Aurolalia: tra Gaja Cenciarelli e Monica Mazzitelli un booktrailer da votare

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Un appello per il voto: che si dia la propria preferenza a Monica Mazzitelli e Gaja Cenciarelli, in concorso al festival della piccola e media editoria che si terrà a Pisa a fine settembre. Qui la pagina web per votare e qui invece una descrizione di Aurolalia.

Pentiti di niente. Primavera 1976: nuovi arresti e le prime conferme sulla morte di Saronio

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Carlo SaronioNella prosecuzione delle indagini gli inquirenti decidono di sentire Rossano Cochis. Del resto testimonianze a suo carico non mancano: Fioroni dichiara che, pur appartenendo alla criminalità comune, gli era stato indicato da Casirati come un soggetto da utilizzare a scopi politici, anche se poi non se ne sarebbe fatto più nulla. Inoltre si sarebbe incontrato di frequente sia prima che dopo il pagamento del riscatto con Gennaro Piardi, la cui posizione nel frattempo si aggrava: i suoi presunti complici lo indicano infatti come colui che ha ucciso materialmente Carlo Saronio.

In un primo momento si decide di convocare Rossano Cochis come testimone e non come indiziato perché farebbe parte del gruppo dei bergamaschi che si chiama fuori dal sequestro: in questo caso diventerebbe un teste dell’accusa e potrebbe dare un contributo determinante nel lavoro di ricostruzione dell’intero organigramma della banda. Alla peggio aiuterà a comprendere le reali ragioni che hanno spinto Fioroni a sequestrare l’amico e compagno Saronio.

Se intercettare Cochis non è affare semplice per gli investigatori, ecco che arriva un colpo di fortuna: viene fermato per gioco d’azzardo e intanto meglio fargli qualche domanda in più prima che scompaia di nuovo. Così Cochis ammette di conoscere Casirati e di aver discusso con lui di Saronio e del suo rapimento, un “grosso affare” avrebbe aggiunto il malavitoso di origine bergamasca, ma di non poter aggiungere altro: nutriva scarsa stima per Casirati e così gli ha dato retta fino a un certo punto finendo per declinare l’offerta.
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A parole, in breve # 10: “C’erano bei cani ma molto seri” di Alberto Spampinato

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C'erano bei cani ma molto seri di Alberto SpampinatoRiprende la programmazione di A parole, in breve con una nuova puntata (in programmazione ogni giovedì, alle 20.20, su GNUFunk Radio), che parla del libro C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo, scritto da Alberto Spampinato (Ponte alle grazie, 2009):

C’era un campo di girasoli, e mangiavamo i semi ancora verdi. C’erano le mucche, e la sera facevano la ricotta… Il padrone di casa, o un suo figlio, era cacciatore. C’erano bei cani, ma molto seri. Un giorno legarono un cane in cortile, e stette lì forse per due giorni. Il cane ululava, si lamentava, era straziante. Ci dissero di non avvicinarci, aveva la rabbia. Poi lo abbatterono a fucilate. Ricordo l’odore della terra bagnata dagli acquazzoni estivi. Quell’odore mi inebriava”. Così, ricordando la propria infanzia, scriveva nel 1971 il giovane giornalista ragusano Giovanni Spampinato, in una tragica e involontaria profezia: fu ucciso poco tempo dopo in circostanze ancora non chiarite. Come corrispondente dell'”Ora” di Palermo indagava su un omicidio e aveva cominciato a rivelare un perverso intreccio fra mafia, eversione nera e servizi segreti. Il fratello minore Alberto, anche lui giornalista, affida oggi a queste pagine un toccante e inquieto ritratto della sua famiglia di origine e un’inchiesta sulle vere cause della morte di Giovanni; ma al contempo vi raccoglie un’indagine personale e profonda sulla storia culturale e sociale della sua terra, la Sicilia, e del nostro Paese: dalla seconda guerra mondiale all’impegno del padre per l’ideale comunista, dal regno incontrastato della cultura contadina alle nuove stagioni dell’industrializzazione e della contestazione, fino all’emergere dei poteri oscuri della reazione e della criminalità.

Il brano che accompagna il racconto si intitola Amici di Rausa, è di Antonio Mainenti ed è rilasciato con licenza CC BY-NC-ND.

La puntata è scaricabile dal sito di Archive in formato mp3 o ogg.

Pentiti di niente. Milano, 22 dicembre 1975: una prima versione

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Carlo SaronioHa provato a resistere nel corso di quei mesi, ha provato ad addossare la responsabilità ai “comuni” e ha provato anche a calarsi nel quadro criminale che via via le indagini tracciavano, descrivendosi come una specie di salvatore, colui che prova tutto quanto in suo potere pur di salvare un amico. Ma Carlo Fioroni, una volta estradato in Italia, confessa tutto (o almeno così dichiara) e sarà talmente nutrita la sua confessione da andare a occupare 107 pagine dattiloscritte. Fioroni, che si vede che di cose da raccontare ne ha, ne scriverà altre sei solo per confermare quanto detto al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio.

Quando si decide a parlare, ammettendo di aver giocato un ruolo fondamentale nell’organizzazione del sequestro Saronio, fa una premessa: “Indipendentemente dalle intenzioni politiche che ne sono state all’origine, per un processo doloroso di autocritica che mi ha impegnato in questi mesi, ritengo di poter valutare questa impresa di cui mi assumo interamente la responsabilità, come la conseguenza aberrante di un modo di fare e di intendere l’intervento politico. Scagiono completamente gruppi od organizzazioni con cui posso aver avuto rapporti, nel senso che il termine politico che ho usato si riferisce non a rapporti organici ma ad un clima politico. Scagiono con questo anche i compagni Prampolini e Cazzaniga, a loro insaputa parzialmente coinvolti in questa faccenda”.

Parole complicate, frasi al limite del senso logico, per proseguire raccontando che dal luglio al dicembre 1974 si era concesso una specie di “vacanza” per costruire quei rapporti che lo avrebbero portato a organizzare il sequestro. Sequestro che sembra prendere concretamente forma tra il dicembre ’74 e il febbraio dell’anno successivo, ma poi pare scemare perché non riesce a mettere insieme una banda.
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Su “Polits” una retrospettiva dalla Francia sulle Brigate Rosse e sul rapimento Moro

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Politis

Per chi mastica il francese, segnalo l’articolo Années des plomb: entre tabou et refoulement (pdf, 360 KB), pubblicato sul settimanale d’oltrealpe Politis. Si tratta di un’intervista allo storico Enzo Traverso, docente presso la facoltà di scienze politiche all’università Picardie di Amiens, realizzata alla vigilia dell’uscita in Francia del libro Brigate rosse. Una storia italiana, scritto da Mario Moretti, Carla Mosca e Rossana Rossanda (disponibile a partire dal 16 settembre per i tipi di Editions Amsterdam, qui la scheda del volume francese).

“Eravamo solo bambini”: lo chiamavano il nido degli angeli, era il regno della brutalità

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Eravamo solo bambiniErano gli anni Sessanta, ma a Grottaferrata, cittadina del Lazio non lontana da Roma, gli echi di contestazioni e sommovimenti politici erano così distanti da non esistere. Qui, raccontano gli atti giudiziari, c’era un istituto, il Santa Rita, che doveva “accogliere 50 subnormali con trattamento familiare”, affidati alla sua direttrice, suor Maria Diletta Pagliuca, e ai suoi collaboratori. Ma in quegli anni non si faceva tanta attenzione alle facoltà intellettive dei piccoli ospiti e così bambini con problemi familiari venivano mischiati a coetanei a cui si aggiungevano difficoltà di altra natura.

Tutti loro, però, erano accomunati da un elemento: i maltrattamenti che subivano dal personale e dalla direttrice. Malnutriti, non assistiti, lasciati al freddo, percossi, legati e puniti ben oltre la tortura fisica e psicologica, i piccoli hanno subito di tutto senza potersi difendere. La vicenda di questa casa di accoglienza, chiamata “il nido degli angeli”, viene raccontata nel libro di Massimo Polidoro Eravamo solo bambini in presa diretta, attraverso i ricordi di Mario, un dodicenne che dopo aver girato vari istituti approda qui e vive fin dal primo momento la brutalità a cui ognuno viene sottoposto. È una vita di espedienti, quella degli ospiti che riescono a reagire, fatta di piccoli stratagemmi per tutelarsi dalle angherie quotidiane. E di devastante passività l’esistenza di chi invece non le capacità per sfuggire alle attenzioni degli aguzzini.

Quando questa vicenda verrà a galla, grazie all’indagine di un carabiniere, le accuse formulate a carico della direttrice comprenderanno “maltrattamenti aggravati e continuati”, “gravi lesioni”, l’aggravante dei “motivi per lucro”, “truffa a enti pubblici” e “sequestro di persona”. Ma le condanne furono tutto sommato miti: quattro anni e qualche mese, concessione di attenuanti generiche e assoluzione per i reati più gravi. Le “condanne” per i piccoli ospiti, invece, saranno a vita, segnati nell’infanzia da una violenza che non così di rado perpetreranno su altri in età adulta.
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“Il cuore occulto del potere”: la vera storia dell’Ufficio Affari Riservati

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Il cuore occulto del potere - Storia dell'ufficio affari riservati del ViminaleL’Ufficio Affari Riservati, struttura dipendente dal ministero dell’Interno, è stato a lungo un enigma. Si sapeva della sua esistenza e si sapeva che colui che ne fu a lungo al vertice, Federico Umberto D’Amato, c’entrasse con alcune delle vicende meno chiare ascrivibili al periodo della strategia della tensione. Ma mancava una ricostruzione che ne tracciasse la storia dall’inizio e cioè da quando, nel 1919, Francesco Saverio Nitti volle ristrutturare i servizi segreti del Viminale creando il Dagr, la divisione affari generali e riservati.

Le fonti che Giacomo Pacini, ricercatore dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea di Grosseto, ha consultato per il suo libro “Il cuore occulto del potere. Storia dell’ufficio affari riservati del Viminale – 1919-1984” (Nutrimenti, 2010, 256 pagine) sono molteplici. Ci sono le carte del giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, ma anche i documenti saltati fuori all’improvviso negli anni Novanta dai faldoni del Viminale. Si incontrano gli atti acquisiti a processo per le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia. Ma c’è anche parecchio materiale che deriva da appunti, in formative e rapporti dello stesso Ufficio affari riservati. Materiale che ha consentito di ricostruire una fittissima rete di informatori, provenienti tanto da destra quanto da sinistra, dall’extraparlamentarismo degli anni Settanta e dalle formazioni politiche ufficiali.
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Pentiti di niente. Giugno 1975: le indagini si estendono

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Carlo SaronioIl 4 maggio 1975, si diceva, è il giorno in cui la banda che rapisce Carlo Saronio commette il primo e principale errore: Casirati viene notato dagli agenti in borghese che seguono l’auto usata per andare a pagare il riscatto. Le dichiarazioni di Fioroni sembrano confermare che la pista è corretta e nel frattempo si sono aggiunti ulteriori dettagli raccolti dagli inquirenti.

Nei giorni successivi al mancato pagamento, la polizia si presenta a casa di Stella Carobbio, la sorella di Alice, compagna di Casirati, e sia lei che il marito, Giuseppe Beratti, dichiarano che effettivamente il 19 maggio il malavitoso che vive con Alice aveva consegnato loro una Simca 1000 con lo stesso numero di targa di quella vista nella cava: la devono restituire alla madre di lui perché Casirati se n’è comprata una nuova e non ne ha più bisogno. Inoltre fino a qualche giorno prima aveva vissuto insieme alla donna in un appartamento di Sesto San Giovanni, affittato sotto la falsa identità di Antonio Angeloni, e la coppia era scomparsa proprio in corrispondenza del pagamento del riscatto senza fornire alcuna spiegazione al padrone di casa e senza lasciare nuovi recapiti ai parenti.

Ma occorre rintracciare anche “lo scotennato”, l’ex-legionario di cui parla Fioroni dal carcere svizzero, e in aiuto arrivano informazioni fornite dalle questure della Calabria: un tizio con lo stesso soprannome lo conoscono, si chiama Giustino De Vuono, è un altro criminale comune anche se ufficialmente si manterrebbe con una pensione della Legione Straniera, e guarda caso salta fuori che era stato visto in Lombardia proprio nei mesi precedenti il sequestro.
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L’egemonia sottoculturale: perché le ragazze e le signore si confessano in tv

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L'egemonia sottoculturale di Massimiliano PanarariCominciamo dalla fine (questo non è un giallo e a ben guardare si sa già chi sono gli “assassini”): «Il mondo delle idee è un campo di battaglia nel quale, come in politica, il vuoto non esiste, e lo spazio se lo piglia chi mette in campo proposte e visioni (quanto maggiormente capaci di “conquistare” le masse, naturalmente). Si dovrebbe cominciare, allora, moltiplicando il più possibile gli anticorpi e, contestualmente, costruendo delle narrazioni alternative […] secondo un sistema di valori che non si fondi sull’individualismo selvaggio e la dittatura del consumo».

È uno stralcio dell’«epilogo (quasi) ottimista» al libro «L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip», uscito per Einaudi poche settimane fa e scritto da Massimiliano Panarari, saggista e docente di comunicazione pubblica e politica. In un periodo in cui tra scrittori e intellettuali rimbalza il dibattito o, meglio, l’appello ad abbandonare le case editrici afferenti al presidente del consiglio dei ministri – non che sia una novità, forse stavolta i toni sono solo più veementi visto il casus belli, la contrattazione fiscale favorita da una cosiddetta “legge ad aziendam” – Panarari parte in tromba dichiarando una défaillance: l’abbandono della tenzone culturale della sinistra. Una tenzone che a lungo è passata per i luoghi collettivi (a iniziare dai consigli di fabbrica) contribuendo a creare una coscienza condivisa del proprio “essere classe”.

Domani di Maurizio ChiericiPoi, però, sono arrivati gli anni Ottanta. Da cui – canta Manuel Agnelli con gli Afterhours – «non si esce vivi». Ed è vero. Intendiamoci, gli anni Ottanta non sono una punizione divina piovuta dal cielo su novelle Sodome e Gomorre dell’estremismo extraparlamentare, ma sono stati un effetto voluto e perseguito. E lo spiega bene Panarari quando attacca a raccontare della «controrivoluzione televisiva» e dell’«appuntamento al Drive In». Un drive in grottesco tanto quanto quello che dà il titolo al forse più famoso romanzo di Joe R. Lansdale, ma sicuramente ben più massivo, negli effetti e nella portata quantitativa. Perché, si badi bene, una cialtroneria che si rispetti, condivisa e assimilata a sufficienza da diventare life style, direbbero gli anglosassoni, non è cosa che si improvvisa.
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Pentiti di niente. Lugano, 16 maggio 1975: una valigia piena di denaro

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Carlo SaronioDue giovani, un uomo e una donna, si avvicinano a un’ausiliaria della polizia comunale di Lugano, Lucia Bernasconi, che sta pattugliando piazza Battaglini. Sono circa le quattro di un venerdì pomeriggio, le banche sono già chiuse e lo rimarranno fino al lunedì successivo e la coppia – due italiani che all’apparenza non sembrano avere nulla di particolare – chiede alla vigilessa dove può trovare un ufficio cambi. Lei li indirizza all’istituto Parini, poco lontano, in via Funicolare.

Morta lì, sembra, sul momento. E invece non passa mezz’ora che l’agente svizzera viene avvicinata da una giovane donna, Maria Balestra, che ha assistito a una scena strana o quanto meno curiosa: pochi minuti prima, mentre passeggiava insieme al marito sul lungolago a poca distanza dell’ufficio cambi, ha notato due giovani, gli stessi due di prima, che tenevano una ventiquattrore aperta sulle gambe e la valigetta era zeppa di banconote di grosso taglio. L’agente prende nota dei fatti e delle generalità della donna e si dirige verso il parco dopo aver avvertito la centrale operativa perché le mandi una pattuglia di rinforzo in via Parini.

Sulla stessa panchina indicata da Maria Balestra si trovano ancora i due italiani e all’ausiliaria sembra sospetto che abbiano cambiato il denaro con tanta rapidità. A questo punto vengono fermati e portati negli uffici della polizia comunale. Generalità e documenti. Così risulta che la ragazza si chiama Maria Cristina Cazzaniga e il giovane che l’accompagna è Pierluigi Bordoli. La valigetta che custodiscono è effettivamente piena di denaro, ma non solo svizzero: le banconote sono di nazionalità diverse e in totale si tratta di poco più di 65 milioni di lire.
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