Propaganda bellica ai tempi della prima guerra mondiale: online i manifesti britannici dell’Imperial war museum

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1914-1918: recruiting posters

Il periodo è quello del primo conflitto mondiale e la nazione è la Gran Bretagna. Che cercava sudditi da arruolare nella Grande Guerra con una serie di manifesti che sono stati digitalizzati dall’Imperial war museum di Londra e radunati da Retronaut. In particolare passando per il ruolo delle più giovani tra le cittadine di Sua Maestà, la sollecitazione era: “Non provare pietà per una ragazza sola, il suo ragazzo probabilmente è un soldato che sta lottando per sé e per il suo Paese. E per te. Arruolati nell’esercito oggi stesso”.

“I muri di Belfast”: scatti dalle “peace lines” che dal 1969 rappresentano una tensione ancora esistente

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I muri di Belfast

I muri di Belfast è il titolo di una galleria fotografica con scatti di Cathal McNaughton pubblicata su Internazionale con questa presentazione:

Le peace lines sono una serie di barriere di separazione fatte di metallo, cemento o reticolati di filo spinato, dotate di cancelli sorvegliati dalla polizia che vengono chiusi di notte. La loro costruzione è cominciata nel 1969, dopo lo scoppio dei Troubles: i residenti di Short Strand, una parte cattolica di Belfast, per difendersi dagli attacchi dei lealisti alzarono dei muri che furono in seguito rinforzati e ai quali negli anni si sono aggiunti nuovi tratti di barriere. Oggi sono un’ottantina e hanno raggiunto i 21 chilometri di lunghezza, la maggior parte dei quali a Belfast.

Anche se negli anni sono diventati una sorta di attrazione turistica, questi muri testimoniano una tensione ancora esistente. Il 3 dicembre scorso, la decisione del consiglio comunale di Belfast di ammainare la bandiera britannica, e di esporla solo venti giorni all’anno, ha scatenato le manifestazioni della comunità protestante.

L’intera galleria è disponibile qui.

Il Fatto Quotidiano: Ustica 32 anni dopo, le verità mancanti della strage

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UsticaIl delitto è stato ricostruito, ma manca il colpevole. Se fosse un giallo, l’accertamento delle verità sulla strage di Ustica si potrebbe riassumere così: si sa infatti che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia inciampò in un’azione di guerra calda avendo la peggio e si sa che in volo c’erano altri 18 aerei. Ma a tutt’oggi non c’è una conferma ufficiale sulla nazionalità di quei mezzi e dunque manca uno Stato – per cui uno o più piloti – a cui imputare la colpa di aver ucciso 32 anni fa 81 cittadini italiani, tutti civili.

Le rogatorie: gli Stati non rispondono agli inquirenti italiani
. È lo schema, ormai via via sempre più classico, tale per cui alla verità storico-politica si riesce ad arrivare quasi completamente. Ma a quella giudiziaria – necessaria per colmare determinati vuoti, sanzionare condotte personali che hanno dato vita a un reato e garantire ai familiari le dovute tutele – manca spesso un pezzo. E nel caso di Ustica quel pezzo passa per le responsabilità degli Stati, Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio in primis.

A oggi tutte le nazioni interpellate per rogatoria non hanno risposto. Anzi, quasi tutte, dato che alla procura di Roma è giunto dal Belgio un segnale, ma negativo. Per il Paese che ospita a Mons il quartier generale delle potenze alleate in Europa, fornire informazioni alla magistratura italiana – o anche solo confermare quelle già in possesso – è fuor di discussione perché sono di “natura tale da pregiudicare gli interessi militari”.

Continua sul Fatto Quotidiano. Si veda anche il post Ustica, la verità cercatela a Roma di Toni De Marchi.

Fotografi, non terroristi. Una campagna in Gran Bretagna

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I'm a photographer, not a terroristAccade in Gran Bretagna (dove qualche tempo fa era nato il movimento Fit Watch di cui s’era parlato) che se qualcuno viene sorpreso con una macchina fotografica venga scambiato per un malintenzionato. In senso terroristico. Per seguire via via gli aggiornamenti si possono seguire gli account su Twitter o Facebook dove vengono pubblicati i fatti di questo genere. E ancor prima nasce la campagna I’m a photographer, not a terrorist per ribadire che nel limbo dei sospetti ci finiscono “amatori o professionisti”, senza distinzione tra chi “ritrae paesaggi, forme architettoniche o strade urbane”. Dunque:

[questa situazione] non solo corrode la libertà di stampa, ma spegne anche la creazione di una storia visiva collettiva del nostro paese attraverso norme anti-terrorismo create per proteggere un patrimonio che ci viene impedito di ritrarre. Questa campagna è destinata a chiunque abbia a cuore i simboli visivi, non solo ai fotografi, è portata avanti da una serie di singoli e non deve nulla a una singola organizzazione. Dobbiamo lavorare insieme per fermare [questa tendenza] prima che la fotografia diventi parte della storia invece rimanere un modo per registrarla.

Sul sito sono stati pubblicati molti autoritratti di coloro che sostengono la campagna (qui le istruzioni per inviare il proprio) e qui invece le grafiche con cui creare magliette o materiale a supporto.

(Via BoingBoing)