Seguendo il memoriale Moro: un blackout dei telefoni. Poiché siamo appassionati di elementi secondari

Standard

Black out - Foto di FabianQuesto estratto è contenuto nel documento XXIII, numero 64, volume primo, tomo VI della commissione stragi. In attesa che si tenga fede alla parola data e gli atti siano reperibili online a partire da ottobre (dopo una molto parziale pubblicazione un paio d’anni fa e repentino ritiro), le righe che seguono, parte del capitolo “Seguendo il memoriale Moro”, raccontano un episodio “curioso” che accadde a ridosso del rapimento del leader democristiano. E altrettanto “curioso” il livello di collaborazione che venne dato. Per chi volesse scaricarsi l’intero documento, il link è questo.

Un blackout dei telefoni

Poiché siamo appassionati di elementi secondari, vorremmo qui citarne uno. Il 15 marzo 1978, il giorno prima del rapimento dell’onorevole Moro, la struttura della Sip fu posta in stato di allarme. La spiegazione della utilità della Sip durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Moro è data dalle disposizioni di [Luciano] Infelisi [sostituto procuratore della Repubblica di Roma], di [Domenico] Spinella [dirigente capo della Digos] e dell’ingegner [Francesco] Aragona [dirigente della socità dei telefoni]. Il comportamento della Sip, durante il sequestro e la prigionia di Moro, secondo le dichiarazioni del magistrato e dell’allora capo della Digos furono di «totale non collaborazione», non un solo telefonista fu bloccato a seguito del blocco della conversazione che consente di risalire rapidamente al chiamante.

Spinella giunge ad affermare che fece due segnalazioni all’autorità giudiziaria e che la Sip doveva essere denunciata. Si badi che Spinella non fa riferimento a comportamenti di alcuni, ma si riferisce all’atteggiamento dell’azienda nei confronti degli inquirenti. La non collaborazione della Sip fu quindi funzionale agli interessi dei sequestratori di Moro. Spinella rappresenta anche la divaricazione tra l’estrema efficienza della Sip nell’operazione che condusse all’arresto di [Michele] Viscardi [militante di Prima Linea] e quanto fece durante il sequestro Moro, giungendo ad affermare che gli sviluppi della vicenda Moro sarebbero stati completamente diversi.
Continue reading

“Schegge contro la democrazia”: oggi il panorama consente di fare qualche passo di più verso i mandanti

Standard

Schegge contro la democraziaIl testo che segue è a prefazione del libro Schegge contro la democrazia scritto a quattro mani con Riccardo Lenzi, in uscita (sia in libreria che su web) il prossimo 28 luglio. La prefazione è firmata da Claudio Nunziata.

Da quel 2 agosto 1980 la realtà è profondamente cambiata. Nonostante il resto del mondo stia viaggiando nella modernità, in Italia ci si è fermati alla realizzazione del progetto politico di Licio Gelli che, pur nato già vecchio, ha trovato attuazione vent’anni dopo. Un progetto politico autoritario che tenta di azzerare il metodo del confronto democratico, stravolgere i principi affermati nella Costituzione e resuscitare le vecchie nostalgie di ex partigiani monarchici, cattolici tradizionalisti ed ex repubblichini riciclatisi nella giovane Repubblica.

Dopo la parentesi golpista sviluppatasi sotto il patronato della coppia Kissinger-Nixon (1969-1974), fu avviato un progetto di trasformazione autoritaria molto più sofisticato, che la debolezza dei normali strumenti di difesa della democrazia affidati a servizi di sicurezza, oramai inquinati dalle pratiche degli anni precedenti, e a una procura romana non sempre attenta, incoraggiò. I successivi e progressivi passaggi – il sequestro del figlio dell’ex-segretario del Psi, onorevole Francesco De Martino (5 aprile 1977), il sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro (16 marzo 1978), l’omicidio del segretario della Dc siciliana Michele Reina (9 marzo 1979) e poi quello del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), la strage di Bologna (2 agosto 1980) e l’eliminazione di buona parte della migliore classe dirigente del Paese che avrebbe potuto costituire un ostacolo o frapporsi alla attuazione del Piano – rappresentano le tappe dell’affermazione del nuovo soggetto politico formatosi dalla alleanza tra i ceti massonici, paramassonici e i mafiosi più spregiudicati.
Continue reading

Giovannone, il Lawrence d’Arabia nella Beirut palestinese

Standard

Domani di Maurizio ChiericiStefano Giovannone aveva 64 anni quando morì e mezzo secolo della sua vita l’aveva trascorso vestendo abiti militari. Ma alla metà del luglio 1985, quando si spense nella sua abitazione di Roma, la sua carriera – arrestatasi al grado di colonnello – era precipitata ben più in basso rispetto alla considerazione che si era guadagnato in tanti anni di attività sul campo e in particolare dal 1965 al 1981, quando aveva fatto parte dei servizi segreti militari.

Nelle settimane che precedettero la sua morte gli era stata concessa la libertà provvisoria. Per lui, infatti, era stato chiesto (e ottenuto) l’arresto – tramutato poi in domiciliari per ragioni di salute – nell’ambito di un’indagine veneziana e di un’altra romana. Ma non erano le uniche che lo chiamavano direttamente in causa. Andiamo con ordine.

Ai tempo d’oro, il colonnello era noto per un vezzeggiativo, il “Lawrence d’Arabia” italiano, e la sua conoscenza dello scacchiere mediorientale aveva fatto la differenza. Una differenza che ancora in tempi recenti è tornata a emergere. Si pensi per esempio che all’inizio dell’estate 2008, dal carcere parigino di Poissy, dell’ex ufficiale del Sismi parlò il terrorista filopalestinese Ilich Ramirez Sanchez, al secolo Carlos, il venezuelano a capo del gruppo Separat ribattezzato dalla stampa lo “sciacallo” perché, durante una perquisizione, tra i suoi effetti personali venne trovato il quasi omonimo romanzo di Frederick Forsyth.
Continue reading

Santovito: gli anni delle stragi all’ombra dei generali P2

Standard

Domani di Maurizio ChiericiIl suo è un nome legato alla storia recente italiana che continua a tornare. Uno degli ultimi ad aver citato Giuseppe Santovito, direttore del Sismi dal gennaio 1978 all’estate 1981, è stato non molto tempo fa il pentito della ‘ndrangheta Francesco Fonti, il quale, divenuto collaboratore di giustizia nel 1994, ha raccontato rotte e affondamenti delle navi dei veleni nei mari italiani e in quelli dell’Africa orientale. Ma ci sarebbe anche un altro episodio cardine che, secondo le dichiarazioni del pentito, lo avrebbe visto in azione in prima persona.

Occorre tornare ai cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, rapito in 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e ucciso il 9 maggio successivo. Forni, dando la sua versione dai fatti, dice che «tutti sapevano di via Gradoli», inclusi i componenti della banda della Magliana. Lo avrebbe appreso quando fu inviato nella capitale per dare una mano ai democristiani. E sostiene che i servizi segreti non potevano ignorare l’indirizzo della prigione del leader democristiano. In una ricostruzione non difforme da quella di alcuni banditi romani, l’uomo della ‘ndrangheta ricorda di aver riferito al suo boss quanto aveva appreso, ma a quel punto gli fu risposto di lasciare stare, che «a Roma i politici hanno cambiato idea». In questo racconto tutto da verificare, Forni parla anche del defunto generale Santovito, in quel periodo da pochi mesi al vertice dell’intelligence militare, facendo chiaramente intendere che sapeva, ma che non fece nulla nonostante l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga lo avesse incluso nel comitato di crisi nato a valle del sequestro.
Continue reading

Caso Moro, in uscita “Via Fani ore 9.02” di Manlio Castronuovo e Romano Bianco

Standard

Via Fani ore 9.02Per la casa editrice Nutrimenti uscirà a metà mese il libro Via Fani ore 9.02 – 34 testimoni oculari raccontano l’agguato ad Aldo Moro, scritto dal saggista Manlio Castronuovo (già autore sul caso del volume Vuoto a perdere) e dal giornalista Romano Bianco. L’ottica adottata dagli autori è quella di far parlare chi il giorno dell’imboscata era presente:

passanti occasionali, residenti della zona, inconsapevoli protagonisti che hanno potuto osservare il rapimento di Moro, l’uccisione della sua scorta, la fuga del commando brigatista. Testimonianze a ridottissimo rischio di manipolazione, rese nelle ore immediatamente successive ai fatti, prive delle distorsioni e delle ritrattazioni frutto del lungo percorso giudiziario. Parole passate al setaccio, che permettono la messa a fuoco di molti particolari, spesso inediti, raccolti in “presa diretta”. Le deposizioni ufficiali sono integrate da un ampio apparato di mappe della zona […] all’interno delle quali è stata ricostruita minuto per minuto la posizione di tutti coloro che hanno assistito all’agguato, alle sue fasi preparatorie o alla fuga, riportando rigorosamente cosa ognuno dei testimoni ha detto agli inquirenti di aver visto […]. La voce narrante e le voci dei testimoni si integrano in un’inchiesta tra saggio e noir […] che offre nuovi spunti di riflessione. In primo luogo sul motivo per il quale i brigatisti, contrariamente a come hanno raccontato di aver agito, abbiano abbandonato le auto in Via Licinio Calvo in tre differenti momenti: un codice di comunicazione interno del commando, che sancisse l’esito positivo di tre singole fasi dell’azione (primo trasbordo di Moro; tutti i brigatisti al sicuro; Moro nel covo). E ancora, nuovi elementi: come la certezza che l’Alfasud beige, accorsa sulla scena pochi istanti dopo l’operazione, fosse a tutti gli effetti un’auto in borghese appartenente alla Questura; e la figura di Bruno Barbaro, testimone rimasto nell’ombra per quindici anni, e recentemente scoperto legato al colonnello Pastore Stocchi, direttore del centro di addestramento dei “gladiatori” di capo Marrargiu.

E ancora a proposito di Moro, ma di un’altra via, via Gradoli, un assiduo frequentatore di questo blog segnala (grazie!) questo articolo di Paolo Brogi: Mokbel, il giallo di via Gradoli. La sorella parlò del covo delle Br. Chi sia Gennaro Mokbel si può vederlo qui.

Giuseppe Casarrubea: il caso Moro e i documenti desecretati del Foreign Office

Standard

Giuseppe Casarrubea pubblica sul suo blog il testo Moro e il Pci (’78):

Presentiamo ai lettori del nostro blog una selezione delle traduzioni dei documenti britannici sul caso Moro, da noi ritrovati, desecretati dal Foreign Office nel gennaio di quest’anno e attualmente consultabili negli Archivi Nazionali di Kew Gardens e in parte presso l’Archivio Casarrubea di Partinico (PA). Segnaliamo che sul tema si possono consultare su questo stesso blog due articoli postati nei giorni scorsi: “And now Moro” e “Sequestro Moro: le teste di cuoio inglesi”.

Ecco i link agli altri due post pubblicati da Casarrubea: And now Moro e Sequestro Moro: le teste di cuoio inglesi.

De Vuono, “l’Anello”, il caso Moro e il sequestro Saronio

Standard

Giustino De VuonoÈ un caso che questo post venga scritto oggi, nell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro (e di Peppino Impastato, assassinati entrambi nel 1978). Ma è un caso azzeccato che prende spunto da un aggiornamento su un personaggio di cui si parla in Pentiti di niente, trovato nel libro di Stefania Limiti, L’anello della repubblica (Chiarelettere, 2009). L’aggiornamento riguarda Giustino De Vuono, coinvolto come appartenente all'”ala” della criminalità comune nel sequestro e nell’omicidio di Carlo Saronio, avvenuti tra il 14 e il 15 aprile 1975 a Milano.

In questa vicenda si inizia a parlare di De Vuono, ex legionario che si dà alla malavita al rientro in Italia, come dello “scotennato”: coinvolto in traffici vari, si aggrega alla banda che rapirà l’ingegnere lombardo e sarà colui che terrà i collegamenti con la famiglia. Nel libro di Stefania Limiti lo si ritrova invece quando si parla del ruolo nella ‘ndrangheta nel sequestro Moro. Scrive l’autrice partendo da un articolo del Corriere della Sera del 1978 (pagina 188 e seguenti):

L'anello della repubblica

«Delinquente di prima grandezza […] evaso dal carcere poco prima dell’operazione Moro […], De Vuono viene riconosciuto da due testimoni [presenti in via Fani, N.d.B.] tra le venti foto pubblicate dall’Ucigos», ma i pur numerosi elementi che indicano la sua presenza non sono valsi a far scattare indagini più accurate. Di De Vuono parlò anche Ernesto Viglione, giornalista che abita in via Fani e che per questa vicenda sarà condannato a tre anni e sei mesi in primo grado e poi assolto in appello: Viglione disse «di essere entrato in contatto con il terrorista dissidente “Francesco”, che gli aveva proposto un’intervista con Moro nel “carcere del popolo”. Era maggio. Moro fu ucciso prima che Viglione potesse verificare le proposte di “Francesco”, un uomo dal forte accento lucano o calabrese, che Viglione riteneva fosse Giustino De Vuono.

Continue reading