Indicommons blog: archivi fotografici che vengono messi in comune

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Indicommons blog

Il blog si chiama Indicommons, rappresenta un’estensione del progetto fotografico Flickr Commons e il nome deriva dalla contrazione tra indico (rendere noto pubblicamente) e, appunto, commons, inteso partendo da questo concetto. Concetto sottoscritto da istituzioni di oltre mezzo mondo. Per seguire ciò che viene via via condiviso, è stato messo a disposizione qualche strumento.

Il caso Calvi e la valigetta dei documenti che ricomparve anni dopo il suo omicidio

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Black Friars - Foto di Marco ZakRoberto Calvi. Un nome che torna spesso – e in tempi di rivisitazione della storia craxiana – è tornato con maggiore frequenza. La sua carriera all’interno del Banco Ambrosiano con bancarotta finale, le sue pericolose commissioni affaristico-criminali con banchieri vaticani, P2, partiti politici (Dc e Psi in primis) e avventurieri vari hanno dato origine a molteplici procedimenti giudiziari. In attesa della sentenza d’appello ai suoi presunti assassini, assolti in primo grado con una formula che richiama la vecchia insufficienza di prove, tra questi processi ce n’è però uno che con gli anni è andato progressivamente dimenticato: quello per la ricettazione dei documenti contenuti nella borsa che Calvi portò con sé negli ultimi giorni della sua vita, finita sotto il ponte dei Frati Neri di Londra il 17 giugno 1982. Per iniziare a raccontarlo, questo pezzo di storia, occorre fare un salto in avanti.

Il primo giorno dell’aprile 1986 i telespettatori che seguono la trasmissione Spot di Enzo Biagi assistono in diretta a una scena per lo meno curiosa: in studio, oltre al celebre giornalista, ci sono il senatore Giorgio Pisanò e un imprenditore sardo, Flavio Carboni, già noto alle cronache giudiziarie per essere stato il braccio destro di Roberto Calvi e averlo accompagnato nel suo ultimo viaggio verso la Gran Bretagna. Il senatore con sé ha una borsa nera, una Valextra a soffietto, e prima di compiere qualsiasi gesto premette di non conoscerne il contenuto. Dopodiché la apre tenendo con il fiato sospeso chi guarda, memore della fine violenta che poco meno di quattro anni prima aveva fatto il suo proprietario. Si tratta infatti della borsa di Roberto Calvi, spiega l’allora parlamentare che, dal 10 novembre 1981 all’11 luglio 1983, aveva anche fatto parte della commissione d’inchiesta sulla P2. E a «certificarne» l’autenticità non a caso c’è Carboni.
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Il manifesto dei 101, quando un’altra politica era possibile

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Sul sito di Micromega viene riproposto un articolo di Emilio Carnevali pubblicato sul nono numero del 2006 a proposito del manifesto dei 101. Si intitola I fatti d’Ungheria e il dissenso degli intellettuali di sinistra:

Attraverso documenti e interviste ai firmatari, genesi, diffusione e censure del “Manifesto dei 101”, con cui molti intellettuali di sinistra – la maggior parte iscritti al Pci, come lo stesso Antonio Giolitti – stigmatizzarono i ritardi nella critica allo stalinismo e l’errata analisi della rivolta ungherese, invitando il partito a porsi dalla parte degli insorti. “Un’altra politica era possibile”.

E a proposito di Antonio Giolitti, il blog del circolo sassarese di Giustizia e Libertà racconta di un antifascista e partigiano, a sinistra contro i carristi e contro Craxi.

“Gli archivi di Dracula”: il classico di Rudorff uscito nel 1971 e ripubblicato da Gargoyle Books

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Gli archivi di Dracula di Raymond RudorffEcco un libro che, per gli amanti del genere (anche se un testo di questo tipo soffre a essere ridotto all’interno di “gabbie di genere”), è un cult. Si tratta dell’opera di Raymond Rudorff intitolata Gli archivi di Dracula e in uscita tra un paio di giorni per i tipi di Gargoyle Books, casa editrice apprezzata da queste parti. Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1971, è importante per una serie di ragioni. La prima, l’originalità dell’approccio dell’autore, giornalista inglese e scrittore con una bibliografia composta da una quindicina di titoli, tra saggi e romanzi:

Rudorff, però, si spinge oltre l’analisi storica e converte la sua somma erudizione in creatività: con superba maestria, utilizza i dati acquisiti e la conoscenza delle tradizioni popolari e religiose transilvane per dare vita a una narrazione dall’avvincente ed elegante impianto gotico. Una narrazione non esente dalle suggestioni visive della filmografia Hammer che, maggiormente interessata a far emergere le potenzialità sadiche del vampiro piuttosto che i suoi tormenti interiori, ha reso in termini più sofisticati e compiuti ciò che il precedente cinema horror aveva soltanto tracciato: l’indomita attrazione per il terrifico come mistero profano con cui è possibile misurarsi e non soltanto rimuovere.

La seconda, la trama, che coniuga in parallelo fatti contemporanei (alla vicenda, ambientata alla fine del XIX secolo) e vicende ancestrali:
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“Voglio vivere così”, una storia che arriva dagli anni di piombo

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Voglio vivere cosìNuovo libro che esce per la collana Senza finzione di Stampa Alternativa curata insieme a Simona Mammano. Si tratta di Voglio vivere così – Esistenze negli anni di piombo, scritto da Ansoino Andreassi con prefazione di Giancarlo Caselli:

Dall’eccidio delle Fosse Ardeatine all’attentato a Togliatti, da Bartali alle Lambrette, dai morti di Reggio Emilia alla nascita dei gruppi estremistici fino agli anni di piombo. Questo è lo scenario di un romanzo corale all’interno del quale un poliziotto, Guido, dà la caccia a una coppia di presunti terroristi e si imbatte nel corpo senza vita di un amore giovanile, Rina, uccisa per motivi misteriosi. Ne segue un’indagine che vede sfilare contrabbandieri già X Mas, ragazzini che giocano con kalashnikov e bombe, studenti stranieri che militano nelle organizzazioni pro-Palestina e agenti dei servizi segreti ostili. È la storia di un Paese, mai raccontata del tutto, ma vissuta fino in fondo. Una storia in cui la finzione diventa strumento per una lettura oltre le ricostruzioni ufficiali.

Per la stessa collana sono usciti nell’ultimo anno C’era una volta l’intercettazione di Antonio Ingroia, Disonora il padre e la madre di Alessandro Chiarelli, Le tigri di Telecom di Andrea Pompili, Assalto alla Diaz di Simona e in ultimo Attentato Imminente.

In Etiopia come in Somalia, le opere pubbliche sopravvivono pochi giorni

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Un fatto del genere fa pensare alla Somalia e alle opere si sciolgono sotto il sole. In questo caso, invece di sciogliersi al sole, Peacereporter racconta la storia di 220 milioni di euro in fumo. E il luogo è poco lontano, l’Etiopia.

È crollato dopo due settimane esatte dall’inaugurazione del 13 gennaio scorso, avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che suggellava con la sua presenza l’ingente impegno italiano in questo mega progetto. Si tratta del Gilgel Gibe II, il tunnel di 26 chilometri costruito per generare energia sfruttando la differenza di altitudine fra il bacino della Gilgel Gibe I e il fiume Gibe. Siamo nel cuore dell’Etiopia, nella valle del fiume Omo, un paradiso che sta per sparire, ingoiato dalla rapacità di governi e grandi interessi, che nelle acque cristalline dell’importante fiume ci vedono solo energia e tanti soldi. Dietro a questo misero flop, infatti, c’è un intreccio di interessi e business a nove cifre, che occorre analizzare passo passo, per arrivarne a capo.

Giornalisti spiati, magistratura muta, segreto di stato che seppellisce le indagini

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Domani di Maurizio ChiericiQuesta volta i personaggi di cui si parla lavoravano in coppia. Erano Niccolò Pollari, ex capo del Sismi, e Pio Pompa, il quale, dai suoi uffici capitolini di via Nazionale, aveva confezionato dossier su una serie di persone: magistrati, giornalisti, editori, intellettuali che, a detta loro, si sarebbero distinti per ostilità antigovernative. Per ricostruire questa vicenda, invece di avvalersi di atti giudiziari e documenti, stavolta si cambia ottica e ci si affida alle parole di Andrea Cinquegrani, direttore – insieme a Rita Pennarola – del mensile La Voce delle Voci, conosciuto come La Voce della Campania prima che la testata cambiasse (di poco) nome e diventasse nazionale. Cinquegrani, Pennarola e i loro collaboratori storici sono stati tra gli obiettivi delle osservazioni ravvicinate del servizio segreto militare.

Quando avete saputo di essere stati oggetti di “attenzioni” particolari da parte del Sismi?

L’abbiamo letto su Repubblica il 5 luglio 2007, quando uscirono due pagine sul “Sismigate”. Si raccontava che erano stati attenzionati oltre 200 magistrati, molti giornalisti e politici. In queste due pagine, a firma di Carlo Bonini, c’era anche un organigramma, una sorta di galassia eversivo-terroristica, che comprendeva anche la Voce della Campania, allora ci chiamavamo ancora così. A noi nello specifico era dedicato un paragrafo, “Quella voce da spegnere”, in cui si diceva che eravamo tra i protagonisti di attività anti-Berlusconi e che nostri collaboratori erano legati ad ambienti particolari, dell’eversione. Si parlava non poco di Percy Allum: in quanto docente all’Orientale di Napoli, si insinuava che fosse in contatto anche con cellule del terrorismo islamico. Inoltre, in quanto inglese, sarebbe stato in collegamento con numerosi corrispondenti della stampa estera, in particolare britannica ma non solo, e quindi in grado di influenzare i giornali stranieri. Noi dunque eravamo al centro e fra i protagonisti di questa inesistente cospirazione.
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“Il tacco di Dio”: storie di immigrati e di donne ai margini della Calabria

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Il tacco di Dio di Katia ColicaDella casa editrice Città del Sole si è parlato varie volte per i libri che pubblica sul Mezzogiorno d’Italia. E si torna a farlo con l’uscita del testo Il tacco di Dio di Katia Colica:

[l’autrice] è penetrata nel cuore del sobborgo reggino, accostandosi ai racconti di vite piegate, senza speranza e futuro. Ad Arghillà è facile incontrare bande di ragazzini che dalla strada hanno imparato a crescere in fretta, prostitute bambine che escono al calare della sera, quando chi può si confina in casa, Qui vivono abusivi, immigrati, poveri, qui la prostituzione, lo spaccio, la miseria sono all’ordine del giorno. Questo è il quartiere dei rom, confinati nella collina a nord della città in nome della “delocalizzazione”, e delle famiglie più povere che hanno occupato case di edilizia popolare, malsane e ai limiti della invivibilità […]. “Noi siamo il tacco di Dio e tutto ci è vietato”, dice una vecchia amareggiata alla fermata di un autobus che non passa quasi mai, e il suo sfogo è quello di tutte le donne intervistate nel libro, perché, come sempre, a pagare il prezzo più alto di sofferenza e disagio è proprio la popolazione femminile, che vede consumare i destini dei propri figli negli stessi meandri in cui si sono spenti i propri.

È fin troppo facile farsi venire in mente i recenti fatti di Rosarno. Questo libro però viene scritto prima e dunque in qualche modo anticipa quegli eventi, riponendo attenzione anche su un’altra forma di emarginazione calabrese.