Processo 7 aprile: il bilancio di Toni Negri trent’anni dopo

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Ancora sull’argomento di cui si parlava ieri. Circa 300 anni di carcerazione preventiva nel complesso, la demolizione di un pugno di intellettuali che puntavano su un “modello di ‘insegnamento partecipato'”, lo smantellamento dell’asse studenti-professori-operai nel portare avanti istanze di lotta sociale. Di questo e di molto altro ha scritto lo scorso 25 febbraio Toni Negri a proposito del processo 7 aprile. Il tutto riportato integralmente sul blog BlankReg.Net all’interno di Via 8 febbraio? No: “via 7 aprile”.

Processo 7 aprile: un libro a trent’anni di distanza

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Processo 7 aprileA distanza di trent’anni dall’inizio dei fatti, dal 3 al 7 aprile prossimi ci sarà a Padova una serie incontri per raccontare quello che fu il processo 7 aprile, giustamente definito da Emilio Vesce il “prototipo dell’emergenza” giudiziaria. Per il dettaglio degli eventi, si veda quanto pubblicato da Radio Sherwood, ma qui invece ci si vuole soffermare sul libro collettivo attorno a cui ruota la tre giorni veneta, pubblicato dal Manifesto Libri e in uscita proprio nel giorno del trentesimo anniversario: si tratta di Padova trent’anni dopo: processo 7 aprile, voci della città degna nella cui prefazione si legge:

La piccola sperimentazione che abbiamo condotto per produrre questo testo […] ci dice che il tempo è relativo rispetto a principi basilari, fondati su un’idea di mondo che, allora come ora, non coincide per niente con quella che ci viene imposta. Non troverete capitoli titolati in questo testo, ma tanti nomi di persone. I loro nomi, il loro racconto orale trascritto o lo scambio epistolare, sono la forma che abbiamo scelto. Sono i nomi di uomini e donne che, in forme diverse, sono stati attraversati, segnati profondamente, nel corpo e nella mente, da quegli avvenimenti. Sfidando il tempo e la storia ve li consegnamo trasformandoli da imputati, accusati, arrestati, toccati a vario titolo, in testimoni d’accusa contro la rimozione e la falsificazione delle tante storie che ci appartengono. Le loro voci compongono il tessuto di una “città degna” che esiste, oggi come ieri.

“Il Mattino di Padova” a libro ed eventi ha dedicato un articolo ripreso da Global Project. Inoltre all’interno del volume ci sono le testimonianze di e su alcuni dei (loro malgrado) protagonisti di questa lunghissima vicenda giudiziaria, per la quale si mobilitò nei primi anni ottanta anche Amnesty International e non una sola volta. Altra fonte su questa storia è il lavoro di Luca Barbieri che viene pubblicato a puntate a Carmilla, “I giornali a processo: il caso 7 aprile”, e riunito all’interno della sezione Controinformazione. Ciò che accadde prima, a partire dal 1975, dopo il sequestro di Carlo Saronio – involontaria scintilla che contribuirà a innescare anni più tardi il processo 7 aprile attraverso false accuse contro gli ex militanti di Potere Operaio – viene invece narrato in Pentiti di niente (qui per il download del libro).

Mobilitazioni per cause discutibili e per altre invece doverose

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L'alternativa del copyleftNon dovrebbe nemmeno essere in discussione l’idea che uno scrittore scrive perché le sue storie siano lette il più ampiamente possibile. Creative Commons è una sistema ottimale perché questo avvenga nel rispetto delle libertà di tutti. Per questo c’è da augurarsi che nessuno scrittore italiano aderisca a questo appello per una class action contro la digitalizzazione e la messa online dei libri. Non per nulla, questo invito sarebbe stato inviato a tutti gli associati Siae.

Se poi proprio le class action – o qualcosa di logicamente affine – si vogliono fare, ci sono cause che meritano di più. Come per esempio quella a favore del cronista Pino Maniaci (cliccando si arriva sulla petizione a suo sostegno), minacciato dalla mafia per il suo lavoro a Telejato e paradossalmente rinviato a giudizio perché accusato di esercizio abusivo della professione non essendo iscritto all’ordine dei giornalisti. Se ne legga per qualche informazione ulteriore qui e qui.

“Governare con la paura”: dal G8 di Genova ai decreti sicurezza

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Dopo o, meglio, insieme al documentario G8/2001 – Fare un golpe e farla franca di cui s’era parlato un po’ di tempo fa, uscirà tra una ventina di giorni per Melampo Editore il cofanetto Governare con la paura. Prove tecniche di colpo di Stato:

Un libro e due dvd, raccolti in un cofanetto, raccontano la storia degli abusi del potere in Italia dal G8 di Genova ai giorni nostri. Il titolo, “Governare con la paura”, si riferisce alla strategia sperimentata nel luglio del 2001 per le strade del capoluogo ligure invase dai manifestanti no global. Finì in tragedia. Oggi gli stessi modi di operare vengono riproposti dai vari decreti sicurezza approvati dal governo Berlusconi. Mano dura contro i più deboli, gli extracomunitari, contro chi protesta e non si adatta alle regole imposte dall’alto. Sicurezza è la parola d’ordine in base alla quale l’opinione pubblica deve accettare nuove regole che limitano la libertà e i diritti dei singoli. “Attenzione – avverte però il senatore Furio Colombo in un passo del film – sicurezza è il termine che ha spianato la via ai dittatori da Mussolini a Hitler, ed oggi a Putin”.

Decreto sicurezza e la legge di Erode

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Alessandro Gilioli sottolinea giustamente che se passa la legge di erode all’interno del ddl sicurezza, accadrà questo:

Dopo le ronde e l’ambiguo obbligo-invito ai medici perché denuncino i malati clandestini, nei giorni scorsi è saltato fuori il comma Erode, le cui conseguenze sono spiegate in questo articolo di Sabrina Marinelli. Si tratta dell’articolo 45, comma uno, lettera F: introduzione dell’obbligo per gli stranieri di presentare il permesso di soggiorno per accedere a provvedimenti di stato civile. Cito da Sabrina:

Cosa comporterà nella pratica? Semplicemente che gli stranieri irregolari non potranno più registrare all’anagrafe la nascita di un figlio, con tutto ciò che ne consegue. Ogni bimbo sarà privo di identità, apolide e senza nome, cioè non esisterà. Sarà per sempre esposto ad ogni genere di difficoltà ogni volta che si troverà ad avere a che fare con la burocrazia, non potrà accedere all’istruzione né all’assistenza sanitaria e, ovviamente, essendo invisibile, non esistendo, sarà più facilmente esposto ad ogni genere di abusi e pericoli. Ma gli orrori non finiscono qui. I bambini, non potendo essere riconosciuti da mamma e papà, potrebbero risultare in stato di abbandono, anche non essendolo realmente, con il serio rischio che l’ospedale non possa consegnarli ai genitori. Alla madre non resterebbe che scegliere tra due rischi: partorire in ospedale, ma vedersi togliere il bimbo, o ricorrere al parto clandestino.

L’assurdo giuridico: la tradizione dello yoga difesa a colpi di brevetti

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Old School YogaNegli Stati Uniti da tempo ci si stava provando, ma gli indiani devono aver pensato che, se qualcuno deve detenere brevetti (sì, proprio quel titolo che conferisce un monopolio temporaneo sulle invenzioni) sulle posizioni dello yoga, quelli devono essere loro. Così, riferisce il britannico Telegraph:

l’India ha creato un team di diversi guru hindu e di 200 scienziati per individuare tutte le antiche posizioni yoga o asanas. Lo scopo è quello di registrarle per fermare i “pirati dei brevetti” che rubano la “conoscenza tradizionale”.

Il giro d’affari, del resto, non è indifferente. Ancora dalle colonne del giornale inglese si legge che a partire dagli anni sessanta, con l’introduzione dello yoga in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a opera di George Harrison dei Beatles, si è creato un circuito che a oggi vale 225 milioni di dollari. Dunque, con il tempo, nei soli USA, sono stati concessi 130 brevetti e sono stati registrati 2300 marchi in tema mentre in oriente le stesse pratiche vengono ancora esercitate come disciplina pubblica che i maestri insegnano nei parchi e in luoghi aperti. E l’obiettivo che si è data la Traditional Knowledge Digital Library indiana è quella di arrivare entro il 2009 ad almeno 1500 brevetti.

Lo sfruttamento delle conoscenze e delle culture tradizionali a scapito di chi questo patrimonio lo possiede non è argomento nuovo. Ne ha approfonditamente parlato Philippe Aigrain per esempio nel suo Causa Comune (qui il link per scaricare il pdf del libro, che è rilasciato con licenza Creative Commons), rilevando come, nel mondo del biologico e dell’agroalimentare, sia guerra aperta in fatto di brevetti e modalità di coltivazione popolare. Nel libro di Philippe si legge per esempio a proposito delle guerre del riso:
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Un bavaglio grande come un manifesto

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Current TV censurata

Se n’è già parlato in giro, ma forse non è male ripetere. Le immagini sopra riportate non si vedranno in giro. Non più. Ecco perché nell’articolo di Isabella Panizza Cutler (e benvenuta così all’edizione italiana di Wired). Per capire chi è Current TV si guardi qui mentre per leggere che altro in tema si dice in rete si dia invece un’occhiata qui. Qualcosa di non molto dissimile era accaduto anche un po’ di tempo fa (allora a Genova, stavolta a Roma), ma per fortuna pare che non tutta la nazione sia paese.

Kaizen: tra bancarotta, social card e interessi da rendere

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KaizenologyHo ricevuto questa mail dall’ensemble narrativo Kaizen e la pubblico perché contiene una storia interessante.

Breve comunicazione di servizio… parentesi aperta e chiusa.
Oggi mi telefona mia madre. “Sono preoccupata…”
“Che succede?”
“Mi mancano soldi sul conto postale. Dovevo avere X e invece ho X -350. Oggi è giorno di pensione. È davvero strano.”
“Uhm…”
“La cosa si complica perché devo pagare l’affitto…”
Un giro di telefonate tra ex colleghe. Poi richiama: “Strano davvero. Anche a… e a… mancano 350 euro”
Sento G all’altro capo d’Italia per questioni Kai Zen e poi racconto an passant la storia di mia madre e colleghe, tutte pensionate in Provincia di Bolzano. G da Messina mi dice: “Cazzo, anche delle colleghe di mia madre hanno preso 3-400 euro in meno di pensione…”

Io, da tempo faccio repubblica per conto mio. Ho avvisato per cortesia anche il presidente della repubblica italiana di questa mia secessione personale, una gentilezza tra capi di stato… In fin dei conti l’Italia non perde nulla: guadagno miserie come precario e le tasse che pago sono più alte di quello che guadagno ma comunque sono cifre che non spostano nulla.

In un paese in cui la scuola, la ricerca, la formazione e l’istruzione sono in bancarotta e in cui a nessuna di esse si può destinare l’8 per mille, in un paese in cui il Vaticano, uno stato estero, come me, incassa tra contributi e bonus fiscali 4 miliardi di euro l’anno (si pensa al futuro, ma a quello dopo la morte) e in un paese in cui si tutela la vita di chi è in coma vegetativo da vent’anni (la politica scriveva Camus, è un affare da massaie, serve a tenere in ordine la cucina, ad amministrare, quando parla di etica cessa di essere politica…) ma non di chi lavora e in cui si produce la maggior quantità di mine antiuomo al mondo, ora si tagliano le pensioni. Forse, chi come mia madre, dopo 45 anni di lavoro, ha preso i 40 euro di bonus governativo non sapeva che si trattava solo di un prestito a breve durata e che avrebbe dovuto pagarlo con gli interessi.

O forse no. È tutta colpa dei rumeni.

I perché della democrazia in 10 documentari e 18 corti

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Dieci documentari da un’ora e diciotto cortometraggi per dimostrare che il termine “democrazia” è “la più grande buzzword politica del nostro tempo”. Si definisce con queste parole il progetto Why Democracy?, iniziativa della non-profit Step International di cui fanno parte filmmaker indipendenti e partner che hanno diffuso i film distribuiti un po’ in tutto il mondo (sulla pagina di presentazione vengono citati Cina, India, Giappone, Liberia, Stati Uniti, Bolivia, Danimarca, Afghanistan, Egitto, Pakistan e Russia).

Libertà d’espressione e religione (Bloody Cartoons), elezioni e tecniche di reclutamento in Giappone (Campaign! The Kawasaki Candidate), venti di golpe in Pakistan (Dinner with the President), femministe su uno scenario politico reazionario (Egypt: We Are Watching You), lo stato della Russia post-sovietica (For God, Tsar and the Fatherland), l’eredità gandhiana nell’India contemporanea (In Search of Gandhi), la storia di Ellen Johnson Sirleaf, prima donna eletta liberamente nel suo Paese a una carica pubblica (Iron Ladies of Liberia), la Bolivia a quarant’anni dalla morte di Che Guevara (Looking for the Revolution), il ritratto di una scuola elementare cinese alle prese con le elezioni di classe (Please Vote for Me) e il rapporto tra Stati Uniti e tortura (Taxi to the Dark Side: quest’ultimo si basa sul recente libro di Alfred W. McCoy, che insegna storia alla Winsconsin-Madison University ed è uno studioso di intelligence). Questi gli argomenti dei dieci lungometraggi, nati in base a questi presupposti:

Il progetto Why Democracy? è stato creato due anni fa ed è la prima trasmissione è dell’8 ottobre 2007. Ha prodotto alcune storie eccezionali, impegnative e non convenzionali. I film sono documentari sui generis in due sensi: in primo luogo, si concentrano sulla democrazione – un’idea – che sta sopra a ogni nazione o evento specifico; in secondo luogo, non sono assolutamente mezzi per veicolare prescrizioni. Non sono film prodotti da esperti su esperti, ma ci raccontando la situazione che si vive in Iraq, Cile, Sudafrica o Iran. Questi film tentato di essere illuminanti per chiunque, in ogni paese, spiegando un concetto nodale chiamato democrazia. La democrazia così come esiste oggi non è come desideriamo che sia.

Per seguire l’evoluzione del progetto è stato creato un blog mentre a latere è nato Why Democracy House. Qui invece il trailer di Taxi to the Dark Side.

LG, Peacereporter ed Emergency contro silenzi e denunce

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Io non denuncioL’appello di Libertà e Giustizia, intitolato Rompiamo il silenzio, contro tutta una serie di storture:

contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche. Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente. Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale, che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Peacereporter ed Emergency pubblicano inoltre il manifesto da portare negli ambulatori. Per protestare contro una delle storture più indegne degli ultimi tempi: l’obbligo di denuncia dei medici per i pazienti, in ambienti diversi da un pronto soccorso o uno studio medico, vengono chiamati immigrati clandestini.