleva darle almeno una tomba dove piangere il figlio. Così si era messo in contatto con i sequestratori e si era fatto dire dove lo avevano sepolto, un canale di irrigazione prosciugato nella campagna a nord di Milano. “Spero che nel frattempo qualcuno non lo abbia portato via,” aggiunge contrito Casirati.

Il presidente della corte a questo punto autorizza una verifica sul posto chiedendo il supporto dei vigili del fuoco: scavando a settanta centimetri di profondità, saltano fuori ossa umane. A questo punto interviene un medico legale che prosegue nell’operazione e porta alla luce uno scheletro completo adagiato sul fianco destro, semi-sdraiato sopra un braccio, e le gambe sono incrociate. Degli indumenti – una canottiera e un paio di slip – non rimangono che brandelli. Nessuna traccia invece di vestiti sopra la biancheria. Accanto ai resti vengono rinvenute un paio di confezioni di plastica di pepe francese, che conferma la dichiarazione di Puccia secondo il quale il corpo ne era stato cosparso per depistare eventuali ricerche condotte con i cani, e l’identità dell’ingegnere è confermata dalle protesi dentarie, che corrispondono a quelle indicate nella cartella odontoiatrica di Carlo Saronio.

A questo punto si dà inizio agli esami sulla massa encefalica residua che evidenziano la presenza in quantità elevata del toluolo, probabile causa della morte. Impossibile infatti che quella concentrazione possa essere il prodotto dei processi degenerativi successivi alla morte o di inquinamento del terreno: la sostanza si è depositata nel cervello dell’ingegnere per effetto della respirazione, dunque quando la vittima era ancora in vita.

Ma i rapitori dove l’hanno preso il toluolo? Difficile dirlo, rispondono i periti, perché è in commercio per molteplici usi: viene usato per la lavorazione di prodotti industriali e materie plastiche, lo maneggiano gli appassionati di modellismo in bombolette spray e si trova anche nelle pompe di benzina. È plausibile che Casirati o altri possano aver tentato di prestare soccorso all’ingegnere prima della morte? Sì, dicono ancora i periti, perché quella sostanza chimica agisce in due modi: all’inizio provoca tremori, crampi muscolari e movimenti inconsulti e solo in un secondo momento, se l’intossicazione si aggrava, sopraggiungono il blocco della respirazione, il coma e la morte. Per la famiglia, ascoltare questa ricostruzione equivale a immaginarsi una morte tutt’altro che rapida e di certo dolorosa.

Proseguendo negli interrogatori di Carlo Casirati, il presidente della corte d’assise, Antonino Cusumano, gli chiede di specificare meglio il ruolo dello “scotennato” e il comune solleva molte perplessità rispondendo che “in tutta sincerità io non posso dire che il De Vuono abbia partecipato al sequestro” e aggiunge che Fioroni farebbe bene a fare il nome dei compagni che hanno ordinato quell’azione. Ma cosa sta dicendo? E Casirati aggiunge che Fioroni gli aveva confessato di aver partecipato prima del sequestro a un’altra cena, diversa da quella in cui con De Vuono avrebbero chiacchierando di persone da far sparire solo in via ipotetica, più un pour parler che un vero piano criminale: che dica chi c’era quella sera, non sarà mica qualcuno che poi si mette al volante della Fulvia di Saronio per andare a parcheggiarla sotto casa sua, in corso Venezia, in un punto in cui fosse ben visibile dalle finestre dell’appartamento dell’ingegnere?

E così vuole scagionarsi dato che è lui a essere sospettato di aver spostato la vettura (in seguito però tornerà ad attribuirsi questo ruolo insieme a un’altra persona di cui non vuole rivelare il nome), ribadendo che di tutta quella storia non ne sa nulla e che a un certo punto scappa all’estero solo perché è latitante e la polizia gli sta sempre addosso.

Tenta di salvare anche la sua compagna, Alice Carobbio, che non avrebbe mai consegnato una valigia piena di quattrini a Fioroni, né l’aveva mai conosciuto. Sì, la Simca di sua madre vista nella cava di Cernusco la notte del 4 maggio ce l’aveva lui, ma ribadisce che l’aveva prestata a Fioroni proprio in quella data. Falso poi che ha dato denaro da riciclare a Brunello Puccia e falso anche l’incontro tra i due a Civitavecchia. Vero invece che conosceva Franco Prampolini e Maria Cristina Cazzaniga, che l’aveva ospitato non a casa della giovane, ma nella redazione della rivista d’arte presso cui lei lavorava, e che all’occorrenza lo metteva in contatto con Fioroni.

Le versioni di Carlo Casirati e Carlo Fioroni sono talmente discordanti che si decide di metterli a confronto e i divertissement, se non ci fosse di mezzo un omicidio, non mancherebbero neanche in questo caso. Sì, il comune ha ricevuto dal politico 160 milioni, ma allo scambio di denaro, avvenuto nell’appartamento di Sesto San Giovanni, non assiste nessuno, erano soli. Dal canto suo Fioroni rinfaccia al presunto complice i pestaggi subiti nel carcere di Fossombrone: un primo leggero a titolo di avvertimento e un secondo più violento che gli ha lasciato anche una cicatrice. Che la corte guardi se quella non è la verità, dice mostrandola.

Nel corso delle udienze, la corte si vede presentare una richiesta di non imputabilità di Carlo Casirati perché, secondo la sua difesa, non sarebbe un individuo capace di intendere e volere. Ridicolo, per i giudici. Il malavitoso, proseguono i suoi avvocati, nel 1965 era stato ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere e la diagnosi che qui viene formulata lo descrive come un soggetto “millantatore, vanaglorioso, spaccone, tendenzialmente ipertrofico nel tono umorale” che finisce nei reparti per malati psichici “per eludere il servizio militare”.

Inoltre “lo stato mentale del ricoverato non è sovrapponibile a qualsiasi malattia vera e propria” e al massimo per lui si può parlare di “caratteropatia”. Non abbastanza per evitare le imputazioni: viene ritenuto sì privo di ogni pulsione etica e morale, uno che privilegia le sue esigenze a quelle degli altri, ma non è malato. E quando si mette a raccontare a Puccia e Marro del dissotterramento del cadavere di Saronio, arricchendo la narrazione con dettagli macabri (come l’aver dovuto riporre il corpo dell’ingegnere in due valigie differenti), non lo fa perché in preda a deliri, ma per tracotanza: vuole infatti apparire come una specie di eroe oscuro che tiene a bada i nervi anche in una situazione raccapricciante come quella perché – sottolinea – c’è un riscatto da portare a casa.

Dunque per la corte un personaggio del genere non rientra nella categoria delle “persone normali”: anzi, per i giudici è un soggetto dalla personalità disturbata che si comporta in modi abnormi, ma non può essere considerato uno psicotico non responsabile dei suoi atti. Casirati deve subire le conseguenze delle sue azioni e lo deve fare perché ha perfettamente chiaro il confine tra bene e male e riconosce il valore morale (negativo) degli atti che compie. Di fatto valica consapevolmente quel confine perché non si cura di quello stesso valore morale.

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