“Uno sparo in caserma”, la storia di Antonino Lombardo

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Uno sparo in caserma di Daniela PellicanòIl sospetto e la delegittimazione, in Sicilia, sono sempre stati l’anticamera della soppressione fisica.
(Antonino Lombardo)

Il 4 marzo 1995 uno colpo d’arma da fuoco riecheggia nel cortile della caserma di Monreale. Proviene da un’auto e a sparare è stato un sottufficiale dei carabinieri, il maresciallo Antonino Lombardo, che mira contro di sé. A raccontare la vicenda è il libro Uno sparo in caserma. Il caso Lombardo di Daniela Pellicanò, che tira le fila di un suicidio, sembra. Il suicidio di un militare accusato poche settimane prima di essere in odor di mafia. Ma ad accusarlo non è una procura della repubblica, ma la televisione. Accade infatti che il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e quello di Terrasini, Manlio Mele, parlino alle telecamere di Tempo Reale, la trasmissione allora condotta da Michele Santoro. In collegamento dal comune siciliano che sorge proprio di fianco all’aeroporto di Punta Raisi, i due primi cittadini siciliani fanno dichiarazioni che suonano come un’implicita imputazione: chiedono l’intervento del comandante generale dell’arma contro l’ex capo della stazione di Terrasini. Di cui però non fanno il nome, si limitano a indicarne mansione e periodo di attività. Non spiega, la coppia di sindaci, non aggiunge altro, si limita a dire ancora che in zona non tutti hanno fatto il proprio dovere.

Colpito e affondato. Senza contraddittorio. Senza verificare se a carico del maresciallo Lombardo ci fossero procedimenti in corso. Lui, il sottufficiale, viene a sapere dalla tv quanto sta accadendo: guarda per caso la trasmissione mentre sta uscendo a cena con la moglie. E se fino a quel momento sembrava non aver covato alcuna preoccupazione in merito al suo lavoro, a quel punto inizia a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi. Per di più, dopo aver reagito e querelato Mele e Orlando per diffamazione, subisce quelli che deve vivere come avvertimenti, l’annuncio di azioni punitive: prima l’efferato omicidio di un suo informatore e poi l’annullamento del terzo viaggio americano, quello che dovrebbe riportare Gaetano Badalamenti in Italia. E a prendere il boss di Cinisi, quello che fece ammazzare Peppino Impastato, dal 1984 agli arresti negli Stati Uniti dove era stato condannato a trent’anni per traffico di droga, non ci poteva andare chiunque: Badalamenti voleva lui, Lombardo, l’unico che era riuscito a instaurare un dialogo con il mafioso e a convincerlo a collaborare. Mettere fuori gioco Lombardo, che in precedenza aveva contribuito alla cattura di Totò Riina, significava annullare qualsiasi rivelazione di don Tano. Che infatti in Italia non ci tornerà più e morirà di cancro quasi dieci anni più tardi nel Massachusetts.

Il gioco, dunque, è quello di screditare il sottufficiale, farlo sembrare colluso con la criminalità organizzata e renderlo non più affidabile, farlo fuori professionalmente. Se già c’era già stato un precedente in questo senso, tentato da un presunto collaboratore di giustizia, conseguenze non se n’erano avute e Lombardo aveva continuato il suo lavoro come sempre: a contatto con il territorio, prendendo pubblicamente un caffè coi picciotti, costruendosi la sua rete di fonti confidenziali che lo indirizzassero nella conduzione delle indagini. Ma a un certo punto viene stato “posato”, il carabiniere, tanto che i suoi superiori non interverranno per difenderlo dopo le insinuazioni che i due politici siciliani fanno di fronte alle telecamere di una trasmissione a carattere nazionale. Gli ufficiali palermitani, dal canto loro, diranno di essersi astenuti perché quelle affermazioni, “oltre che inopportune, [erano] anche destituite di fondamento”.

Dopo il suicidio, che avviene poche ore dopo un viaggio di lavoro fuori regione e al termine di un colloquio con alcuni superiori, si apre la fase delle inchieste. Il nodo principale da derimere è se vi sia stata istigazione a farla finita e i risultati delle indagini arrivano tre anni dopo, nell’aprile 1998. Archiviazione perché – scrive la procura – l’evento maturò “autonomamente e imprevedibilmente nella mente dell’autore in un momento in cui [ritenne] che stessero per crollare […] tutti i propri punti di riferimento”. Questa dunque sarebbe la fine che fa un uomo che da una stazione di provincia passa al Ros – raggruppamento operativo speciale – perché era “una memoria storica del fenomeno mafioso” e aveva dimostrato “particolare e conclamata capacità professionale nell’ambito delle indagini antimafia” (generale Mario Nunzella, verbale di assunzione informazioni, 16 marzo 1995).

Documenti alla mano, l’autrice di questo libro spiega perché la famiglia si oppone a questa conclusione, come fa a dimostrare che il maresciallo fu via via abbandonato al suo destino, elenca le lacune investigative successive al suicidio, a iniziare dall’autopsia mai svolta per proseguire con appunti scomparsi, relazioni rubate e cassette sparite. Conclusione: sarà definito un eroe, Lombardo, quando si toglie di mezzo perché ormai non teme più solo per sé ma anche per la famiglia. Tuttavia ha ceduto e non si procede nemmeno nella querela per diffamazione per questioni di competenze. Così nel novembre del 2006, periodo in cui esce il volume di Daniela Pellicanò, ci sarà solo un ex collega, il colonnello Giovanni Baudo, che vuole ricordare per iscritto Lombardo. Silenzio sul resto.

Uno sparo in caserma. Il caso Lombardo di Daniela Pellicanò (Collana Lettera Trentadue, Città del Sole Edizioni, 2007) — 192 pagine — € 10,20 — ISBN 9788873511236

(Questo articolo si trova anche all’interno della rubrica Cronaca nera di Thriller Magazine.)