Pentiti di niente: Reggio Emilia, 12 giugno 1975, l’omicidio di Alceste Campanile

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Alceste CampanileL’omicidio di Alceste Campanile, avvenuto il 12 giugno 1975, è rimasto per quasi venticinque anni un mistero – si diceva – che a un certo punto si è innestato sul caso del sequestro e dell’assassinio di Carlo Saronio. Oggi è un mistero che, a meno di risultanze processuali che cambino le carte in tavola in appello e in Cassazione [il testo è stato scritto prima del processo di secondo grado a Paolo Bellini, condannato per questo delitto. Si veda qui. NdB], sembra essere stato chiarito e non c’entra nulla con la sorte dell’ingegnere milanese. Anche se sulla vicenda specifica rimangono dubbi. Dubbi sulla matrice dell’omicidio: per la giustizia, frutto di un litigio improvviso con un reo confesso che se n’è addossato la responsabilità; per la famiglia, che sottolinea una serie di lacune nell’indagine, originato e consumatosi negli ambienti dell’estrema sinistra reggiana. Ma come accade che i due casi a un certo punto si incrocino?

Carlo SaronioPer capirlo occorre ripercorrere la vicenda dall’inizio. Siamo nel cuore dell’Emilia Romagna, provincia di Reggio, sono le undici di sera, l’estate è ormai incombente, e una coppia sta percorrendo in auto la strada provinciale che da Montecchio porta a Sant’Ilario. Lei a un certo punto chiede al marito di fermarsi, non si sente bene ed è meglio che scenda e faccia quattro passi. Ma appena la donna mette piede nel campo a lato della carreggiata, si imbatte in una specie di fagotto: è il corpo di un uomo, un giovane, che giace supino ed è sdraiato sopra il braccio destro ritorto dietro la schiena. Sopra la camicia indossa un giubbotto di tela leggera e su di esso è chiaramente visibile una macchia di sangue provocata da un proiettile che gli si è piantato in un polmone. Porta anche un paio di occhiali da sole che si sono spostati sulla fronte: sotto di essi c’è un secondo foro, largo, un foro d’uscita perché qualcuno gli ha sparato alla nuca.
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Pentiti di niente: “Nessuna angoscia morale, ma freddo, lucido e bieco calcolo”

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Carlo SaronioNel processo di primo grado per il sequestro e l’omicidio dell’ingegnere Carlo Saronio e nella relativa sentenza, un lungo capitolo viene dedicato all’idea di rapirlo: chi fu ad averla? E quali furono i passaggi per trasformarla in realtà? Se Fioroni cerca di farsi passare come un personaggio di ripiego, entrato in questa faccenda per salvare un amico e comunque soggetto alle decisioni di un comitato di terroristi che deve avallare le sue azioni, le risultanze processuali raccontano altro.

Casirati non può essere stato a concepire per primo il rapimento: non sapeva neanche chi fosse Carlo Saronio prima che Fioroni glielo dicesse. Questa constatazione taglia fuori anche gli altri criminali “comuni”: Carobbio, De Vuono e tutti gli altri entrano nell'”affare” su invito del malavitoso meneghino e dunque è necessario che lui per primo venga a conoscenza del piano e che accetti di prendervi parte. E non può essere frutto del ragionamento collettivo di un gruppo politico, come invece affermato da Casirati senza che si sia trovato riscontro alcuno alla sua esistenza. Non rimane per i giudici che una spiegazione: Carlo Fioroni è la mente dietro al sequestro. Si legge nella sentenza di primo grado:

La sua partecipazione alla fase esecutiva infatti è piena e forse non era presente alla cattura (e, invero, non vi era motivo che lo fosse), ma partecipò alla discussione sul cloroformio; alla discussione sulle divise; seppe di Cavallo; seppe di De Vuono, del quale conobbe anche il compito specifico di speaker con la famiglia Saronio; seppe che per due volte ‘il legionario’ era stato sostituito al telefono da un complice che non aveva accento calabrese. E non si trattava di notizie frammentarie su particolari che egli ‘non era tenuto a sapere’ ma che ugualmente riusciva a estorcere (con le buone maniere) a Casirati, bensì avvenimenti ai quali aveva partecipato o dei quali a pieno titolo veniva posto a conoscenza.

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Pentiti di niente: tra versioni opposte e l’inutile carta dell’infermità mentale

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Carlo SaronioQuando a inizio 1979 si apre il processo di primo grado, Carlo Fioroni è il primo a essere interrogato.

Sono qui sotto il peso di una responsabilità morale molto grave e di una sofferenza incancellabile, per accusarmi e accusare e capire con voi cosa è accaduto tre anni e mezzo fa. Ridico a voi ciò che ho sempre detto e riaffermato di recente: non so cosa sia accaduto a Carlo. Non so nulla a questo riguardo, alla sua presunta morte. Non a caso dico presunta perché ancora oggi, anche se può apparire assurdo, la speranza che la morte non sia avvenuta non mi ha ancora lasciato.

Da questo momento in avanti, tutto o quasi tutto ciò che viene ricostruito in fase istruttoria, se si dà retta a Fioroni, è da prendere e buttare via. Casirati, continua a raccontare, gli avrebbe detto che Saronio si sarebbe sentito male dopo essere stato catturato tanto che il comune si dà da fare, trova una farmacia di turno e acquista delle gocce per il cuore che lo stabilizzino. Per Fioroni, Carlo è vivo perché il complice gliel’ha assicurato. Ma come fa a credergli, gli chiede la corte? E lui risponde che gli crede per una sorta di “inerzia mentale”: la condotta politica che deve rispettare gli impone di non approfondire certe questioni. Quindi prosegue ritrattando altre dichiarazioni rese al giudice istruttore: del rapimento aveva saputo solo a cose fatte e mai prima, anche se era nell’aria l’idea di sequestrare qualcuno per finanziare la lotta armata.

E aggiunge: “Spero che le mie parole siano udite anche fuori da quest’aula. Spero che qualcuno mi ascolti fuori da questa aula”. Vai a sapere a chi sta parlando, se sta parlando con qualcuno e se questa frase non è che l’ennesimo atto di una sceneggiata che dura da anni. Atto che – prosegue Fioroni – lo vede coinvolto quando ormai non può fare altro che diventare complice della banda per salvare l’amico. E facendolo esegue anche un ordine ricevuto dal gruppo politico a cui appartiene.
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Pentiti di niente: un mosaico che si va componendo

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Carlo SaronioNel corso del dibattimento, emergono con maggiore chiarezza diversi dettagli. Innanzitutto che Alice Carobbio non solo avrebbe avuto la lista dei rivenditori milanesi di divise militari, ma che sarebbe stata lei ad adattare le due indossate la notte del sequestro. Lei però si difende: non sa cucire nemmeno un bottone e poi le divise non le aveva neanche mai viste, stavano in una valigia che le era stata consegnata da Fioroni. Chiusa. Compito suo era di custodirla e di restituirla quando le fosse stata richiesta indietro.

Gli elementi più drammatici emergono dagli esami effettuati sulle spoglie che Casirati fa ritrovare con le dichiarazioni che rende il 24 novembre 1978. Che Carlo Saronio, mai ricomparso dopo il pagamento del riscatto, fosse morto era considerato abbastanza certo. Ora si avrà la conferma di ciò che è accaduto. Innanzitutto si accerta attraverso verifiche odontoiatriche che quei resti appartengono proprio all’ingegnere milanese e sul cranio non viene trovato alcun segno di trauma né alcun foro di proiettile. Il che non esclude per forza che il giovane sia stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco: il proiettile avrebbe potuto essere trattenuto dalle masse muscolari senza intaccare le strutture ossee e poi andare perduto a causa del disfacimento post mortem quando il cadavere viene spostato da Casirati dopo l’arresto di Fioroni.

Ma è improbabile soprattutto a fronte di un dato: dall’analisi dei tessuti cerebrali emerge un quantitativo abbondante di toluolo, sostanza usata come solvente per resine, grassi, oli, vernici, colle o coloranti e anche per aumentare gli ottani della benzina. Inoltre i suoi vapori, altamente tossici, hanno un effetto narcotico molto specifico: bloccano la respirazione. Ed è proprio così che sarebbe morto Carlo Saronio: non stordito e ucciso accidentalmente dal cloroformio, come sostenuto in un primo tempo, ma soffocato a causa di una prolungata pressione del tampone forse imbevuto di uno smacchiatore esercitata con troppo vigore e per troppo tempo.
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Pentiti di niente: chi va a processo e chi no

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Carlo SaronioQuando la fase istruttoria dell’indagine viene chiusa e mentre si va verso le richieste di rinvio a giudizio, ci sono i primi personaggi che escono di scena perché non coinvolti nel sequestro e nell’omicidio di Carlo Saronio. Accade per esempio a Giuseppe Astore, l’uomo che presta al dirimpettaio Brunello Puccia il denaro per concludere un “affare” e che si vede tornare indietro la cifra nei tempi prestabiliti, non sospettando minimamente che quei movimenti economici avessero contribuito a ripulire il denaro del riscatto. E comunque nel suo caso si tratta di una cifra assolutamente marginale dato che una fetta consistente del maltolto, 180 milioni di lire, viene invece destinata a Domenico Papagni e Pietro Cosmai, ben più professionali in operazioni del genere.

Viene prosciolta con formula piena anche Brunilde Pertramer, all’inizio incriminata per associazione a delinquere perché si era creduto che l’elenco più volte citato fosse una lista di persone da rapire (tra cui Saronio) e invece i nomi riguardavano persone disposte a ospitare compagni senza chiedere, né pretendere, nulla. Viene presentata richiesta di proscioglimento (poi respinta e così vengono rinviati a giudizio) anche per Luigi Carnevali e Ugo Felice, imputati per sequestro e omicidio: le banconote in loro possesso derivavano sì dal sequestro del giovane ingegnere, ma forse non avrebbero saputo nulla dell’origine del denaro.

Che la prossima volta stiano più attenti e sospettino di chi mette loro in mano pezzi di grosso taglio, soprattutto se di solito è gente con scarse e dubbie fonti di sostentamento. Ufficialmente fuori dall’indagine è anche Vincenzino Ersilio, il convivente di Maria Cristina Cazzaniga, che ha sempre negato di conoscere tutti i movimenti della donna e di non aver avuto ragioni per credere che facesse parte di formazioni sovversive.
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Pentiti di niente: il compagno Saronio, la vittima sacrificale e sacrificabile

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Carlo SaronioNel 1968 Carlo Saronio è ancora uno studente universitario, frequenta la facoltà di ingegneria e non rimane insensibile a ciò che avviene in Francia durante le rivolte studentesche. In quel periodo però si tiene lontano dal fervore che attraversa anche l’Italia e con un gruppo di amici preferisce dedicarsi ad attività filantropiche per le vie di Quarto Oggiaro. Punto di riferimento è la parrocchia e a coordinare i ragazzi c’è un sacerdote, don Giovanni Beltramini, che conosce personalmente Saronio e al quale è legato da un rapporto di amicizia.

Anche se l’esperienza del gruppo di volontariato non dura molto e non va oltre il 1969, Saronio continua a frequentare il parroco e il quartiere e in quel periodo visita per la prima volta l’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, entusiasmandosi per gli studi che qui vengono condotti. Così, pur non essendo ancora prossimo alla laurea, presenta una domanda e viene ammesso a un programma di ricerca sugli enzimi. Qui tornerà anche dopo aver terminato gli studi dedicando – ha detto chi lo ricorda – almeno quattordici ore al giorno al suo lavoro. Impegno e risultati finiranno per attirare su di lui l’attenzione dei superiori, tanto che a un certo punto gli verrà assegnata una borsa di studio: un anno di specializzazione a partire dall’autunno 1973 all’università di Philadelphia.

Ma in quegli anni c’è l’incontro, oltre che con la scienza, anche con la politica, con Potere Operaio e con Carlo Fioroni che frequentava Quarto Oggiaro per promuovere e coordinare la militanza nel quartiere. Chi ha conosciuto Carlo Saronio lo ha sempre descritto come un ragazzo timido e gentile. Dagli amici veniva chiamato il “salice piangente”, per via della curva delle spalle e della schiena e per un’ombra di tristezza che gli attraversava il volto anche quando sorrideva.
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Pentiti di niente: eppure proprio la vittima l’aveva aiutato

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Carlo SaronioIntanto però siamo ancora nella prima metà degli anni Settanta, Fioroni in cambio della sua collaborazione schiva l’arresto e quindi si presenta spontaneamente al giudice istruttore Ciro De Vincenzo insieme al suo avvocato difensore, per rispondere della carta d’identità falsa intestata a Lorenzo Maggi, l’unico reato fino a quel momento contestatogli. Ma come già accaduto qualche mese prima quando viene sentito dal pubblico ministero Antonio Bevere, dice poco. Si limita ad aggiungere qualche particolare che però viene valutato “deviante e mendace”: in sostanza dice di avere solo incarichi contabili per Potere Operaio e che nel 1971 aveva sostenuto la linea di avvicinamento al gruppo del Manifesto di Luigi Pintor e Rossana Rossanda, ma una volta naufragato l’affratellamento si era allontanato sempre di più da POTOP fino all’esplicita dissidenza. Non sa però identificare chi gli ha fornito i documenti intestati a Lorenzo Maggi e la lettera per Osvaldo scritta da Saetta gliel’ha data una giovane extraparlamentare perché la consegnasse a un uomo che si sarebbe materializzato al momento opportuno. Infine non gli risulta che elementi di Potere Operaio abbiano avuto a che fare con Feltrinelli.

Basta così, è sufficiente. Carlo Fioroni se la cava un’altra volta e rimane a piede libero fino al 24 giugno 1974, quando viene convocato di nuovo per rispondere stavolta di associazione sovversiva. In questo frangente si proclama militante rivoluzionario e ammette di aver avuto nel 1971 contatti con un tale che si faceva chiamare Osvaldo, aggiungendo però di non aver mai saputo di chi si trattasse in realtà, se non dopo le notizie relative al traliccio di Segrate. Inoltre tra Fioroni e Feltrinelli pare – sempre secondo le sue parole – che si fosse creata subito un’intesa politica e che Osvaldo gli avesse proposto di occuparsi della creazione di strutture che potessero consentire una risposta militare alla minaccia fascista che, secondo l’editore, era ormai incombente e pronta a esplodere.
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Pentiti di niente: “Caro Osvaldo, tu resisti proponendoci i tuoi schemini militari”

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Carlo SaronioFeltrinelli, nel perseguire il progetto che lo porterà alla morte su quel traliccio, mira senza dubbio a un più ampio coinvolgimento dei diversi gruppi extraparlamentari dell’epoca e sembra confermarlo una lettera trovata il giorno dell’esplosione che lo uccide nel covo dei GAP di via Subiaco, a Milano, e datata 27 ottobre 1971: Osvaldo-Feltrinelli scrive a un misterioso Saetta (che solo successivamente risulterà essere Franco Piperno, uno dei fondatori e successivamente leader di POTOP insieme a Toni Negri, Oreste Scalzone, Lanfranco Pace e Valerio Morucci), il quale però non fa in tempo a far pervenire la sua risposta. Ecco quanto contenuto nel messaggio:

Caro Saetta,

fra i tanti argomenti lasciati in sospeso nella nostra recente riunione ve n’è uno, concreto, che a mio avviso val la pena di approfondire in maniera che si giunga alla prossima riunione con una maggiore chiarezza di impostazione e di soluzione. Abbiamo parlato di complementarietà delle nostre forze a Milano, della auspicabilità di un processo di avvicinamento, di integrazione e di coordinamento tanto sul piano operativo, quanto su quello logistico e politico. Intorno a questo problema abbiamo però girato piuttosto a vuoto senza uscire dal generico dal momento che una mia proposta di creare a livello di Milano (e aggiungo ora anche a livello Alta Italia – area metropolitana Nord) una serie di stati maggiori è caduta nel vuoto forse perché non vi ho insistito abbastanza (cosa che mi propongo di fare nella presente lettera), forse, o soprattutto, perché solleva una serie di obiezioni (alcune delle quali mi propongo di esaminare più oltre).

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Pentiti di niente: lo strano compagno che girava con una vecchia Glisenti scarica

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Carlo SaronioCarlo Fioroni è un personaggio strano, controverso, antipatico. Anche ambiguo, per i suoi ex-compagni di Potere Operaio che lo hanno soprannominato il “professorino”, un po’ perché insegna alle scuole medie e un po’ perché si atteggia a saputo con i compagni. Solo alla fine degli anni Settanta dirà ai giudici che questo atteggiamento al contempo spocchioso e dimesso era stato studiato per salvaguardare nel periodo della sua presunta clandestinità sia lui che il gruppo all’interno del quale operava.

Nella prima fase della sua militanza, quando inizia ad avvicinarsi a Potere Operaio, sono ancora da venire le dubbie dichiarazioni e il quantomeno discutibile – quando non proprio mendace – memoriale che Fioroni scriverà nel carcere di Matera contribuendo ad alimentare le accuse mosse nel processo “7 aprile” contro Antonio Negri, Oreste Scalzone, Nanni Balestrini, Alberto Magnaghi, Gianni Sbrogiò, Augusto Finzi, Francesco Bellosi, Lucio Castellano, Mario Dalmaviva, Luciano Ferrari Bravo, Alberto Funaro, Libero Maesano, Giovan Battista Marongiu, Jaroslav Novak, Gianfranco Pancino, Giorgio Raiteri, Adriana Servida, Francesco Tommei, Emilio Vesce, Paolo Virno, Lauso Zagato e Domenico Zinga.

Dalla fine degli anni Sessanta al sequestro Saronio, il nome di Carlo Fioroni emerge a più riprese. C’è il suo rapporto con Giangiacomo Feltrinelli e con i GAP, i Gruppi di Azione Partigiana, di cui si parlerà più avanti. C’è l’appartamento di via Bruschi a Milano, lo stabile dove anni più tardi verrà rinvenuta la tipografia delle Brigate Rosse, “l’appartamento [che] era di un compagno ritenuto da tutti affidabile, intellettualmente preparato, anche se piuttosto pasticcione sul piano pratico: Carlo Fioroni”. È colui che va dai compagni, come accade a Franco Berardi, e li bolla come “non veri bolscevichi”, sentendosi rispondere: “Non me ne dispiaccio affatto”, ma che a sua volta viene giudicato senza mezzi termini: “non era solo troppo debole di carattere per fare il rivoluzionario, ma anche il pentito”.
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Pentiti di niente: malavitosi in vacanza tra giri di appartamenti, denaro e auto

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Carlo SaronioTra i giri di appartamenti a ridosso e immediatamente successivi al sequestro Saronio, un punto in comune c’è: è l’agenzia immobiliare Meson e meglio controllare allora tutti i contratti di locazione che ha stipulato. Le sorprese non mancano. Dei servizi di quest’agenzia ne hanno infatti usufruito il 14 maggio 1975 il pregiudicato Vincenzo Bizzantini e Gennaro Piardi, soprannominato anche “Ciccio il Bello”, che avevano affittato insieme un appartamento in via Marcona e avevano versato un anticipo di un milione e 215mila lire tenendo però l’immobile pochissimi giorni. A questo proposito, Bizzantini ammette infatti di aver affittato quella casa nel maggio 1975 per conto di Carlo Casirati, ma di averla disdetta tra il 22 e il 23 maggio: il 20 di quel mese infatti lo stesso Bizzantini viene fermato e identificato durante un controllo dalla polizia mentre, alla guida di una A112 Abarth acquistata due giorni prima, sta accompagnando a Treviglio Gennaro Piardi e Rossano Cochis.

L’utilitaria dell’Autobianchi in quegli anni non era diffusissima a Milano e un facile controllo al pubblico registro automobilistico permette di verificare che un’auto di quel modello era stata immatricolata nel maggio 1975 proprio da Gennaro Piardi. Ma al concessionario accade qualcosa di inusuale nel periodo che intercorre tra l’ordinazione e il ritiro del veicolo, avvenuto nel settembre 1975. Il rivenditore infatti ricorda il nome di Piardi, ma dice di non poterlo identificare per una ragione molto semplice: non l’ha mai visto in faccia. A ordinare l’auto infatti non era stato direttamente lui, ma Brunello Puccia, il gestore di un bar di via Roggia Scagna, che ne ordina anche un’altra per sé e che gli consegna il certificato di residenza di Gennaro Piardi.

Ma salta fuori anche un’ulteriore auto, la terza, identica alle precedenti, acquistata da un amico del barista, Alberto Monfrini. Tutte le utilitarie sono state pagate per intero in contanti. Strano, pensano gli inquirenti, che decidono di controllare i conti correnti di Puccia e di Monfrini accorgendosi che tra il 15 maggio e il 17 giugno 1975 il secondo aveva effettuato un versamento – sempre in contanti – di 10 milioni di lire e che nello stesso periodo entrambi avevano ricevuto assegni circolari di importo simile da un tale Giuseppe Astore. Il quale a sua volta finisce nell’indagine e si vede che aveva effettuato anche versamenti a proprio favore il cui valore complessivo supera gli importi poi girati a Puccia e Monfrini.
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