Rosanna Zecchi: non far cadere nell’oblio ciò che avvenne tra il 1987 e il 1994

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Il testo che è segue è la versione integrale di quanto pronunciato da Rosanna Zecchi, presidentessa dell’Associazione dei familiari delle vittime della banda della Uno bianca, lo scorso 13 ottobre in Comune, a Bologna, giorno in cui vengono ricordati tutti coloro che vennero uccisi tra il 1987 e il 1994 dal gruppo dei Savi e dei loro complici. Da notare, come già accaduto lo scorso 2 agosto, l’assenza di un rappresentante del governo. Assenza che è stata fatta notare nel corso della cerimonia di commemorazione.

Buongiorno a tutti,

quest’anno abbiamo pensato di organizzare la commemorazione delle nostre vittime qui, nella Sala del Consiglio Comunale, modificando il solito programma delle celebrazioni, per riportare al centro della città l’attenzione sulle vicende che insanguinarono per 7 lunghi anni non solo Bologna, ma tutto il territorio della Provincia e molti comuni della Romagna e delle Marche, quindi abbiamo pensato e proposto al Commissario Straordinario Cancellieri, che ringraziamo per la disponibilità e la partecipazione, di riunirci qui, per rendere quel doveroso omaggio a delle vittime innocenti che negli ultimi anni sono state via via sempre più dimenticate dai cittadini, malgrado essi, con il loro sacrificio abbiano tentato, di riportare la legalità in questi territori.

Inoltre, ci era sembrato un luogo più istituzionale per ricevere il Ministro della Giustizia On. Alfano che aveva accolto il nostro invito, durante l’incontro del Gennaio scorso, concessoci dopo un’attesa di 9 mesi, ma il Ministro ci ha comunicato, una decina di giorni fa, di avere altri impegni. Nel corso di quell’incontro, la nostra richiesta è stata immediatamente quella di tenere alta la guardia soprattutto su alcuni componenti dalla Banda Uno Bianca che, per il loro presunto comportamento corretto, stavano ottenendo sempre più agevolazioni e permessi.
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Non è un paese per vecchie: cronache di un’altra guerra tra poveri

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Non è un paese per vecchieLoredana Lipperini, nel 2007, aveva firmato per Feltrinelli un libro che si intitolava “Ancora dalla parte delle bambine”, eredità ideale del quasi omonimo libro di Elena Gianini Belotti per spiegare il “ratto” dell’infanzia e dell’adolescenza, sostituito da una forzatura della crescita verso ruoli (compresi quelli erotici ispirati dai mass media) tipici dell’età adulta. Con il recente “Non è un paese per vecchie”, l’autrice compie un salto temporale e passa all’ultima parte della vita, per raccontare di una nazione in cui si è instaurato un nuovo tabù: quello della naturale decadenza fisica e psicologica che precede la morta, e del suo esorcismo collettivo officiato a tutti i costi. Compreso quello che prevede la ghettizzazione dei cittadini più avanti con l’età, collettore di nuove forme di odio derivanti da un assetto sociale sempre più povero ed esasperato.

Perché affrontare il discorso della vecchiaia e iniziare il libro lavorando sul cambiamento semantico registrato sui media?

Domani di Maurizio ChiericiPer tanti motivi. Un po’ perché c’era una sollecitazione sociale prima che semantica. È una cosa che ho raccontato molte volte: una lettrice che a Bari mi disse “occupati anche di noi”. È la cosiddetta “generazione sandwich”, quella che accudisce i nipoti e gli anziani e che in effetti sopperisce a un’assenza totale dello Stato. Questo molto prima che si rendesse noto che l’Italia è penultima, prima della Polonia, nell’Europa a 27 per l’assistenza alle famiglie. E poi c’era una considerazione che riguardava in realtà la mia generazione, quella dei cinquantenni e quella che io metto più sotto accusa nel libro: è qui che nessuno accetta la definizione di persona non dico vecchia, ma quanto meno matura. Volevo insomma spiegare questa impersonificazione di se stessi come eterni giovani. Una tendenza che sfalsa tutto perché, se non si accetta la propria età, si spalmano in un unico insieme tutte le generazioni, quelle che vengono prima e quelle che vengono dopo. Dunque vediamo le bambine crescono in fretta per diventare simili al modello adulto proposto e le donne mistificano l’ultima parte della vita adulta. Al centro di questa tendenza, si pone la vecchiaia, che diventa questa zona piccolissima prima della morte.
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“Un solo errore – Bologna, 2 agosto 1980”: un documentario sulla strage alla stazione

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Dalla pagina di Repubblica Bologna dove il trailer è stato pubblicato:

Ecco il trailer in anteprima del documentario “Un solo errore – Bologna, 2 agosto 1980”: regia di Matteo Pasi, produzione dell’Associazione Pereira e Arcoiris Tv, con la collaborazione dei Modena City Ramblers. Il film sarà presentato il 21 ottobre alla Festa della storia, evento organizzato dall’università di Bologna.

Per ulteriori informazioni, il sito dell’Associazione Pereira.

National Geographic: una docufiction su alcuni esperimenti della Cia sui civili

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Il National Geographic si occupa degli esperimenti della Cia sulla popolazione civile (in inglese) per raccontare questa storia:

Nel pieno della guerra fretta, la Cia lanciò un programma di ricerca classificato che esponeva i cittadini americani ad agenti biologici, droghe allucinogene e tecniche psicologiche che puntavano ad acquisite l’arte del contro della mente. Intere città degli Stati Uniti furono contaminate con germi esponendo milioni di persone alla guerra batteriologica. [Questa inchiesta] esamina quanto accadde, facendo luce su ricerche del genere per comprendere meglio la portata di questi esperimenti.

Si tratta di una sorta di docufiction della quale una descrizione più approfondita è disponibile qui. Oltre al video riportato sopra, qui sono state pubblicate anche alcune immagini.

Michele Landi, storia di un suicidio controverso

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La voce delle vociQuesto articolo è stato scritto a quattro mani con Roberto Laghi e pubblicato (in una versione leggermente ridotta) sul numero di ottobre di La Voce delle Voci.

È il 4 aprile 2002. Sono circa le undici di sera quando i vigili del fuoco e i carabinieri di Tivoli trovano il corpo senza vita di Michele Landi nella sua casa di Guidonia Montecelio, a una trentina di chilometri da Roma. È stata la fidanzata ad allertare le forze dell’ordine perché da troppe ore Michele non risponde al telefono. Una corda intorno al collo con un nodo scorsoio, le gambe piegate con le ginocchia appoggiate sul divano, l’appartamento in disordine, ma senza segni di violenza. Quella mattina Landi avrebbe dovuto tenere una lezione agli uomini della guardia di finanza alla Luiss Management, ma non si è mai presentato. Cellulare spento e telefono di casa che squilla a vuoto. L’ipotesi del suicidio è la prima a farsi strada.

Ma chi era Michele Landi e di cosa si occupava? Tecnico informatico, era stato consulente di Umberto Rapetto, tenente colonnello della Fiamme Gialle, e del pubblico ministero di Palermo Lorenzo Matassa. Nelle loro prime dichiarazioni, entrambi escludono l’ipotesi del suicidio. Di più: Matassa pensa a un omicidio maturato in ambienti ben precisi: «Penso ai servizi segreti, quelli che hanno cercato di dare un segnale a chi sta lavorando sull’omicidio del professore Marco Biagi», secondo quanto riporta il quotidiano La Stampa del 7 aprile.

Un parere «informale» su un’indagine di terrorismo
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Pentiti di niente: “Caro Osvaldo, tu resisti proponendoci i tuoi schemini militari”

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Carlo SaronioFeltrinelli, nel perseguire il progetto che lo porterà alla morte su quel traliccio, mira senza dubbio a un più ampio coinvolgimento dei diversi gruppi extraparlamentari dell’epoca e sembra confermarlo una lettera trovata il giorno dell’esplosione che lo uccide nel covo dei GAP di via Subiaco, a Milano, e datata 27 ottobre 1971: Osvaldo-Feltrinelli scrive a un misterioso Saetta (che solo successivamente risulterà essere Franco Piperno, uno dei fondatori e successivamente leader di POTOP insieme a Toni Negri, Oreste Scalzone, Lanfranco Pace e Valerio Morucci), il quale però non fa in tempo a far pervenire la sua risposta. Ecco quanto contenuto nel messaggio:

Caro Saetta,

fra i tanti argomenti lasciati in sospeso nella nostra recente riunione ve n’è uno, concreto, che a mio avviso val la pena di approfondire in maniera che si giunga alla prossima riunione con una maggiore chiarezza di impostazione e di soluzione. Abbiamo parlato di complementarietà delle nostre forze a Milano, della auspicabilità di un processo di avvicinamento, di integrazione e di coordinamento tanto sul piano operativo, quanto su quello logistico e politico. Intorno a questo problema abbiamo però girato piuttosto a vuoto senza uscire dal generico dal momento che una mia proposta di creare a livello di Milano (e aggiungo ora anche a livello Alta Italia – area metropolitana Nord) una serie di stati maggiori è caduta nel vuoto forse perché non vi ho insistito abbastanza (cosa che mi propongo di fare nella presente lettera), forse, o soprattutto, perché solleva una serie di obiezioni (alcune delle quali mi propongo di esaminare più oltre).

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Addio a Francesca Dendena dell’Associazione vittime della strage di Piazza Fontana

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Dal blog di Aldo Giannuli, un ricordo di Francesca Dendena, dell’Associazione vittime della strage di Piazza Fontana scritto da Francesco Barilli:

L’avevo incontrata nel marzo 2009, a casa sua. Era già ammalata, ma combattiva come sempre. “Devo partire da un aneddoto di quarant’anni fa, quando andammo a recuperare la macchina di mio padre. Già allora incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile – venne spontaneo dire: mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere. E io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile non dovesse capitare ad altri”.

Quel giorno dovevo intervistarla per il libro che stavo curando con Matteo Fenoglio sulla strage, che sarebbe uscito pochi mesi dopo (“Piazza Fontana”, ed. BeccoGiallo). Le avevo fatto leggere la prima bozza della sceneggiatura, e nel fumetto aveva notato una citazione dell’intervista che mi aveva concesso nel 2005, a pochi giorni dalla sentenza “tombale” della Cassazione (un verdetto che, pur riconoscendo le responsabilità della destra eversiva, aveva mandato assolti gli imputati). Proprio la vicinanza temporale a quella sentenza aveva portato Franca a parole amare: “Se penso a questo, al dolore dei parenti delle vittime, a tutte le battaglie fatte per avere giustizia, viene spontaneo dire: hanno vinto loro, quelli che hanno voluto le stragi…”. Nel marzo 2009, rileggendo quelle parole, aveva commentato: “dovevo essere proprio demoralizzata, in quel periodo!”.

Era la figlia di Pietro Dendena. Qui un’intervista che Barilli fece a Francesca Dendena.

I tre mostri che hanno ucciso Sarah

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Domani di Maurizio ChiericiL’annuncio di morte arriva in diretta televisiva. E conferma l’esistenza di tre mostri: un primo mostro – presunto, al momento – in famiglia, che sembra darsi da fare per ritrovare la nipote scomparsa mentre custodirebbe la chiave della sua sparizione; come in una riedizione del Videodrome di David Cronenberg, il secondo mostro rende permeabile la realtà televisiva e la realtà “reale”, facendo in modo che si fagocitino a vicenda. L’ultimo mostro, forse figlio (o genitore) del secondo, viviseziona la vita di un’adolescente facendone carne in scatola per rivelazioni televisive e doppie pagine sparate a raffica.

Camminano tra noi

La vicenda di cui parliamo è quella di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana, provincia di Taranto, scomparsa lo scorso 26 agosto. Nelle varie dirette che la trasmissione di Rai3 Chi l’ha visto ha dedicato a questa storia, un’affermazione corretta era stata portata nelle case dei suoi telespettatori. A pronunciarla era stata una madre, Filomena Iemma: per diciassette anni ha cercato la figlia, Elisa Claps, venendo infine a sapere che il corpo della giovane era rimasto per tutto il tempo nel sottotetto della chiesa cittadina, a Potenza. Aveva detto la donna: «Le ragazzine non spariscono nel nulla».

Ed è vero. Scappano di casa, le adolescenti, ma difficilmente sfuggono per troppo tempo alle ricerche delle forze dell’ordine. Se poi ci si mette la tivvù a cercarle, prima o poi saltano fuori. E possono anche essere portate via, in senso letterale o figurato, ma non cercate il mostro sconosciuto perché la maggior parte delle volte sbaglierete. Il “cacciatore” senza nome, appostato di fronte alle scuole, in un bar, in auto, esiste talvolta, ma statisticamente non è lui il responsabile, ci dicono le analisi sulla violenza sessuale che può condurre anche all’omicidio. Il responsabile va cercato nella sfera affettiva della vittima: nell’ordine, nella prima cerchia parentale (i conviventi), nella seconda (i parenti più prossimi non conviventi) e in quella amicale e nelle frequentazioni quotidiane o quasi.
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La cronaca criminale di Pino Nicotri e la banda “a geometria variabile”

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Cronaca criminaleUn video per presentare il libro Cronaca criminale – La storia definitiva della banda della Magliana, scritto da Pino Nicotri:

Magistrati che se ne sono occupati affermano che la Banda della Magliana «è un’invenzione giornalistica» e che «non è mai esistita una organizzazione unitaria della malavita romana» oppure, al contrario, che «era molto di più di una banda, molto più pericolosa, ed è stata colpevolmente sottovalutata». Sta di fatto che la «bandaccia», come veniva anche chiamata, è protagonista di romanzi, film e sceneggiati televisivi di grande successo e suggestione, fino a diventare sinonimo di «cupola» onnicomprensiva della malavita capitolina dalla seconda metà degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta e a far sospettare che esista ancora. Associata alla mafia e al terrorismo nero, ritenuta ricca di agganci e compiacenze nelle zone torbide dei servizi segreti, della finanza, della massoneria e della gerarchia vaticana, tanto da esserne la longa manus negli affari più sporchi, le propaggini della Banda della Magliana sono state «viste» in quasi tutti i casi che hanno scandito la burrascosa storia italiana di quegli anni sanguinosi: l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, l’attentato al banchiere Roberto Rosone, l’uccisione di Roberto Calvi, i depistaggi del rapimento di Aldo Moro, la strage di Bologna, le scorribande della banca vaticana Ior e le losche manovre della Loggia P2 di Licio Gelli. I confini tra mito e realtà si sono sempre più assottigliati fino a diventare evanescenti e provocare, dopo venticinque anni, il surreale coinvolgimento della «bandaccia» nelle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, con una serie di presunti scoop tanto clamorosi quanto finiti tutti come sempre in nulla. Ma come stanno in realtà le cose? Esisteva la onnitentacolare Banda della Magliana? O fu una stagione infelice che vide l’Urbe ridotta a prostituta di bande borgatare e cricche affaristiche e corruttrici allattate dal potere? Capire l’arcipelago Magliana vuol dire addentrarsi in una tragedia collettiva fatta di avidità e ferocia, deliri di onnipotenza criminale e sottili disegni politici, un magma in cui tutto si fonde insieme e che, una volta raffreddato, ha lasciato sogni di pietra e morti senza gloria.