Anche la memoria falciata dalla crisi: a Roma è a rischio chiusura il Museo storico della Liberazione di via Tasso

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Museo storico della Liberazione di Roma

La storia viene raccontata da Giacomo Russo Spena su Micromega Online e si intitola Se rischiamo di perdere la Memoria:

Rischia la chiusura. Per mancanza di fondi. Eppure è un patrimonio politico, storico e culturale per la nostra Memoria. Quasi 15mila visite solo nel 2013, tra cui moltissimi studenti. “Siamo in attesa che arrivino i soldi dal ministero dell’Istruzione, altrimenti sarà dura andare avanti”, è il grido d’allarme giunto dal Museo storico della Liberazione di Roma, a Via Tasso. Nel cuore della Capitale.

Istituito con la legge 227 del 14 aprile 1957, l’attuale stabile – di proprietà statale – venne utilizzato nei mesi dell’occupazione nazista di Roma (11 settembre 1943 – 4 giugno 1944) come carcere dal Comando della Polizia di sicurezza. Divenne tristemente famoso come luogo di reclusione e tortura da parte delle SS per oltre 2000 antifascisti, molti dei quali caddero poi fucilati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine. Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero edificio mentre adesso soltanto due dei quattro appartamenti destinati a museo, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Ora sono dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, e ricordano le più drammatiche e significative vicende nazionali e romane dell’occupazione.

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“Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia”: la storia di Carla, Marinella e Debora, tre donne di scorta

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Del libro Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia (Castelvecchi Rx) si parlava alla vigilia dell’uscita qui. Micromega Online ci torna riprendendo la parte dedicata alle donne da scorta 1992-2012. Sono le storie di Carla, Marinella e Debora. Nomi di fantasia per vicende vere. La prima calata nel periodo delle stragi del 1992-1993, la seconda durante il maxiprocesso di Palermo e la terza nella realtà palermitana dei giorni nostri. Di seguito un passaggio sulla seconda, la prima donna a effettuare i servizi di scorta:

Ho sentito, nel pieno del silenzio, il rumore dell’esplosione di una bomba. Non capivo cosa stesse accadendo. Era il 23 maggio del 1992 e io ero vicino Capaci con la mia famiglia per una vacanza primaverile. Stavamo preparando la cena. Anche mio marito è un poliziotto ed entrambi abbiamo avuto paura, uno strano sentore, come se qualcosa di drammatico stesse per accadere. Erano gli anni del Maxiprocesso e Palermo era una città in subbuglio. Molte cose stavano cambiando, altre sono rimaste uguali […]. Nel 1986 ho seguito il primo corso per le donne in polizia. Dopo, mi hanno subito destinata alle scorte. Sono rimasta a Palermo perché in quel periodo c’era necessità di personale. Anche se in verità io non avevo scelto di fare la scorta, volevo fare la poliziotta. Mi hanno subito fatto seguire molte delle personalità che operavano nel maxiprocesso. Quelli erano anni caldi (fine anni Ottanta) e io mi sono ritrovata ad essere tra le prime donne, in un mondo assolutamente maschile, a scortare magistrati. Non è stato facile anche per una questione di genere. Mi trovavo spesso a dover fare accettare la mia presenza agli uomini, in quello che fino ad allora era il loro mondo. Col tempo però le cose sono cambiate e sono nate grandi amicizie. Adesso si lavora bene insieme. Ci si aiuta. Gli anni delle stragi invece sono stati terribili. Uscivamo la mattina con la paura di non tornare più a casa. E questo è diventato ancora più difficile quando sono nati i miei figli. Mi sentivo responsabile verso di loro e non volevo che pagassero per le mie scelte professionali.

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Roma, Alemanno e la violenza: Medici sul “Manifesto”, più che della fiction, è colpa della criminalità organizzata

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Tutta colpa del cinema e del piccolo schermo, per il sindaco Gianni Alemanno, a commento dell’infittirsi di fatti criminali a Roma. Sul tema gli risponde dalle colonne del Manifesto il giornalista Sandro Medici (ripreso da Micromega online) che scrive:

Non sono gli immigrati, le comunità rom, i tanti poveracci che vagano, i problemi di questa città. Non sono loro a minacciarla, come sostiene la destra. Semmai è proprio dalle intolleranze e dal razzismo che affiorano comportamenti sociali rancorosi e incattiviti: aggressioni, spedizioni punitive, violenze sessuali, bastonate e puncicate. Alimentando le paure e scaricandole sui più deboli, è questa la Roma che Alemanno ha finito per offrirci.

Ed è in questo quadro desolato, con una città disorientata e incattivita, oltreché impoverita socialmente e culturalmente, che è in corso un tentativo strategico di insediamento criminale nel tessuto economico romano. Un tentativo che intanto sta progressivamente impossessandosi del sistema operativo della criminalità locale, disarticolando equilibri consolidati, eliminando chi fa resistenza o stringendo nuove alleanze.

Un processo che di certo determinerà nuove linee di comando: da cui non sembrano estranee le potenti organizzazioni camorriste e ‘ndranghetiste, bisognose di riversare e riciclare i loro giganteschi profitti illegali in una rete immobiliare e commerciale sostanzialmente «pulita» come quella romana; il recente sequestro di storici e prestigiosi locali, segretamente acquistati da alcuni clan, ne è una clamorosa dimostrazione.

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Giuliano Turone: ecco perché non si chiudono i conti con gli anni di piombo

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Il caso Battisti di Giuliano TuroneMicromega Online pubblica un’intervista di Rossella Guadagnini a Giuliano Turone dal titolo esplicito: Perché non riusciamo a chiudere i conti con gli anni di piombo. Il punto di partenza è il libro Il caso Battisti. Un terrorista omicida o un perseguitato politico? (Garzanti Libri, 2011) scritto dal magistrato che, insieme a Gherardo Colombo, scoprì il 17 marzo 1981 gli elenchi della P2. Ecco l’incipit dell’intervista:

“Non è che gli italiani non ne vogliano sapere di mettersi alle spalle gli anni di piombo. Ma il fatto è che la maggior parte di loro desidera che la cosa possa avvenire senza umiliare e ferire la sensibilità della vittime. La gestione del ‘caso Battisti’, da parte dei suoi simpatizzanti e da parte dello stesso interessato, si muove invece nella direzione contraria, per esempio quando parla – anche con una certa sguaiataggine – di ‘desiderio di vendetta’ per designare quella che invece è soltanto un’aspettativa di rispetto e giustizia da parte delle vittime di reato […]. È chiaro che non è così che si possono creare le premesse per ‘voltare pagina’ – prosegue Turone – E giustamente Antonio Tabucchi trova ‘offensivo che altri, che non hanno vissuto quello che hanno vissuto gli italiani, chiedano così superficialmente che l’Italia metta una pietra sopra la nostra storia tragica ancora non chiara’. Ma c’è una strada intelligente, civile e dignitosa per arrivare a chiudere i conti con il terrorismo, nel pieno rispetto della sensibilità delle vittime e nell’interesse di tutti”.

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Voci da Genova 2001: Mantovani (Fandango), Mammano (Stampa Alternativa) e Guadagnucci (Feltrinelli)

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Diaz. Processo alla poliziaManca meno di un mese al decimo anniversario dei fatti di Genova del luglio 2001, quando nel capoluogo ligure si svolse il G8 con il disastro e le violenze che ne seguirono. In vista dei dieci anni, esce per Fandango il libro Diaz. Processo alla polizia, scritto dal giornalista Alessandro Mantovani:

Sabato 21 luglio 2001, ultimo giorno del G8 di Genova, poco prima della mezzanotte, più di 300 operatori delle forze dell’ordine fanno irruzione nel complesso scolastico “Diaz”. In testa c’è il VII nucleo, seguono gli agenti della Digos e della mobile mentre i carabinieri circondano l’edificio. In quella che il comandante Fournier definisce “una macelleria messicana” vengono arrestate e picchiate 93 persone sebbene non abbiano opposto alcuna resistenza, in gran parte si tratta di ragazzi e giornalisti stranieri (per lo più tedeschi, francesi e inglesi) che stanno dormendo.

Il verbale della polizia parla di “perquisizione” perché si sospetta la presenza di black block nell’edificio. La portavoce della questura in conferenza stampa dirà che i 63 referti medici agli atti della polizia giudiziaria sono dovuti a ferite pregresse. Molti dei presunti black block scoprono solo in ospedale di essere stati arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, resistenza aggravata e porto d’armi.

Dopo il pestaggio nella scuola e le torture in ospedale, una cinquantina di arrestati vivono l’inferno delle torture nella caserma lager di Bolzaneto. I “prigionieri”, solo dopo diversi giorni vengono rimpatriati nelle proprie nazioni con l’accusa di terrorismo.

Sempre sullo stesso argomento, nella primavera del 2009 era uscito nella collana Senza Finzione di Stampa Alternativa il libro Assalto alla Diaz, firmato da Simona Mammano e di cui s’era già parlato.

Inoltre, a cura di Roberto Laghi, l’intervista audio sempre su Genova 2001 a un altro giornalista, Lorenzo Guadagnucci, autore insieme a Vittorio Agnoletto di L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova (Feltrinelli): Una ferita ancora aperta

Genova 2001, l’eclisse della democrazia. Intervista a Lorenzo Guadagnucci by Redazione MicroMega

Emilio Carnevali su Micromega: Mladic, Eichmann e i mostri della storia

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Emilio Carnevali, redattore di MicroMega, scrive a proposito di Mladic, Eichmann e i mostri della storia:

L’intreccio fra il calcio e le vicende politiche e belliche della ex Jugoslavia rimanda a un capitolo di quel conflitto che non possiamo affrontare nemmeno sommariamente. Ci limitiamo a ricordare che Zeljio Raznatovic, più noto con il famigerato soprannome di Arkan, era un capo ultras della Stella Rossa, la più blasonata squadra di Belgrado, prima di dar vita al gruppo paramilitare delle Tigri, i cui componenti vennero in gran parte reclutati proprio fra gli ultras e che si rese protagonista di alcuni dei peggiori massacri perpetratati durante la guerra di Bosnia. Quando Arkan fu assassinato – nel 2000, a guerra ormai finita – fu salutato a Belgrado da una folla di 20.000 persone; anche in Italia, nella curva dei tifosi della Lazio (notoriamente infarcita di gruppi di estrema destra), fu issato uno striscione che recitava “Onore alla tigre Arkan”.

Tuttavia il collegamento fra un elemento ordinario della nostra esperienza quotidiana come il calcio ed un evento assai lontano, di difficile comprensione almeno per le generazioni più giovani, come la guerra – la guerra nella sua stra-ordinaria atrocità – può forse essere utile per riflettere sul pericolo che un certo tipo di pratica della memoria possa scivolare paradossalmente nel suo opposto, ovvero in una Grande Rimozione. È il pericolo che corriamo quando separiamo certi fenomeni dall’orizzonte delle nostre possibilità, dei nostri destini collettivi, appiccicandogli addosso l’etichetta della mostruosità dis-umana. Siamo di fronte a una problematica ben al di là del dilemma – anch’esso presente in casi come questi – di una giustizia che opera sempre e solo nei confronti degli sconfitti, ovvero del terribile ammonimento che ci ha lasciato Joseph Goebbels quando nel 1943 dichiarò: “Passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali” (ai giorni nostri George W. Bush non è celebrato come un grande statista, ma c’è da esser certi che non sarà mai condotto alla sbarra per rispondere di crimini contro l’umanità).

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Micromega online: trent’anni di mistero sull’omicidio di Valerio Verbano

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Valerio Verbano di Giacomo Russo SpenaIl libro Valerio Verbano – Ucciso da chi, come, perché, scritto da Valerio Lazzaretti (Odradek), viene raccontato su Micromega Online da Giacomo Russo Spena nell’articolo Omicidio Verbano, trent’anni di misteri:

Il libro […] è un processo indiziario, è un’attenta e accurata inchiesta giornalistica che ricostruisce al dettaglio tutti questi eventi, evidenziando le contraddizioni, i misteri e le piste su cui bisogna invece ancora indagare. L’autore, Valerio Lazzaretti, ricostruisce tutta la vita di Verbano facendo un’esamina approfondita dell’estrema destra romana arrivando a far intuire ai lettori chi sono, per lui, gli assassini. O almeno i mandanti di quel feroce assassinio.

Non è il primo scritto, o prima controinchiesta, su questo caso ma Lazzaretti ha il merito di spiegare esattamente cosa fossero i Nar. Non un’organizzazione unica con un vertice e una base; impossibile equipararla ad altre sigle del terrorismo rosso e nero di quegli anni. È un logo di cui si appropriano molti, magari aggiungendo al marchio “Nar” un’altra sigla. Tra dicembre ’79 e giugno ’80 si innesca infatti una vera e propria rivalità tra i gruppi già operanti e i “nuovi spontaneisti” per avere l’egemonia nell’estrema destra. E se il gruppo Fuan-Nar che fa capo a Giusva Fioravanti in quel periodo cerca una tregua coi rossi per dedicarsi alla lotta al sistema, i Gpoa, che l’autore dimostra come non fossero di sinistra, vedono nei compagni l’obiettivo principale per la rivoluzione fascista. Una guerra intestina nell’estrema destra romana di cui Verbano fa le spese. Forse perché sapeva troppo.

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Regione Lazio: legge 194, un nuovo tentativo di minarla per “sostenere e promuovere la famiglia e i valori etici di cui è portatrice”

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Cinzia Sciuto avverte via Micromega Online che la legge 194 è (di nuovo) in pericolo. Ecco perché.

Al consiglio regionale della Regione Lazio è in discussione una proposta di legge che, se dovesse passare, costituirebbe il primo mattone per la messa in discussione della legge 194, quella che disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza. La 194, tra le altre cose, conferisce un ruolo centrale ai consultori familiari, strutture pubbliche che hanno tra gli altri scopi, come si legge nella legge che li istituisce (29 luglio 1975 n. 405), «la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti».

È molto chiara l’ispirazione della legge: i consultori sono al servizio delle donne e degli uomini che si rivolgono a queste strutture, le quali hanno l’obbligo di assisterli nel pieno rispetto delle loro scelte. Anche la proposta di legge attualmente in discussione in Regione, su iniziativa della consigliera Tarzia, è molto chiara. L’idea è quella di trasformare i consultori, da luoghi di sostegno e rispetto delle donne, in «istituzioni vocate a sostenere e promuovere la famiglia ed i valori etici di cui essa è portatrice» e a tutelare il «figlio concepito, già considerato membro della famiglia». La legge propone di riconoscere, affianco ai consultori pubblici, anche consultori gestiti «dall’associazionismo familiare, da associazioni di volontariato, da fondazioni», insomma dal cosiddetto «privato sociale», ed infine anche consultori privati veri e propri.
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L’egemonia sottoculturale: il post-moderno degli anni Ottanta e il trionfo dei “mezzi di distrazione di massa”

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L'egemonia sottoculturale di Massimiliano PanarariSu consiglio di Claudio Vercelli e in relazione a un futuro progetto oltre confine, ho iniziato a leggere un libro che promette bene, L’egemonia sottoculturale – L’Italia da Gramsci al gossip di Massimiliano Panarari (collana Passaggi Einaudi). Che di questo si occupa:

Una volta il nazionalpopolare era una categoria gramsciana, i giornali e la televisione pubblica erano pieni di scrittori e intellettuali, la sinistra (si dice) dominava la produzione culturale. Oggi nazionalpopolari sono i reality show pieni di volgarità, la televisione (pubblica o privata) è quella che è, e la sinistra pure. Ma si può paragonare l’Italia di Pasolini, Calvino, Moravia con quella di Striscia la notizia, Alfonso Signorini, Amici di Maria De Filippi? La tesi provocatoria di questo libro è che il confronto non solo è possibile, ma è illuminante.

Perché oggi, finita e strafinita l’egemonia culturale della sinistra, trionfa un’egemonia sottoculturale prodotta dall’adattamento ai gusti nostrani del pensiero unico neoliberale, in quel frullato di cronaca nera e cronaca rosa, condito da vip assortiti, che sono diventati i nostri mezzi di comunicazione, ormai definitivamente dei «mezzi di distrazione di massa». E il paradosso è che molte delle tecniche di comunicazione che oggi innervano la società dello spettacolo sono nate dalla contestazione del Sessantotto, dai movimenti degli anni Settanta e dalle riflessioni sul post-moderno degli anni Ottanta.

E così, in un cortocircuito di tremenda forza mediatica, il situazionista Antonio Ricci produce televisione commerciale di enorme popolarità, Signorini dirige con mano sicura il suo postmodernissimo impero «nazionalgossiparo», i reality più vari sdoganano il Panopticon di Bentham e Foucault per le masse. Una riflessione originale sulla costruzione del nostro immaginario contemporaneo, che getta luce sul lato nascosto (e serissimo) della frivola cultura pop in cui siamo tutti immersi.

Per averne una sorta di saggio, si può dare un’occhiata a cosa ne scrive Andrea Romano sul Sole 24 Ore o Il Ricci furioso, scritto dallo stesso Panarari per Micromega Online.

“Sia fatta la mia volontà”, un documentario sulla libertà di scelta

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Questo video è il trailer di un documentario che si intitola Sia fatta la mia volontà, prodotto dall’associazione Schegge di Cotone su funerali civili e testamento biologico. Se ne parla diffusamente in un pezzo pubblicato da Micromega Online in cui si legge che:

Nel documentario […] il racconto approda al tema più generale del diritto alla libertà di scelta. “Essere liberi di scegliere sulla propria morte”, raccontano gli autori, “si traduce anche nel poter decidere su quali trattamenti sanitari rifiutare o accettare; poter esprimere chiaramente la propria volontà, oggi, per quando non si sarà più in grado di esprimerla direttamente; poter stabilire quando i trattamenti sanitari diventano così gravosi da non permettere più una condizione di vita dignitosa”.

Sempre in tema di giornalismo e video, qui ci sono i lavori entrati in finale al Premio Ilaria Alpi, in programma dal 15 al 19 giugno prossimi a Riccione. qui invece l’elenco degli eventi.