È venuto il tempo del ritorno a Bassavilla di Danilo Arona

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Ritorno a BassavillaDi Bassavilla s’è parlato non tanto di rado da queste parti. Così come del suo autore, Danilo Arona, forse lo scrittore più citato qui dentro. Così alla notizia che sta uscendo un suo nuovo romanzo, Ritorno a Bassavilla, pubblicato dalle XII Edizioni, cresce la voglia di avercelo tra le mani e sotto gli occhi. Per arrivare a leggere quanto preannunciato nella sinossi del libro:

“Ritorno a Bassavilla” ci riporta tra le nebbie della più spettrale tra le città della nostra letteratura, e che era tempo si vedesse dedicare un intero libro: Bassavilla. Uno sguardo oltre l’apparenza confortante delle cose, tra storie – vere? – di fantasmi, resoconti dell’insolita attività investigativa dell’autore, e inquietanti fatti di cronaca nera. O nerissima. Spaccati che oscillano in equilibrio quantomai precario sul filo sottilissimo che separa la realtà (o quella che riteniamo tale) dall’Immaginario più disturbante. E dietro sogghigna e prende forma – solo per poi prenderne un’altra – lei: Bassavilla.

Se la prefazione è stata affidata a Daniele Bonfanti, del romanzo scrive Valerio Evangelisti:

Verità? Invenzione? Tutte e due, probabilmente. Con un rigoroso filo logico che conduce dall’una all’altra, e le confonde. Danilo Arona è un seminatore di inquietudini, autore di un genere proprio, che spezza i confini del quotidiano e ci sposta sull’orlo di abissi vertiginosi, popolati da fantasmi e infestati da strane entità. Sulla base di coincidenze, di prove, di analogie, di episodi tanto insoliti quanto documentati. Arona è un Charles Fort moderno o uno dei migliori autori fantastici che abbiamo in Italia? Tra i mille dubbi che lascia nel lettore, questo è forse il più insondabile.

E intanto, partendo proprio dalle Cronache di Bassavilla, in edicola fino a fine agosto, per la Epix-Mondadori, c’è un’antologia curata da Danilo Arona. Si intitola Bad Prisma e riprende il personaggio della fantomatica Melissa riletta da altri autori.

Un racconto che racconti la paura del buio

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Un racconto per paura del buio1) È un’iniziativa editoriale che porta avanti la battaglia a favore delle licenze Creative Commons (e ciò che uscirà sarà rilasciato con una Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate).

2) Affronta una tematica che è più che attuale.

Si intitola Un racconto per “paura del buio?” ed è una coproduzione tra Collane di ruggine e paura.anche.no per creare un cofanetto che contenga trenta cartoline illustrate e su cui stampare racconti in argomento. Questa la presentazione dell’iniziativa:

Il Babau è l’ultima frontiera nella politica dell’ansia. Semplice e primordiale paura. Diverso dal terrore, più simile alla goccia che ti cade in testa e pian piano ti porta incosapevolmente alla pazzia. Il nostro buffo mondo sta prendendo coscienza dell’esistenza del Babau. L’ansia di sicurezza, la paura del proprio simile, il rancore confuso e convulso che trasudano da ogni dove in questi anni difficili trovano la propria naturale conclusione nell’avvento del Babau. Non ci sarà più bisogno di invocare/creare/inventare emergenze e pericoli, tutti avranno paura del buio e basterà invocare il Babau perché ogni complessa manovra di ingegneria sociale trovi una giustificazione.

Il Babau è meglio del terrore, perchè il Babau non ti uccide subito, ti logora e ti porta a modificare il tuo sguardo sulla realtà in un’ottica schizoide, che alimenta se stessa. Nel paese del Babau può essere vero tutto e il contrario di tutto, il Babau non ti vuole sempre tristo e mogio. Il Babau porta anche allegria, folli risate che si alzano fino al cielo. Se non hai un soldo in tasca e la crisi ti divora, devi ridere, perché ci vuole ottimismo, altrimenti il Babau arriva e ti mangia. Ma non devi sollazzarti troppo, perchè il Babau è in agguato e non ci vuole nulla perché ti rubi il bambino dalla culla, usurpi il tuo posto di lavoro, rubi la/il tua/o donna/uomo.

Prendendo in prestito brandelli di saggezza in pillole da Kurt Vonnegut, potremmo dire che in questo mondo delle mille e una oppurtunità di essere divorati dall’ansia, dalla paura e dall’angoscia, tutto quello che può accadere probabilmente accadrà. Scansatevi in tempo.

Per partecipare si scrive un racconto di circa 1500 battute e lo si spedisce all’indirizzo collanediruggine-at-inventati.org entro la fine di agosto. Se i racconti dovessero superare il numero delle cartoline, si imporrà gioco forza una selezione, ma online ci andranno tutti.

Peacelink, Alessio Di Florio: negazione di ogni possibile democrazia

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Alessio Di Florio, dalle colonne virtuali di Peacelink, traccia i contorni di un golpe criminale [che] si aggira per l’Italia. Senza bisogno di artiglieria e liste, senza bisogno di presidiare manu militari il territorio, senza bisogno di alcun folklore da parata perché:

in realtà, e tutti ne sappiamo mandanti, esecutori e complici (anche perché, in larga parte, siamo tra loro) c’è un golpe silenzioso che non si è mai fermato. Un golpe fatto di menzogne, connivenze criminali, repressione violenta, omertà, corruzione, cancellazione di ogni dignità personale che ha conquistato il cuore dello Stato Italiano, e ha annullato ogni possibilità di democrazia.

Una retrospettiva sulla situazione delle indagini mafia-stato in Sicilia, sulla politica abruzzese, sull’occupazione e su caso come quello di Aldo Branzino, Federico Aldrovrandi o Ramesh. Altro post interessante è quello pubblicato sul caso di Carmelo Canale, collegato da vicino a quello di cui è già parlato di Antonino Lombardo: qui siamo sempre in Sicilia e sempre di lotta (se così si può chiamare) alla mafia si parla.

Fotografi, non terroristi. Una campagna in Gran Bretagna

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I'm a photographer, not a terroristAccade in Gran Bretagna (dove qualche tempo fa era nato il movimento Fit Watch di cui s’era parlato) che se qualcuno viene sorpreso con una macchina fotografica venga scambiato per un malintenzionato. In senso terroristico. Per seguire via via gli aggiornamenti si possono seguire gli account su Twitter o Facebook dove vengono pubblicati i fatti di questo genere. E ancor prima nasce la campagna I’m a photographer, not a terrorist per ribadire che nel limbo dei sospetti ci finiscono “amatori o professionisti”, senza distinzione tra chi “ritrae paesaggi, forme architettoniche o strade urbane”. Dunque:

[questa situazione] non solo corrode la libertà di stampa, ma spegne anche la creazione di una storia visiva collettiva del nostro paese attraverso norme anti-terrorismo create per proteggere un patrimonio che ci viene impedito di ritrarre. Questa campagna è destinata a chiunque abbia a cuore i simboli visivi, non solo ai fotografi, è portata avanti da una serie di singoli e non deve nulla a una singola organizzazione. Dobbiamo lavorare insieme per fermare [questa tendenza] prima che la fotografia diventi parte della storia invece rimanere un modo per registrarla.

Sul sito sono stati pubblicati molti autoritratti di coloro che sostengono la campagna (qui le istruzioni per inviare il proprio) e qui invece le grafiche con cui creare magliette o materiale a supporto.

(Via BoingBoing)

Vendetta: la storia di una guerra clandestina senza vincitori

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VendettaC’è un amico che può essere un personaggio senz’altro discutibile sotto diversi punti di vista, ma quando questo personaggio dà un consiglio di lettura c’è di che fidarsi. Lo dimostra – ultimo di una serie – anche il libro Vendetta. La vera storia della caccia ai terroristi delle Olimpiadi di Monaco 1972 dello scrittore d’origine ungherese George Jonas, il romanzo da cui è stato tratto il film di Steven Spielberg Munich. Per primo ho visto il film (fornito dallo stesso personaggio) e l’ho trovato notevole. Così sempre lui mi ha portato il volume: oltre quattrocento pagine per una storia che sui giornali non viene mai raccontata.

È quella di una caccia. Della caccia di un gruppo di sicari che si muove per l’Europa occidentale alla ricerca di undici capi del terrorismo palestinese da eliminare per infliggere – almeno nelle intenzioni – una battuta d’arresto agli attentati che all’inizio degli anni settenta si sono abbattuti contro obiettivi israeliani. Il gruppo però non è un’organizzazione di giustizieri sciolti, ma una squadra messa insieme dal Mossad con il beneplacito del primo ministro Golda Meir. I componenti, prima di partire per due anni e mezzo di corse per il vecchio continente, firmano una lettera di dimissioni dal servizio segreto israeliano in modo da non essere direttamente riconducibili a esso. E poi rincorrono le notizie che passa loro una rete di informatori che va da ambienti vicino alla banda Baader-Meinhof a mercenari che non si sa bene per chi lavorino e perché, come il parigino Le Group. Alla fine della missione, che si conclude con l’assassinio di nove terroristi (o presunti tali) ricorrendo ai sistemi più vari (dalle rivoltellate di calibro 22 a ingegnosi ordigni progettati per esplodere colpendo solo gli obiettivi e limitando le “vittime collaterali”, anche se non sempre ci si riesce), c’è qualcuno che ne esce – per coloro che ne escono vivi – allucinato. O consapevole.

È l’agente Avner, la sedicente gola profonda di Jonas, che gli racconta quanto fece con i suoi quattro colleghi. Senza voler redimersi né dimostrare pentimento per le eliminazioni a cui ha collaborato, Avner vuole che si sappia cos’è accaduto dietro le quinte della guerra fredda e dello scontro tra Israele e Palestina. Uno scontro che è andato ben oltre la guerra dei sei giorni o quella dello Yom Kippur. Una guerra caldissima che vedeva contrapposto un sentimento di conservazione reso ancora bruciante dalla recente Shoa a una difesa dei propri territori ben oltre le armi della diplomazia, della politica e del confronto tra stati. Chi ne esce vincitore, da questo conflitto, non si sa. Il terrorismo non si arresta così come non si arrestano gli scontri tra eserciti regolari. E a un certo punto, nel romanzo di Jonas, si legge:

Il fatto di essere richiamati in patria senza aver ultimato la missione, anche se nessuno li avrebbe rimproverati, significava un fallimento. Su questo erano tutti d’accordo: non ci fu bisogno di discuterne. Esser costretti a lasciare un incarico a metà, e soprattutto dover tornare senza aver beccato Salameh, per tutti loro equivaleva a una sconfitta. Non rientrava nelle tradizioni di Israele. Era preferibile la morte, o persino disobbedire a un preciso ordine di ripiegamento, anche se ciò sarebbe stato difficile se il Mossad tagliava loro i viveri […]. In seguito, Avner avrebbe ammesso che, almeno in questo senso, erano in tutto e per tutto fanatici come i mechablim [terroristi].

Breakshot: educazione di una canaglia versione XXI secolo

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Breakshot: A Life in the 21st Century American MafiaIn cold blog, nelle cui pagine il true crime è l’argomento principe, ha pubblicato nei giorni scorsi un lungo post dedicato a un libro appena uscito per Phoenix Books: si tratta di Breakshot: A Life in the 21st Century American Mafia di Kenny Gallo (o Kenji, se si usa uno dei vari pseudonimi con cui è conosciuto, quello che gli deriva dalle sue origini asiatiche) e del giornalista investigativo di New Orleans Matthew Randazzo V. Il primo è un gangster, tale è stato per vent’anni riuscendo a sopravvivere a una vita di violenza iniziata in giovanissima età e di pseudonimo ne ha un altro: Breakshot, appunto. Tuttavia a chiamarlo così non sono i suoi complici, ma sono i federali che a lungo gli hanno dato la caccia. E di sé spiega:

Sono cresciuto a Irvine, in California, quando là c’erano pochi asiatici. Era uno dei posti più bianchi del pianeta, almeno dal punto di vista culturale se non razziale. La mia famiglia non ha colpa per la mia vita precedente: non ho subito abusi né sono stato trascinato sulla strada del crimine. Ero solo un ragazzo annoiato che è diventato un ragazzo cattivo che a sua volta à diventato un criminale cinico. In me esisteva un istinto predatorio. Irvine era conosciuta come la città più sicura al mondo, una sfida insomma a diventare un delinquente che vincesse la sua noia. Era una città che non permetteva, nei suoi piani urbanistici, a giovani tediati di inserirsi.

Così gli anni dell’adolescenza di Kenji si sono trasformati nella ricerca spasmodica di qualcosa di eccitante: dagli eccessi con un gruppo di amici sballati ai primi arresti per qualche furtarello fino alla scuola militare che – racconta – al posto della disciplina gli ha inculcato “un disprezzo patologico per l’autorità”. Quasi si trattasse di una nuova versione di Educazione di una canaglia di Edward Bunker, Kenny Gallo ricostruisce come si è avvicinato alla criminalità organizzata, di come quella gente gli ispirasse più sarcastiche battute che paura e di quanto non avesse problemi a superare in crudeltà gli psicopatici dei cartelli colombiani della droga.

È un assaggio, il post di In cold blog, di ciò che si trova nel libro. Ma un assaggio anche di un altro sito, The Breakshot Blog, che accompagna il volume e me aggiunge (e aggiorna) alcuni passaggi, come nel caso di Life with a wire.

L’Opus Dei diventa un gioco di società e provoca qualche irritazione

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Opus-Dei: Existence After ReligionFederico “Edo” Granata segnala su Friendfeed un articolo e un gioco di società. L’articolo si intitola “Opus dei – l’esistenza dopo la religione”: il gioco da tavolo che fa arrabbiare la Chiesa di Stefano Marucci mentre il gioco è proprio l’originale Opus-Dei: Existence After Religion™:

Mark Rees-Andersen e Allan Schaufuss Laursen partono dal presupposto che è onere di chi crede, e non dell’ateo, provare che un dio esista o meno. E il loro gioco da tavola cerca di promuovere l’idea che il mondo sarebbe migliore senza un dio: “Opus Dei significa semplicemente ‘prodotto di Dio’, e quindi la nostra interpretazione di ‘Opus Dei – l’esistenza dopo la religione’ implica che un’esistenza senza religione potrebbe davvero essere il progetto di un Dio benevolo (se mai esistesse) poiché ogni religione organizzata ha interessi personali e metodi discutibili, e non sembrano essere in grado di aiutare lo sviluppo dell’umanità, quello che oseremmo chiamare evoluzione”. Insomma i filosofi (gli scienziati, i politici e gli inventori) sono i punti cardinali dell’umanità, e il gioco vuole rendere omaggio alle loro menti eccelse, che hanno sfidato i dogmi religiosi permettendo all’umanità di aprirsi al futuro.

Dalle sfere religiose non sembrano averla presa bene. Però le loro ritorsioni legali – finora poco efficaci – non avrebbero fatto altro che portare notorietà alla piccola casa di produzione del gioco (intanto si prosegue sui binario della violazione di marchi e magari sarà interessante vedere come andrà a finire). I fondatori, dal canto loro, vai a sapere se per autentica ingenuità o per malizia, avrebbero ammesso che, senza il film “Il codice Da Vinci” tratto dal romanzo di Dan Brown, manco avrebbero saputo dell’esistenza dell’Opus Dei: credevano fosse un’organizzazione partorita della mente dello scrittore statunitense, tanto sembrava a loro poco plausibile.

Addio a Oscar Marchisio, grande visionario della cultura italiana

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Oscar MarchisioDavvero una pessima notizia. La notte scorsa, infatti, è morto Oscar Marchisio, una delle persone più attive e piene di vita che conoscessi. Al momento le notizie sono frammentarie, se ne può leggere qualcosa qui. Oscar l’avevo incontrato poco tempo fa: si parlava di un nuovo libro, dopo questo (di cui aveva scritto la prefazione e ancora prima avuto l’idea volendolo fortemente), si stava impostando l’idea di riprendere un suo romanzo, Meta-stanza. Memorie dal futuro, per scrivere a quattro mani un seguito, voleva mettere in piedi una web radio per riempirla di contenuti liberi che spaziassero dalla politica alla geografia politica, e continuava con i suoi progetti di cooperazione con l’Africa mediterranea. La sua casa editrice, Socialmente, era piccola, ma una vera perla per i temi che affrontava e per come li affrontava. Insomma, un’autentica perdita, quella di Oscar Marchisio, e ancor prima che intellettuale è una perdita umana per l’energia, la passione e la lungimiranza che sapeva trasmettere.