Pentiti di niente. Primavera 1976: nuovi arresti e le prime conferme sulla morte di Saronio

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Carlo SaronioNella prosecuzione delle indagini gli inquirenti decidono di sentire Rossano Cochis. Del resto testimonianze a suo carico non mancano: Fioroni dichiara che, pur appartenendo alla criminalità comune, gli era stato indicato da Casirati come un soggetto da utilizzare a scopi politici, anche se poi non se ne sarebbe fatto più nulla. Inoltre si sarebbe incontrato di frequente sia prima che dopo il pagamento del riscatto con Gennaro Piardi, la cui posizione nel frattempo si aggrava: i suoi presunti complici lo indicano infatti come colui che ha ucciso materialmente Carlo Saronio.

In un primo momento si decide di convocare Rossano Cochis come testimone e non come indiziato perché farebbe parte del gruppo dei bergamaschi che si chiama fuori dal sequestro: in questo caso diventerebbe un teste dell’accusa e potrebbe dare un contributo determinante nel lavoro di ricostruzione dell’intero organigramma della banda. Alla peggio aiuterà a comprendere le reali ragioni che hanno spinto Fioroni a sequestrare l’amico e compagno Saronio.

Se intercettare Cochis non è affare semplice per gli investigatori, ecco che arriva un colpo di fortuna: viene fermato per gioco d’azzardo e intanto meglio fargli qualche domanda in più prima che scompaia di nuovo. Così Cochis ammette di conoscere Casirati e di aver discusso con lui di Saronio e del suo rapimento, un “grosso affare” avrebbe aggiunto il malavitoso di origine bergamasca, ma di non poter aggiungere altro: nutriva scarsa stima per Casirati e così gli ha dato retta fino a un certo punto finendo per declinare l’offerta.

Se la proposta di collaborare al “grosso affare” viene fatta a Cochis la sera stessa del sequestro, il malavitoso sfodera un alibi per dimostrare che non vi ha preso parte: aveva un appuntamento per cena con una ragazza sarda, una certa “Giusy” (ma di lei – assicura – non sa nient’altro), quando viene improvvisamente colto da un mal di denti bestiale e inizia a girare per Milano alla ricerca di un dentista che lo curi oltre il normale orario. Alla fine riesce a trovarlo, uno studio che rimane aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, in una traversa di via Torino, via dell’Unione, in pieno centro. Ma Cochis non schiva l’arresto: di fronte a una serie di domande sui suoi rapporti con Piardi e con Fioroni, si ostina a non rispondere anche dopo aver incontrato il suo difensore di fiducia, Santo Giuffrida.

Per gli investigatori, di fronte alla situazione di stallo che si è venuta a creare, il primo accertamento da compiere è a carico della fantomatica “Giusy” e in seconda battuta occorre arrivare all’abitazione di Cochis. In tre giorni giungono i primi risultati: la ragazza in realtà si chiama Anna Mazzau e non è un’estranea, ma è la compagna del bandito ormai da alcuni mesi, tanto che i due vivono insieme. Lei però nega malgrado le perquisizioni portino alla luce parecchi oggetti suoi a casa di Cochis. A suo carico vengono poi rinvenute alcune agende: su di esse la giovane ha scritto del suo legame sentimentale con il bandito bergamasco. Falsa testimonianza, l’accusa che viene formulata a suo carico e arresto immediato.

Ma mettere insieme ulteriori elementi che leghino la coppia al sequestro Saronio è difficile, tanto che, da successivi controlli, emerge che il denaro prestato da Cochis a Piardi aveva una fonte diversa, non legata al rapimento, e in parte arrivava dalla madre dell’uomo che lo raggiunge in Sardegna e gli allunga un altro po’ di contanti. Del fatto ne viene a sapere Cochis che, pur non modificando le dichiarazioni in precedenza rese agli investigatori, ammette di aver voluto nascondere l’identità della ragazza. Per proteggerla, dice lui. Per far sparire prove e denaro, sostengono gli investigatori, incuriositi dalle disponibilità economiche superiori alla norma dell’uomo. E tanto basta per modificare i capi di imputazione che diventano concorso in sequestro di persona e in omicidio. Ma Cochis non attende che il cappio giudiziario si stringa intorno a lui: poco tempo dopo evade e si dà alla macchia cementando negli investigatori la convinzione che sia coinvolto.

Nel frattempo si arriva a identificare con precisione anche “il Silvio” raggiungendo la certezza che si tratti del marito di Gioele Bongiovanni: è Silvio Cavallo, arrestato il 2 aprile 1975, meno di due settimane prima del sequestro Saronio, per tentato furto e processato per direttissima il successivo 10 aprile dal tribunale di Milano, finendo per vedersi infliggere sei mesi di reclusione. Interrogato l’11 marzo 1976 su quel rapimento, Cavallo dichiara di conoscere lo “scotennato”, che gli era stato presentato nell’estate del 1974 da Bellardita e Ventimiglia, ne era diventato successivamente buon amico e la sparatoria di via Neera non solo non aveva scalfito il rapporto tra i due, ma lo aveva cementato grazie agli interventi pacificatori di Cavallo.

I loro incontri avvenivano sempre nei pressi di via Beato Angelico, dove viveva De Vuono, e qui il topo d’appartamento aveva conosciuto il “collega” Casirati, “un onesto ladro” come lui che improvvisamente ripudia l’etica criminale e si dà alla politica. Ma a un certo punto avviene anche un’altra serie di cambiamenti: innanzitutto la comitiva si sposta eleggendo come nuovo luogo di ritrovo un bar di viale Giovanni da Cermenate che aveva aperto nel febbraio 1975. E cambiano anche i discorsi: dai furti più o meno profittevoli, Casirati inizia a parlare di sequestri di persona. Il salto avviene – gli avrebbe confidato ancora – grazie al fortuito incontro di “compagni” che gli avrebbero fornito dritte su possibili ostaggi e, per confermare quanto sostiene, sfodera un foglietto su cui era stata appuntata una lista di una quindicina di persone appartenenti a famiglie facoltose.

Casirati confida a questo punto all’amico Cavallo di aver accettato la proposta dei “politici” di mettersi in affari con loro e di aver coinvolto prima i bergamaschi e poi De Vuono. Le dichiarazioni di Cavallo non sono sempre così lineari e chiare, ma alla fine ammette di sapere anche dell’esistenza dell’elenco di negozi di Milano che vendono divise militari. Quello stesso elenco trovato a casa sua dopo l’arresto di De Vuono. Lo sa per un motivo molto semplice: Casirati gli aveva affidato il compito di reperire le uniformi, ma non lo porta a termine perché nel frattempo viene arrestato.

E parla di un ultimo elemento, il più agghiacciante. In un colloquio in carcere con la moglie, Gioele Bongiovanni, che a sua volta confermerà nel corso di un successivo interrogatorio, lei gli confida quanto le ha raccontato Vincenzo Bizzantini: Saronio è morto, ucciso la sera stessa del sequestro. Di fronte alle parole della moglie, Cavallo reagisce dubitando dell’affermazione, frutto magari di una voce che circola ma che sarebbe priva di fondamento. Ma a confermargliela è lo stesso Bizzantini quando anche lui viene arrestato nel gennaio 1976 e rinchiuso a San Vittore: è vero, l’ingegnere è stato ammazzato, anche se non sa dirgli di più sulle modalità. Glissa anche sulla fonte di quell’informazione: di certi argomenti meglio non parlare.