Silvio Forever, “autobiografia non autorizzata” di Silvio Berlusconi, un film di Roberto Faenza e Filippo Marcelloni.
(Via Ciro Pellegrino)
Silvio Forever, “autobiografia non autorizzata” di Silvio Berlusconi, un film di Roberto Faenza e Filippo Marcelloni.
(Via Ciro Pellegrino)
Scrive Vittorio Pasteris:
Il 23 febbraio del 1981 in Spagna ci fu un tentato golpe militare. Un operatore della TVE riuscì a filmare per quasi mezz’ora l’occupazione del Congresso spagnolo: un citizen journalism ante litteram.
E qui c’è il video.
Qualche tempo fa il blog Piovono pietre ha intervistato William Gambetta a proposito del libro Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (Edizioni Punto Rosso, 2011). Nell’intervista l’autore spiega:
Non si tratta di una ricerca sull’intera storia di Democrazia proletaria che, pur affondando le sue radici negli anni Settanta, nei tumultuosi conflitti sociali e politici del decennio successivo al Sessantotto, si sviluppa compiutamente negli anni Ottanta, nella fase del riflusso dei movimenti, del ritorno al privato e del disimpegno politico, delle ristrutturazioni produttive e della restaurazione del dominio padronale in fabbrica e nelle relazioni sociali. Ciò che a me interessava era analizzare un’intensa stagione di lotte – il “lungo Sessantotto” appunto – e l’emergere, in quell’antagonismo sociale, di nuove organizzazioni politiche che tentano di intercettare e rappresentare le istanze di cambiamento rivoluzionario di ampi settori della società, soprattutto giovanili, ma non solo. Un tentativo, questo, complesso e soprattutto frammentato, perché frammentato è il decennio successivo al 1968.
Si pensi, per esempio, alla differenza tra le elezioni del 1972 e quelle del 1979. Le prime collocate nella fase “alta” del protagonismo dei movimenti, da quello operaio a quello studentesco, dove i gruppi dell’estrema sinistra sono ancora in formazione, in una fase fluida e magmatica, impegnati a respingere la “strategia della tensione”, fatta di bombe anonime, aggressioni neofasciste e cariche della polizia. Le seconde, invece, quelle del 1979, si tengono al termine di quel ciclo, dopo l’esperienza dei tre governi Andreotti, nei quali era coinvolto anche il PCI berligueriano, nel pieno dell’escalation delle azioni armate delle Brigate rosse e della repressione dello Stato, in un momento in cui i partiti della nuova sinistra hanno già subito una profonda crisi e tentano faticosamente di difendere un proprio spazio d’iniziativa politica.
O si pensi, per fare un ultimo esempio, alle elezioni del 1976, quando il cartello unitario di Dp (che raccoglie tutte le principali organizzazioni della sinistra rivoluzionaria) ha grandi aspettative tanto sul piano direttamente elettorale quanto su quello politico-istituzionale, con la proposta di un “governo delle sinistre”, alternativo al “centro sinistra” ed espressione di vasti settori del mondo del lavoro e dei movimenti di protesta. Aspettative immediatamente deluse da uno scarso 1,5% ma soprattutto dalla misera concretizzazione del “compromesso storico” berlingueriano nei governi dell’astensione dei tre anni successivi.
Continua qui.
Per sapere chi sia Stéphan Hessel si dia un’occhiata alla voce che parla di lui su Wikipedia.fr. Lo scorso ottobre è uscito il suo libro Indignez vous! (pubblicato dalle Indigène Editions di Montpellier) che così si presenta:
«Novantatré anni. La fine non è lontana. Che fortuna poter approfittarne per ricordare ciò che innescò il mio impegno politico: il programma elaborato settant’anni fa dal Consiglio Nazionale della Resistenza». Che fortuna potervi nutrire dell’esperienza di questo grande resistente, consolidatosi dopo le esperienze nei campi di Buchenwald e di Dora, co-redattore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel 1948, diventato ambasciatore di Francia e della medaglia della Legion d’onore. Per Stéphan Hessel, il «motivo di base della Resistenza era l’indignazione». Certo, le ragioni di indignarsi nel mondo complesso di oggi possono sembrare meno nette rispetto a quelle dei tempi del nazismo. Ma «cercare e troverete»: la disuguaglianza crescente tra ricchissimi e poverissimi, lo stato del pianeta, il trattamento riservato agli irregolari, agli immigrati, ai rom, la corsa per avere sempre di più, alla competizione, la dittatura dei mercati finanziari fino alla svendita delle conquiste della Resistenza, le pensioni, la sicurezza sociale… Per essere efficace occorre, oggi come ieri, agire mettendosi in rete: Attac, Amnesty, la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo… ne sono la dimostrazione. Dunque si può credere a Stéphan Hessel e incrociare il suo cammino quando chiama a una «insurrezione pacifica» (Sylvie Crossman).
E di come questo breve libro (trentadue le pagine) si sia trasformato in un fenomeno (650 mila le copie vendute) lo si può leggere sul Fatto Quotidiano nell’articolo da Parigi di Alessandro Verani intitolato Indignatevi! E il libretto di un 93enne partigiano francese diventa un caso editoriale:
Hessel un rivoluzionario? Non proprio. E non lo è mai stato. Oggi vicino a Martine Aubry, segretario generale del Partito socialista, Hessel, un anziano monsieur pacato e sorridente, è sempre stato un intellettuale dall’animo libero, di sinistra certo, ma senza «eccessi» […]. Sì, è diventato l’idolo di tanti giovani. E si prende una sorta di rivincita personale. «Ha provocato il risveglio di un popolo, finora molto passivo», ha sottolineato il filosofo Edgar Morin, suo amico. «Ha ricordato alla sinistra che deve essere ribelle, umana e ottimista», ha sottolineato Harlem Désir, numero due del Partito socialista. Che, nel frattempo, si sta dividendo sulla candidatura delle prossime presidenziali, previste nel 2012. E appare così terribilmente lontano dalla sua base. La sinistra francese sarà capace di sfruttare l’effetto Hessel?
Claudio Vercelli è uno specialista in materia e già tempo addietro da queste parti era stato segnalato il suo Breve storia dello Stato d’Israele – 1948-2008. In questi giorni sta uscendo il suo nuovo libro, Storia del conflitto israelo-palestinese (Laterza) la cui presentazione anticipa questo:
Claudio Vercelli affronta, attraverso un’analisi dell’evoluzione del conflitto, dalla seconda metà del XIX secolo a oggi, gli elementi prioritari così come i nodi problematici che sono ancora sul tavolo della discussione: la terra, le identità nazionali, le risorse materiali e simboliche, le popolazioni, il ruolo delle religioni. L’obiettivo è quello di rendere comprensibili le dinamiche che stanno alla base della contrapposizione tra due comunità nazionali, la cui mancata soluzione ha creato le condizioni per l’ossessiva reiterazione del confronto. Ma oltre a una narrazione del conflitto, il lettore troverà indicazioni sulla formazione e la composizione degli attori in campo, a partire dagli stessi israeliani e palestinesi, e una analisi multidisciplinare dei motivi per cui questo conflitto ha assunto un significato paradigmatico che va al di là della sua concreta dimensione, divenendo il simbolo delle speranze e delle delusioni di una modernità difficile, sospesa tra libertà e ingiustizia, emancipazione e subalternità.
Qui l’indice del libro.
Inoltre, girovagando sul sito di Laterza, si trova anche un altro libro che merita di essere citato. Si tratta di Oltre la guerra fredda – L’Italia del «Ponte» (1948-1953) curato da Mimmo Franzinelli:
Nei sei anni compresi tra il trionfo di De Gasperi dell’aprile 1948 e la sconfitta della ‘legge truffa’ del giugno 1953, Piero Calamandrei, fra gli artefici della Costituzione, intensifica il suo impegno nel mensile da lui fondato e diretto, “Il Ponte”, diventato riferimento culturale laico alternativo sia alla Democrazia Cristiana sia al blocco social-comunista. Queste pagine offrono un’antologia della rivista nel suo periodo più vivace, con articoli su temi che spaziano dal federalismo europeo e le identità regionali alla riforma dello Stato; dall’ammodernamento della giustizia alla questione femminile; dalla funzione dell’intellettuale e l’opposizione all’influenza vaticana nelle istituzioni alle campagne contro la pena di morte, al riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Il volume – articolato nelle sezioni Politica, Società e Cultura – testimonia un panorama significativo dell'”altra Italia”, delle potenzialità progettuali e della tensione morale di una generazione di intellettuali progressisti impegnata nel rafforzamento della democrazia. Attraverso gli scritti delle voci più significative che firmano la rivista – Aldo Capitini, Riccardo Bauer, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, Luigi Einaudi, Vittorio Foa, Franco Fortini, Arturo Carlo Jemolo, Augusto Monti, Adriano Olivetti, Gaetano Salvemini, Ignazio Silone, Leo Valiani, Ruggero Zangrandi – rivive un pezzo importante della storia d’Italia.
In questo secondo caso, l’indice completo è qui.
Questo video è il trailer di un documentario che si intitola Sia fatta la mia volontà, prodotto dall’associazione Schegge di Cotone su funerali civili e testamento biologico. Se ne parla diffusamente in un pezzo pubblicato da Micromega Online in cui si legge che:
Nel documentario […] il racconto approda al tema più generale del diritto alla libertà di scelta. “Essere liberi di scegliere sulla propria morte”, raccontano gli autori, “si traduce anche nel poter decidere su quali trattamenti sanitari rifiutare o accettare; poter esprimere chiaramente la propria volontà, oggi, per quando non si sarà più in grado di esprimerla direttamente; poter stabilire quando i trattamenti sanitari diventano così gravosi da non permettere più una condizione di vita dignitosa”.
Sempre in tema di giornalismo e video, qui ci sono i lavori entrati in finale al Premio Ilaria Alpi, in programma dal 15 al 19 giugno prossimi a Riccione. qui invece l’elenco degli eventi.
Alberto Spampinato, direttore del progetto Ossigeno per l’informazione, ha scritto per Nuovi Italiani un pezzo intitolat Minacce ai giornalisti, Italia maglia nera d’Europa in cui si legge tra l’altro che:
In Italia queste importanti prese di posizione non hanno avuto nessuna risonanza. Eppure proprio negli stessi giorni, nel nostro paese si è manifestata una impressionante recrudescenza del fenomeno: nuove gravi minacce, ritenute attendibili dagli inquirenti, sono state rivolte a Lirio Abbate; un plateale atto di intimidazione è stato compiuto in pieno giorno nei confronti di Rosaria Capacchione; in Calabria cinque giornalisti (Francesco Mobilio, Michele Albanese, Francesco Cutrupi, Antonino Monteleone, Giuseppe Baldessarro) sono stati bersagliati, uno dopo l’altro, in provincia di Reggio Calabria nell’arco di sessanta giorni; alcune troupe televisive sono state minacciate a Rosarno dopo i gravi scontri durante i quali sono stati feriti 37 immigrati. Altri gravi episodi si erano verificati nei mesi e nelle settimane precedenti in varie parti d’Italia, senza che se ne avesse una adeguata rappresentazione sui media: in provincia di Foggia, contro un giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno di San Severo, e a Orta Nuova contro Gianni Lannes, che a dicembre ha ottenuto una protezione di polizia; a Treviso, dove Fabio Fioravanti ha ricevuto minacce telefoniche durante una trasmissione televisiva in diretta; a Udine, dove un giornalista ha ricevuto una busta con un proiettile; a Roma, dove due giornalisti televisivi, Nello Rega e Guido Ruotolo, hanno ricevuto gravi intimidazioni; e ancora altri casi a Napoli, a Palermo, a Genova, a Firenze, a Torino…
Intanto oggi è cominciato a Bologna il Festival delle culture antifasciste dove si stanno iniziando a caricare i primi materiali del primo giorno.
La società americana (ma non solo, direi), le paure contemporanee scandite dall’alternarsi delle emergenze (più o meno pretestuose) presentate all’opinione pubblica, il consumismo come verbo, gli scontri politici freddi e caldi. Di tutto ciò parlano due lunghi articoli scritti dall’opinionista e critico culturale Mark Dery per la rivista elettronica True Slant. Ed entrambi prendono a simbolo e rappresentazione di questi concetti una figura utilizzata dal cinema e dalla letteratura: quella dello zombi. I pezzi si intitolano Dead Man Walking: What Do Zombies Mean? e Dead Man Walking: What Do Zombies Mean?, Part 2 e fanno un’ampia retrospettiva sia dei contesti socio-economici e politici in cui questa figura fantastica si cala che delle opere di fantasia diventate simbolo e metafora per l’interpretazione del reale. Vi si legge infatti:
Lo zombi è un ritornante polivante, una rappresentazione pregna di significati che ha dato forma, in modo alternato, ai ricordi repressi degli orrori della schiavità raccontando sia l’alienazione bianca che l’Altro più oscuro. Ma anche gli incubi della Guerra Fredda generati dai funghi atomici e dagli stermini di massa, le ricadute post-traumatiche dell’Aids e le estese ansie derivanti da minacce virali e bioingegneristiche (come accade in 28 Days Later e Left 4 Dead, sogni disturbati da un’epoca di influenza aviaria e H1N1, quando gli agenti patogeni superano le barriere delle specie e si diffondono, attraverso i viaggi aerei, diventando, da una notte all’altra, pandemie globali […]).
Nei decenni postbellici, mentre estese aree suburbane e culture commerciali di metastatizzavano nella nazione, Hollywood lancia lo zombi presentandolo come il volto decadente dell’ambivalenza popolare scivolata verso uno scatenato consumismo. Implacabili macchine consumistiche, i morti di George Romero, quelli che strisciano nel centro commerciale di Dawn of the Dead (1978), rappresentano letteralmente la psicologia infantile della cultura del consumo, con la sua fissazione orale, la sua insistenza per la gratificazione istantanea e il suo autogratificante “compro-quindi-sono”. E danno anche una misura di quanto costosi siano i totem dello status […]. L’oralità insaziabile ha portato a una ridefinizione commercial-capitalistica del cittadino che diventa consumatore, una specie con il “portafogli in bocca” […].
Adesso che l’apocalisse economica ha lasciato milioni di persone senza lavoro […], lo zombi […] incarna le paure americane che sbandierano glorie ormai passate […]. Gli zombi sono il male contenuto in un’economia moribonda che ci mette a confronto ovunque guardiamo con un paesaggio costellato da centri commerciali, “scatole fantasma” e “negozi zombi”, ridotti a liquidazioni per ridurre i magazzini all’osso, con l’ironica conseguenza che i loro emaciati stock e i loro clienti assenti accelereranno questa spirale mortale.
Questo e altro viene raccontato nei due articoli di Mark Dery facendo notare che il virus che dilaga in 28 Days Later si chiama “Rabbia. Il sonno della ragione del resto genera mostri”.
Seconda edizione del Festival sociale delle culture antifasciste a Bologna. Si svolgerà dal 28 maggio al 6 giugno 2010 e quest’anno sarà all’interno del parco di viale Togliatti. Il programma definitivo sarà pubblicato entro i primi giorni del mese prossimo mentre sulla home page del sito sono riportati gli indirizzi mail a cui scrivere per partecipare agli ambiti tematici già definiti. E per intanto, ecco perché organizzare (e partecipare) a una manifestazione di questo tenore:
Il fascismo è prima di tutto una “cultura”, un modo di essere, di comportarsi, è la volontà di dominio sulle persone, la natura, il territorio, è l’arroganza, la negazione di ogni diritto, la repressione del dissenso, la negazione e il disprezzo per le diversità. Il fascismo di ieri ha lasciato viva la sua “cultura”, si è trasformato e trasfigurato mutando le sue organizzazioni e le sue rappresentanze e continua ancora a fare il suo sporco lavoro. Questo è il fascismo di oggi, questa è la cultura da combattere. Con queste premesse, intendiamo rilanciare il progetto del festival sociale delle culture antifasciste, come progetto dal basso, aperto e partecipato, con l’obiettivo di fare rete, tessere relazioni e darsi gli strumenti per costruire progettualità comuni.
Per dare un’occhiata a cos’è accaduto nel 2009, qui ci sono i materiali d’archivio.