Il giorno in cui un pezzo d’Italia perse l’innocenza: 47 anni fa la strage di piazza Fontana

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Banca nazionale dell'agricoltura, piazza Fontana, Milano

Si era ancora innocenti, all’ora di pranzo del 12 dicembre 1969, quando il telegiornale delle 13.30 aveva raccontato agli italiani che la Grecia dei colonnelli si era ritirata dal consiglio d’Europa dove si discuteva della sua sospensione. E aveva raccontato anche che la vertenza sindacale dei lavoratori dell’editoria sembrava mettersi al bene mentre nulla cambiava per i metalmeccanici, che restavano in stato di agitazione. Intanto – proseguiva la catena delle notizie – a Palermo non si arrestavano le indagini per la strage di viale Lazio, uno dei momenti più feroci della prima guerra di mafia. Ma in mezzo a tutti quegli scorci di vita e fatti, l’edizione del notiziario si concludeva con un soffio dell’innocenza tramontante degli anni Sessanta.

Lucio Battisti, snobbato dalla sinistra perché poco o per nulla impegnato, un fascistoide per qualcuno, come tutti quelli che non si schieravano, continuava a respirare a pieni polmoni la consacrazione del suo successo dopo ostacoli e delusioni. Era stato un anno fortunato, per lui, il migliore di tutti, iniziato in febbraio con il successo al festival di Sanremo dove aveva cantato Un’avventura e proseguito in estate con Acqua azzurra, acqua chiara, pezzo del trionfo al Festivalbar e al Cantagiro. Con una cadenza burina a rivendicare la sua estrazione sabina, e mentre confessava con una punta di imbarazzo al microfono di Lello Bersani che non aveva mai studiato musica, mescolava la timidezza dello sguardo alla caparbietà del suo percorso artistico.
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Addio a Michele Cacioppo, l’ispettore che ha indagato in silenzio sulla stagione delle stragi

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Michele Cacioppo

Chi ha lavorato con lui conserva ricordi precisi. Il sigaro che accendeva appena sceso dalla moto per dare qualche tiro prima di entrare in uffici in cui il divieto di fumo è legge da anni. E l’abilità nelle ricerche d’archivio. In primis gli archivi delle questure, che conosceva alla perfezione, ma anche di procure e apparati di intelligence, da cui aveva acquisito fascicoli e atti che poi si era studiato per le sue annotazioni destinate alla procura di Brescia.

L’ispettore di polizia Michele Cacioppo, nato il 28 aprile 1957 a Menfi, in provincia di Agrigento, è stato un protagonista silenzioso di una stagione. È quella delle indagini, seguita agli anni della strategia della tensione, delle stragi, dei depistaggi, dei morti nelle banche, nelle stazioni, nelle piazze. In forza ai servizi antiterrorismo della Direzione centrale della polizia di prevenzione, praticamente da sempre era stato in prima linea in indagini delicatissime. Ustica, per citare solo un episodio, con le 81 vittime morte a bordo del Dc9 dell’Itavia abbattuto il 27 giugno 1980 nei cieli del Mediterraneo.

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Omicidio Bruno Caccia, quando il “mistero italiano” poteva non essere tale

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Gli arresti per il delitto caccia

Due fascicoli. Uno ha già dato vita a un processo in Corte d’Assise. Dunque il reato non è nemmeno per idea bagatellare, ma è grave, un omicidio premeditato, e in questo caso c’è un imputato. E poi ce n’è un altro, di fascicolo, in cui l’imputato di cui sopra, sempre lo stesso, è ancora “soltanto” indagato. E sempre lo stesso è il pubblico ministero. Anche il delitto – l’omicidio di Bruno Caccia – non è che possa cambiare più di tanto. Roba da rompicapo giudiziario o, poco poco, da stress test del codice penale e di procedura penale con tanto di giurisprudenza citata.

Eppure la vicenda – l’omicidio del procuratore di Torino, consumato il 26 giugno 1983 – avrebbe dovuto essere trattata diversamente. Come dovrebbe essere trattata ogni vicenda giudiziaria in cui ci sono vittime, parenti delle vittime e persone sottoposte a giudizio che sono innocenti fino a sentenza definitiva. Un insieme di umanità che, partendo dalla specificità della propria posizione, merita tutta l’attenzione possibile perché il carcere è il carcere, un’accusa è terribile e un innocente in galera non serve a nessuno. Come a nessuno serve la scarcerazione – richiesta e stoppata – di un sospetto colpevole contro cui si può usare ormai poco.

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Gennaro Ciliberto, testimone di giustizia: “Dal 3 dicembre sciopero della fame contro uno Stato che non c’è”

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Gennaro Ciliberto, testimone di giustizia contro la camorra, mi invia questo testo. Lo ha scritto per ribadire ancora una volta la profonda solitudine, quando non l’esplicita indifferenza da parte delle istituzioni, verso chi ha denunciato. A questo stato di fatto intende reagire e spiega come di seguito. L’Associazione Antonino Caponnetto ha già fatto sapere che ci sarà.

«Con enorme dolore devo annunciare che venerdì 3 dicembre sarò dinnanzi a palazzo Chigi per iniziare lo sciopero della fame, in protesta per la mancata attuazione del programma di protezione e il non rispetto della legge 45/2001 (modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonchè disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza).

Questa è l’ultima mia possibilità: nonostante sia invalido e ammalato, sono costretto a questo ultimo gesto di umiliazione. Mi sono sempre attenuto alle regole comportamentali del programma di protezione, mi sono ricostruito da solo una vita, una nuova identità, un lavoro. Tutto da solo, ma non mi sarei mai aspettato che dallo Stato ci fosse quel silenzio che ti uccide e ti rende vittima a vita.
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Marocco: il martirio di Mouhcine Fikri e la storia di un Paese a cui continuare a guardare

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Khalid Moufid è ben più dell’interprete che ha dato un contributo fondamentale al libro Morire al Cairo. È un profondo conoscitore della situazione mediorientale e interviene con una replica agli articoli dello scorso 31 ottobre in cui si scrive della “nuova ondata della cosiddetta primavera araba in Marocco dopo la tragica morte del pescatore Mouhcine Fikri” (se ne parla anche qui). Ecco cosa scrive in proposito Khalid.

Dopo che in tutti i Paesi arabi si è spenta la candela della libertà, c’è ancora la Tunisia che ha proprio un autunno e stiamo tutti aspettando la fine della caduta delle foglie per capire se diventerà un altro amaro, rigido, freddo e agghiacciante inverno o no. Da semplice cittadino marocchino, vedo che da tante parti si soffia sul fuoco e altri strumentalizzano questa morte per colpire la stabilità geopolitica del Marocco o semplicemente per creare l’ennesima occasione per vendere armi e aprire la strada ai servizi segreti occidentali, oltre a mettere l’ultima zampa sul nord Africa, a pochi passi dello stretto di Gibilterra, dopo che hanno messo gli artigli su Egitto, Libia e Tunisia.

Ho visto tante volte il filmato in cui Mouhcine prova invano a impedire alla polizia di sequestrare la sua merce. Perché, per lui, morire significava difendere il suo secco pezzo di pane e buttarsi dentro la pressa del camion dell’immondizia. Da kamikaze, Mouhcine decide di farla finita scegliendo di sacrificarsi e far consumare il suo corpo mentre si sente una voce robusta affaticata e autoritaria: “Than mou, than mou” (“Pressalo, pressalo”).
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Caso Uva: “Perché è stato omicidio preterintenzionale”

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Il caso di Giuseppe Uva

“Le condizioni di Giuseppe Uva erano fin da subito tali da imporre la chiamata al 118 […] con il duplice risultato di fornire al paziente l’assistenza necessaria facendo cessare ogni turbativa della quiete pubblica”. Invece la richiesta di intervento fu annullata e “sproporzionato” è stato il dispiegamento di forze dell’ordine – una gazzella dei carabinieri e tre volanti della polizia – per avere ragione di due uomini che avevano alzato troppo il gomito.

Questi sono solo alcuni passaggi della durissima richiesta alla Corte d’assise d’appello da parte del sostituto procuratore generale di Milano Massimo Gaballo. La vicenda è quella di Giuseppe Uva, l’operaio di 43 anni morto all’ospedale di Varese la mattina del 15 giugno 2008 dopo essere stato fermato da due carabinieri e sei poliziotti, processati e assolti in primo grado dall’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona.

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Le indagini di Nic, terzo episodio: “Il manipolatore”, un altro caso ispirato alle indagini di Eagle Keeper

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Il Manipolatore

Terzo episodio della collana Le indagini di Nic, i gialli scritti a quattro mani con Argia Granini ispirati ai casi reali dell’agenzia Eagle Keeper, fondata da Ugo Vittori e specializzata nell’antifrode assicurativa. Questa volta, nel libro Il manipolatore, si uccide per incassare denaro e questa è la presentazione del romanzo:

Un assassinio inspiegabile, quasi un’esecuzione, costringe una tranquilla cittadina di provincia a interrogarsi sui personaggi che entrano a vario titolo nella storia. Lucio Girone, il morto, è un essere mite e con problemi di salute, fisici e mentali. Andrea Carli, il presunto colpevole, è un personaggio ambiguo, con precedenti di scarsa rilevanza. E poi c’è Adele, una donna innamorata. Quale segreto lega i tre protagonisti?

Con il supporto di Giraldi Editore, il giallo viene distribuito in ebook mentre qui e qui si parla dei due episodi precedenti, “Di tutte le ipotesi” e “Il futuro non esiste”. E anche stavolta, come nel secondo, la prefazione è di Cinzia Gennarelli, marketing manager di Eagle Keeper.

Il massacro del Circeo: una storia di violenza politica e di genere (seconda parte)

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Il massacro del Circeo

Lo sguardo di Donatella Colasanti, dopo le ore trascorse nella villa del Circeo prigioniera di Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, non sarà mai più quello di prima. La sua amica Rosaria Lopez è stata affogata dopo un’interminabile sequenza di sevizie e lei, sopravvissuta fingendosi morta, avrà davanti le immagini delle torture durate un giorno e mezzo fino a quando, a 47 anni, muore di cancro al seno. È il 30 dicembre 2005.

Nel 1976 il processo per i fatti del 29 settembre 1975 è di quelli che tengono l’opinione pubblica incollata alle cronache. In aula si batte come una leonessa l’avvocato Tina Lagostena Bassi, che rappresenta Donatella, e le udienze per la prima volta vengono filmate dalla Rai per quello che diventerà «Processo per stupro», il documentario di Loredana Rotondo. Alla difesa della ragazza contribuiscono anche le associazioni femministe.
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Il massacro del Circeo: una storia di violenza politica e di genere (prima parte)

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Il massacro del Circeo

È in pieno Agro Pontino, a un centinaio di chilometri da Roma. San Felice Circeo si affaccia sul mare e d’inverno è un paesone di poco più di 10 mila abitanti. D’estate, però, si riempie. I villeggianti arrivano dalla capitale, da Latina e anche da più lontano perché qui le spiagge sono sabbiose, le seconde case si aprono, la tranquillità sembra inscalfibile. Una tranquillità che a fine settembre, a maggior ragione, sembra più piena, tra riverberi della stagione estiva ormai tramontante e un’aria non ancora frizzante, ma fresca, che allontana di un altro po’ l’autunno già iniziato.

A maggior ragione chi guarda verso Villa Moresca, verso una strada isolata del promontorio, si immagina fine settimana con lo sguardo sul mare, non un massacro. Eppure è qui, dopo essere passati accanto a villette chiuse, che si consuma un fatto rimasto agli annali della cronaca. È il massacro del Circeo, quello che il 29 settembre 1975 trasforma una pace fatta di salsedine e fughe dalle città in una storia che si riverbererà negli anni diventando simbolo.
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Graziella De Palo e Italo Toni: 36 anni fa la scomparsa a Beirut dei due giornalisti mai ritrovati

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Italo Toni e Graziella De Palo

La scomparsa di Maria Grazia De Palo, per tutti Graziella, 24 anni, e di Italo Toni, 50, entrambi specializzati in Medioriente e in traffico di armi, venne denunciata dai genitori della ragazza il 4 ottobre 1980. Agli agenti della questura di Roma raccontarono che i giornalisti erano partiti il 22 agosto precedente per il Libano passando attraverso la Siria.

Per preparare il viaggio, si erano avvalsi dell’aiuto di Nemer Hammad, portavoce in Italia di Yasser Arafat, e avrebbero dovuto rientrare il 15 settembre. L’ultimo contatto avuto con la figlia risaliva al 23 agosto quando, da Damasco, Graziella aveva spedito un telegramma scrivendo solo «au revoir», arrivederci, per annunciare l’atterraggio. Dopodiché il silenzio.

Fino alla metà di settembre, tuttavia, non ci si era preoccupati, dato che era difficoltoso comunicare dal Libano, precipitato nel 1975 in una guerra civile che che durerà diciassette anni. Quando però i giornalisti non erano rientrati, la famiglia aveva tentato invano di avere informazioni dall’Olp di Roma e dalle ambasciate di Beirut e Damasco.
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