Lsdi: come la cronaca nera cambia la società. Eppure nacque con scopi differenti

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Nera. Come la cronaca cambia i delittiFabio Dalmasso racconta su Lsdi di come la cronaca nera cambia la società. Partendo dal contenuto del libro Nera. Come la cronaca cambia i delitti firmato da Luca Steffenoni (San Paolo Edizioni), scrive:

L’indiscutibile legame tra costume sociale e cronaca nera ha fatto sì che ogni nuovo omicidio, ogni nuovo articolo su un fatto di sangue spostasse un po’ più avanti il comune senso del pudore, o meglio, del dolore che, secondo l’autore, “forse, oggigiorno, è arrivato al capolinea”. Ma ne siamo sicuri? O non è forse in atto una corsa a chi fa vedere e racconta di più? Sempre più particolari, sempre più “retroscena” e curiosità macabre, sempre più sulla notizia raccontata in modo morboso e voyeuristico. C’è da domandarsi fino a che punto possa spingersi questa sfrenata gara: fino a quando avremo l’omicidio in diretta, magari annunciato con un tam tam pubblicitario? Ma la cronaca nera non è sempre stata così.

E qui prosegue tracciando la storia della cronaca nera che parte dal Settecento, quando Henry Fielding iniziò a scrivere resoconti di processi e crimini per convincere la Camera dei lord britannica dell’importanza dei poliziotti di quartiere. A proposito invece di quanto avviene oggi, considera Steffenoni:

La cronaca nera ha, negli ultimi anni, subito così tante modifiche da risultare irriconoscibile. Basta pigiare su un qualsiasi tasto del telecomando per accorgersene. Tra esperti mescolati a uomini e donne dello spettacolo, politici che non sanno rinunciare alla visibilità mediatica, inquisiti che si scannano per un’inquadratura, avvocati che fanno la loro arringa in video, si è consolidato ormai un genere che mescola audacemente talk show e reality. È cambiata l’Italia e con essa i mezzi d’informazione, si è modificato il delitto e il modo di narrarlo

Senza finzione: “Armi in pugno – La storia del Nord Est tra politica, terrorismo e criminalità” di Pino Casamassima

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Armi in pugno di Pino CasamassimaIl volume sarà disponibile a partire dall’inizio di settembre, ma è appena stato inserito tra le anteprime di Stampa Alternativa il nuovo libro della collana Senza finzione, coordinata insieme a Simona Mammano. Si tratta del libro Armi in pugno – La storia del Nord Est tra politica, terrorismo e criminalità scritto dal giornalista Pino Casamassima:

Le Brigate Rosse, la prima volta che uccisero, lo fecero a Padova, la città che assisteva alla nascita dell’Autonomia organizzata e ai teoremi giudiziari che portarono al processo 7 aprile. Ma il Veneto fu anche la culla dell’eversione neofascista, quella di Ordine Nuovo, che metteva le bombe sui treni e che inaugurò gli anni di piombo con la strage di piazza Fontana. E sempre nel Nord Est nacquero e si svilupparono fenomeni criminali autoctoni, come la mafia del Brenta di Felice Maniero. Un’area, quella raccontata in questo libro, che passò dalla miseria e dall’emigrazione alla prosperità economica coltivando alcuni dei fenomeni che hanno fatto la storia dell’intera nazione.

E così, con il lavoro di Pino, fanno sette volumi all’interno della collana inaugurata nel febbraio 2009.

“Uno sparo in caserma”, la storia di Antonino Lombardo

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Uno sparo in caserma di Daniela PellicanòIl sospetto e la delegittimazione, in Sicilia, sono sempre stati l’anticamera della soppressione fisica.
(Antonino Lombardo)

Il 4 marzo 1995 uno colpo d’arma da fuoco riecheggia nel cortile della caserma di Monreale. Proviene da un’auto e a sparare è stato un sottufficiale dei carabinieri, il maresciallo Antonino Lombardo, che mira contro di sé. A raccontare la vicenda è il libro Uno sparo in caserma. Il caso Lombardo di Daniela Pellicanò, che tira le fila di un suicidio, sembra. Il suicidio di un militare accusato poche settimane prima di essere in odor di mafia. Ma ad accusarlo non è una procura della repubblica, ma la televisione. Accade infatti che il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e quello di Terrasini, Manlio Mele, parlino alle telecamere di Tempo Reale, la trasmissione allora condotta da Michele Santoro. In collegamento dal comune siciliano che sorge proprio di fianco all’aeroporto di Punta Raisi, i due primi cittadini siciliani fanno dichiarazioni che suonano come un’implicita imputazione: chiedono l’intervento del comandante generale dell’arma contro l’ex capo della stazione di Terrasini. Di cui però non fanno il nome, si limitano a indicarne mansione e periodo di attività. Non spiega, la coppia di sindaci, non aggiunge altro, si limita a dire ancora che in zona non tutti hanno fatto il proprio dovere.

Colpito e affondato. Senza contraddittorio. Senza verificare se a carico del maresciallo Lombardo ci fossero procedimenti in corso. Lui, il sottufficiale, viene a sapere dalla tv quanto sta accadendo: guarda per caso la trasmissione mentre sta uscendo a cena con la moglie. E se fino a quel momento sembrava non aver covato alcuna preoccupazione in merito al suo lavoro, a quel punto inizia a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi. Per di più, dopo aver reagito e querelato Mele e Orlando per diffamazione, subisce quelli che deve vivere come avvertimenti, l’annuncio di azioni punitive: prima l’efferato omicidio di un suo informatore e poi l’annullamento del terzo viaggio americano, quello che dovrebbe riportare Gaetano Badalamenti in Italia. E a prendere il boss di Cinisi, quello che fece ammazzare Peppino Impastato, dal 1984 agli arresti negli Stati Uniti dove era stato condannato a trent’anni per traffico di droga, non ci poteva andare chiunque: Badalamenti voleva lui, Lombardo, l’unico che era riuscito a instaurare un dialogo con il mafioso e a convincerlo a collaborare. Mettere fuori gioco Lombardo, che in precedenza aveva contribuito alla cattura di Totò Riina, significava annullare qualsiasi rivelazione di don Tano. Che infatti in Italia non ci tornerà più e morirà di cancro quasi dieci anni più tardi nel Massachusetts.
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Gli anni del disonore che non sono ancora finiti

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Gli anni del disonore di Mariano Guarino e Fedora RaugeiPer una strana coincidenza, mi trovo ad aver concluso Gli anni del disonore di Mariano Guarino e Fedora Raugei proprio mentre sta circolando una notizia che definire curiosa è usare un tenue eufemismo: Licio Gelli, il venerabile maestro della loggia massonica P2, va in televisione a raccontare la storia d’Italia, a iniziare dal periodo fascista. Il primo accenno che trovo della novità è sul blog di Giuseppe Genna: ha pubblicato qualche giorno fa un post su un lolitesco telefilm prodotto dalla Disney con relative considerazioni su un certo tipo di società. Dato appunto però che tra la pubblicazione e la mia lettura è trascorso qualche giorno, c’è anche qualche decina di commenti da spulciare, non di rado sagaci anche questi. Fino a quando arrivo in fondo e, sempre dalla tastiera del Miserabile Scrittore, esce un’informazione di cui riporto solo uno stralcio:

Licio Gelli debutta in tv. Avrà un programma tutto suo […]. Un approdo singolare se si pensa che uno degli obiettivi principali della P2, almeno in base a quanto è stato accertato dalla magistratura, era il controllo o una presenza significativa nel mondo dei media. Così, se personalmente Licio Gelli, non è riuscito, se non in una fase breve della sua storia, in cui la P2 indirettamente controllava l’azionariato del Corriere, ora la tv prova a farla in prima persona.

All’inizio penso a uno scherzo, a un divertissement di Giuseppe per gettare zizzania o per stimolare qualche surreale dibattito. Ma è verosimile sparare in modo così blissettiano? Anche sì, ma già bastavano le sue salaci righe sulla fiction americana per sbizzarrire l’ironia dei suoi lettori. No, il debutto sul piccolo schermo di Gelli non è una battuta. E allora ripenso alle pagine di Gli anni del disonore, le metto mentalmente a confronto con gli atti della commissione sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, recupero memoria dei fatti in cui il leader massonico è rimasto coinvolto e mi chiedo come sia possibile. Scrive in proposito Maso Notarianni, direttore di Peace Reporter, nel suo Ma questo è un paese normale?:
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La storia di cinque anarchici del sud

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Cinque anarchici del SudQuella dei cinque anarchici della Baracca è oggi una storia forse quasi dimenticata. Se ne accenna qua e là quando si parla della stagione delle stragi e non si può fare a meno di parlarne in coda ai moti di Reggio Calabria, quando tra il 1970 e il 1971 la città esplose contro la decisione di fare di Catanzaro il capoluogo di regione. L’epilogo della vicenda di quei giovani anarchici si consumò il 26 settembre 1970: Nixon era in visita a Roma, si annunciavano manifestazioni di protesta e i cinque ragazzi stavano viaggiando in automobile alla volta della capitale.

Ma non andavano ai cortei contro il presidente statunitense: in base a quanto dissero prima di partire, avevano con loro un dossier che dimostrava le responsabilità degli estremistri di destra e della criminalità organizzata nell’attentato al Treno del Sole Palermo-Torino avvenuto poche settimane prima, il 22 luglio, che fece sei vittime e 54 feriti. Ma gli anarchici della Baracca a Roma non ci arrivarono: mancavano pochi minuti alle undici e mezza di sera che, a meno di sessanta chilometri dalla meta, la Mini Morris su cui erano venne coinvolta in un incidente. In tre morirono sul colpo, un quarto passeggero non sopravvisse nemmeno il tempo di arrivare al pronto soccorso mentre l’agonia dell’unica ragazza presente durò ventun giorni.

Il libro Cinque anarchici del Sud. Una storia negata di Fabio Cuzzola ricostruisce la storia di questi giovani, che si chiamavano Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, e lo fa con una delicatezza e una passione tangibili in ciascuna delle pagine del libro. Parte da un’esigenza, questo lavoro, resa efficacemente nella prefazione da Tonino Perna, che l’ambiente dell’anarchismo di quegli anni lo conosce bene perché ne faceva parte:
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Il gioco infame della Uno bianca

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Un gioco infameL’abilità di Massimo Polidoro nel rendere in chiave thriller storie realmente accadute era già stata dimostrata nel libro uscito un anno fa, Etica Criminale, incentrato sulla figura del bandito milanese Renato Vallanzasca e recentemente riedito in collana economica sempre da Piemme. Con Un gioco infame invece Massimo cambia ambientazione e dal capoluogo lombardo passa all’Emilia Romagna e alle Marche, regioni in cui tra il 1987 e il 1994 agirono i banditi della Uno bianca, cinque poliziotti e un carrozziere che fecero in quel lunghissimo periodo ventiquattro morti e centodue feriti. Ma c’è una cittadina che più precisamente si posiziona al centro della storia raccontata in questo romanzo (che tuttavia sarebbe più opportuno definire docufiction): è Rimini, uno dei centri caldi delle indagini che per anni videro alternarsi investigatori e indagini e da cui, raccontano gli atti processuali, partì la svolta che pose fine, nel novembre 1994, alla storia della banda della Uno bianca.

Quando si scrive un romanzo — o quando si rievocano fatti reali volendo narrarli con gli strumenti che la narrativa mette a disposizione — occorre scegliere un punto di osservazione. Che può essere di un personaggio fuori campo, ma che meglio rende se il personaggio in campo c’è. La scelta di Massimo di scartare i fratelli Savi e i loro complici è corretta: la barbarie e la gratuità che caratterizzarono la loro storia criminale non li rende adatti ai panni di un protagonista, anche se lo si volesse cattivo e nerissimo. Allora le voci narranti sono altre e sono quelle di coloro che si sono guadagnati il merito di aver sgominato la banda, l’ispettore Luciano Baglioni e vice sovrintendente Pietro Costanza coordinati dall’allora sostituto procuratore di Rimini Daniele Paci.
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