Pentiti di niente: “Nessuna angoscia morale, ma freddo, lucido e bieco calcolo”

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Carlo SaronioNel processo di primo grado per il sequestro e l’omicidio dell’ingegnere Carlo Saronio e nella relativa sentenza, un lungo capitolo viene dedicato all’idea di rapirlo: chi fu ad averla? E quali furono i passaggi per trasformarla in realtà? Se Fioroni cerca di farsi passare come un personaggio di ripiego, entrato in questa faccenda per salvare un amico e comunque soggetto alle decisioni di un comitato di terroristi che deve avallare le sue azioni, le risultanze processuali raccontano altro.

Casirati non può essere stato a concepire per primo il rapimento: non sapeva neanche chi fosse Carlo Saronio prima che Fioroni glielo dicesse. Questa constatazione taglia fuori anche gli altri criminali “comuni”: Carobbio, De Vuono e tutti gli altri entrano nell'”affare” su invito del malavitoso meneghino e dunque è necessario che lui per primo venga a conoscenza del piano e che accetti di prendervi parte. E non può essere frutto del ragionamento collettivo di un gruppo politico, come invece affermato da Casirati senza che si sia trovato riscontro alcuno alla sua esistenza. Non rimane per i giudici che una spiegazione: Carlo Fioroni è la mente dietro al sequestro. Si legge nella sentenza di primo grado:

La sua partecipazione alla fase esecutiva infatti è piena e forse non era presente alla cattura (e, invero, non vi era motivo che lo fosse), ma partecipò alla discussione sul cloroformio; alla discussione sulle divise; seppe di Cavallo; seppe di De Vuono, del quale conobbe anche il compito specifico di speaker con la famiglia Saronio; seppe che per due volte ‘il legionario’ era stato sostituito al telefono da un complice che non aveva accento calabrese. E non si trattava di notizie frammentarie su particolari che egli ‘non era tenuto a sapere’ ma che ugualmente riusciva a estorcere (con le buone maniere) a Casirati, bensì avvenimenti ai quali aveva partecipato o dei quali a pieno titolo veniva posto a conoscenza.

È impensabile che Casirati e altri, con Saronio morto e con la famiglia che di contro pretendeva a tutti i costi una prova dell’esistenza in vita; con la necessità di ricorrere, per giocare il tutto per tutto, all’unico della banda che aveva conosciuto e frequentato Saronio, poteva dare un aiuto concreto, lo avrebbe invece tenuto in disparte lesinandogli anche le notizie sullo svolgimento dei fatti.

Fioroni insomma non si ferma di fronte alla morte dell’amico-compagno, ma si ingegna per arrivare comunque a trarre un profitto economico da quell’omicidio. Non si pone alcuno scrupolo ripensando a quando Saronio lo aveva aiutato nascondendolo nella sua casa di corso Venezia, dove vede la foto appesa sopra il letto che ritrae l’ingegnere con i bambini indios che aveva aiutato durante un viaggio umanitario, o nella villetta di Bogliasco, dove c’è anche la cagnetta che descriverà ai complici. Fioroni per la corte non ha diritto ad attenuanti generiche perché “non ha dimostrato alcun pentimento”: al massimo si può parlare di autocritica, di fredda lucidità e calcolo razionale nei vari momenti in cui confessa, ritratta, aggiusta di fronte a evidenti emergenze processuali.

[Fioroni] non è realmente pentito perché se così fosse non avrebbe potuto tacere della morte, ma ne avrebbe dovuto parlare per l’irrefrenabile bisogno del penitente di allontanare da sé la propria colpa dichiarandola agli altri […]. Come si vede in quel lungo interrogatorio del 22 dicembre 1975 non esisteva alcuna angoscia morale ma freddo, lucido e bieco calcolo, ché altrimenti Fioroni non avrebbe iniziato la ‘confessione’ con una tirata autocritica sul modo aberrante di fare e di intendere l’intervento politico, bensì piangendo (non necessariamente con le lacrime) la morte dell’amico.

Sta di fatto invece che Fioroni, nel corso del processo, ripete che non abbandona la speranza di riabbracciare l’amico Saronio fino a quando non saltano fuori quei
resti che vengono attribuiti incontrovertibilmente alla vittima. Ed ecco che arrivano le condanne di primo grado. Carlo Fioroni, Giustino De Vuono, Carlo Casirati, Alice Carobbio (alla quale si concedono le attenuante generiche perché diventata di recente madre) e Gennaro Piardi vengono condannati per sequestro di persona, omicidio, occultamento di cadavere (più altri reati minori collegati a questi).

Le pene sono elevate (anche se i giornali fanno notare che avrebbero potuto essere più pesanti): Carlo Fioroni dovrà scontare ventisette anni di reclusione e pagare una multa di un milione e 500mila lire; per Carlo Casirati venticinque anni e 1 milione e 600mila lire; per Giustino De Vuono trent’anni e 2 milioni e 700mila lire; per Gennaio Piardi venticinque anni e un milione e mezzo; e per Alice Carobbio dodici anni e 400mila lire. Inoltre Fioroni, De Vuono, Casirati, e Piardi sono condannati anche a risarcire la madre dell’ingegnere, Anna Boselli, costituitasi parte civile, versandole 400 milioni di lire e a rimborsare le spese legali da questa affrontate.

Dai pochi mesi a cinque anni le condanne per gli altri imputati che in tutta questa vicenda hanno avuto ruoli più marginali: Gioele Bongiovanni, Maria Chiara Ciurra, Enrico Merlo, Brunello Puccia, Alberto Monfrini, Maria Santa Cometti e Giovanni Mapelli.