Pentiti di niente: eppure proprio la vittima l’aveva aiutato

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Carlo SaronioIntanto però siamo ancora nella prima metà degli anni Settanta, Fioroni in cambio della sua collaborazione schiva l’arresto e quindi si presenta spontaneamente al giudice istruttore Ciro De Vincenzo insieme al suo avvocato difensore, per rispondere della carta d’identità falsa intestata a Lorenzo Maggi, l’unico reato fino a quel momento contestatogli. Ma come già accaduto qualche mese prima quando viene sentito dal pubblico ministero Antonio Bevere, dice poco. Si limita ad aggiungere qualche particolare che però viene valutato “deviante e mendace”: in sostanza dice di avere solo incarichi contabili per Potere Operaio e che nel 1971 aveva sostenuto la linea di avvicinamento al gruppo del Manifesto di Luigi Pintor e Rossana Rossanda, ma una volta naufragato l’affratellamento si era allontanato sempre di più da POTOP fino all’esplicita dissidenza. Non sa però identificare chi gli ha fornito i documenti intestati a Lorenzo Maggi e la lettera per Osvaldo scritta da Saetta gliel’ha data una giovane extraparlamentare perché la consegnasse a un uomo che si sarebbe materializzato al momento opportuno. Infine non gli risulta che elementi di Potere Operaio abbiano avuto a che fare con Feltrinelli.

Basta così, è sufficiente. Carlo Fioroni se la cava un’altra volta e rimane a piede libero fino al 24 giugno 1974, quando viene convocato di nuovo per rispondere stavolta di associazione sovversiva. In questo frangente si proclama militante rivoluzionario e ammette di aver avuto nel 1971 contatti con un tale che si faceva chiamare Osvaldo, aggiungendo però di non aver mai saputo di chi si trattasse in realtà, se non dopo le notizie relative al traliccio di Segrate. Inoltre tra Fioroni e Feltrinelli pare – sempre secondo le sue parole – che si fosse creata subito un’intesa politica e che Osvaldo gli avesse proposto di occuparsi della creazione di strutture che potessero consentire una risposta militare alla minaccia fascista che, secondo l’editore, era ormai incombente e pronta a esplodere.

Questa, nella sostanza, la deposizione che Fioroni rende diventando in quel momento imputato a piede libero e rimanendo sostanzialmente indisturbato ancora per qualche mese. Lo stravagante limbo giudiziario in cui si trova dura infatti fino al 24 dicembre 1974 quando entrano in scena gli inquirenti torinesi Giancarlo Caselli e Luciano Violante, che stavano lavorando a un’istruttoria sulle Brigate Rosse mentre si stava istruendo il processo per il sequestro di Mario Sossi: il magistrato rappresentava la pubblica accusa al processo contro il Gruppo XXII Ottobre14 e venne rapito dalle Brigate Rosse a Genova il 18 aprile 1974 per essere rilasciato il 23 maggio successivo. L’accusa, con relativo ordine di cattura, per Fioroni in questo caso è di partecipazione a banda armata.

Perché Fioroni finisce nella rete dei giudici istruttori piemontesi? Il 9 novembre 1974 una donna, Anna Falletti, incrocia un’auto parcheggia a Milano che riconosce come quella che le è stata rubata il giorno precedente. Nonostante la targa cambiata – ora ne riporta una straniera – è certa che quella sia la sua: i graffi sulla carrozzeria sono per lei inconfondibili. A questo punto avverte la polizia e quando arriva la pattuglia, dato che l’auto è chiusa a chiave e non presenta segni di effrazione, gli agenti decidono che invece di aprirla è meglio attendere il possessore per fargli qualche domanda. Trascorrono alcune ore e nel tardo pomeriggio arriva un uomo, Giovanni Morin, che viene avvicinato dai militari: voglia fornire spiegazioni in merito al veicolo. Il giovane cade dalle nuvole, risponde che la vettura non è sua, gli è stata prestata da un’amica e fornisce le sue generalità: si tratta di Brunilde Pertramer, residente a Milano.

Avere l’autorizzazione per una perquisizione domiciliare è cosa rapida e dalla casa della donna saltano fuori una pistola calibro 6.75, relative munizioni e documenti di carattere politico simili a quelli rinvenuti nei covi delle BR. Per lei e per il marito, Oreste Strano, scattano gli arresti e dato che si sospetta a questo punto un collegamento con le Brigate Rosse meglio allora trasmettere tutto alla procura di Torino. Questo è solo l’inizio del “rapporto” giudiziario tra Strano e Fioroni: arrestato di nuovo il 21 dicembre 1979 insieme all’ex-esponente di Potere Operaio Francesco Tommei, finirà per essere una delle decine di persone coinvolte nel processo “7 aprile” costruito sulla base di teoremi giudiziari che si riveleranno non fondati e delle dichiarazioni del “pentito” Fioroni.

Torniamo però all’autunno 1974. Nei venti giorni successivi al suo arresto, Strano viene sentito più volte e solo il 26 novembre inizia con le prime ammissioni: quel materiale non è suo, gli era stato consegnato sei mesi prima e il suo unico compito era quello di conservarlo. A darglielo era stato un compagno, Paolo, il cui vero nome è Carlo Fioroni. Nello stesso giorno viene quindi disposta una perquisizione a casa di quest’ultimo e che venga portato a Torino per un confronto con Strano. Ma le ricerche di Fioroni non portano ad alcun esito e l’uomo rimarrà latitante fino al suo arresto in Svizzera, avvenuto il 16 maggio dell’anno successivo dopo il pagamento del riscatto per il rilascio di Carlo Saronio.

Questi fatti, che saranno ricostruiti nell’istruttoria e nei processi per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, inducono a escludere che Fioroni, descritto dalla difesa dei suoi presunti complici come un personaggio allo sbando, sia un emarginato: uno che riesce a rimanere latitante per due intervalli di tempo non così brevi – dall’aprile al novembre 1972 e dal 26 novembre 1974 al maggio dell’anno successivo – deve poter contare su una rete di sostegno. Una rete che, se non fosse stato per l’incidentale segnalazione della donna svizzera che lo vede con la valigetta piena di denaro e lo va a segnalare alla polizia comunale di Lugano, probabilmente avrebbe continuato ad aiutarlo. Emerge inoltre un altro particolare del periodo della sua latitanza: a nasconderlo non in uno, ma in due distinti – seppur brevi – periodi (una settimana all’inizio del febbraio 1974 e tre giorni nel marzo 1975) e a dargli un po’ di soldi (500mila lire in tutto), sarebbe stata proprio la sua vittima, Carlo Saronio, le cui simpatie per la sinistra extraparlamentare erano note, anche se sembrava, almeno fino a un certo punto, che si fosse sempre tenuto ai margini delle attività sovversive.

A contestare il ruolo marginale di Fioroni sul piano politico e nel sequestro ci aveva pensato anche il giudice D’Ambrosio in istruttoria: in base a quanto riesce a ricostruire, l’uomo deve dare conto delle attività di riciclaggio del riscatto – che generano una perdita, come avviene nei cambi effettuati a Lugano – altrimenti non si spiegherebbe perché conservare le ricevute di ciascuna operazione. “Se così è,” scrive D’Ambrosio, “vuol dire che il sequestro Saronio non è la conseguenza di un atto aberrante, ma di un piano preciso del gruppo politico di cui [Fioroni] faceva parte. A tal fine non è neppure senza significato che poco tempo prima del sequestro, per la prima volta nelle indagini sui gruppi eversivi di sinistra, fosse saltato fuori il nome di Saronio (riferimento agli appunti del documento Strano-Pertramer). Questa circostanza, infatti, rendeva l’ingegner Saronio inutile se non pericoloso per l’Organizzazione”. Perché non distruggere quelle ricevute, prova del sequestro? si chiede il magistrato e la domanda viene posta anche a Maria Cristina Cazzaniga. “Non so dare una spiegazione,” risponde, “forse era Fioroni che voleva tenerle per dimostrare che non era un agitatore”.

Se dunque Fioroni non viene ritenuto un emarginato, occorre escludere anche questa nuova ipotesi: che sia un agente provocatore. Non lo è, per gli inquirenti: se avesse avuto un ruolo del genere, non sarebbe inciampato nel controllo svizzero in modo tanto incauto e avrebbe fatto in modo di non essere presente alle attività di riciclaggio del denaro, abbandonando Franco Prampolini e Maria Cristina Cazzaniga al loro destino. Invece almeno in una prima fase sembra comportarsi proprio come un provocatore: per esempio quando il terzetto attraversa la frontiera tra l’Italia e la Svizzera, lo fa separatamente, Fioroni da solo e gli altri due insieme alla guida dell’auto targata Reggio Emilia su cui trasportano i 67 milioni da ripulire. Ma poi si fanno prendere tutti insieme una volta che si sono ricongiunti e l’ipotesi dell’agitatore sfuma. Rimane in piedi invece quella del personaggio che non è uno sprovveduto: addosso, al contrario dei criminali comuni che cadono uno dopo l’altro nelle mani degli inquirenti, non ha nemmeno una delle banconote segnate. Una volta entrato in Svizzera è stato rapidissimo nel cambiare il denaro, liberandosi così di ciò che potrebbe associarlo al sequestro. Se, come detto, il piano sfuma, è per un caso determinato da una leggerezza commessa quando Fioroni e i suoi complici politici sarebbero già stati completamente al sicuro: farsi vedere in pubblico con una borsa piena di contanti.

Nel frattempo proseguono le indagini a carico di Oreste Strano, indagini estese anche alla sua famiglia, e tra gli ulteriori documenti sequestrati dai carabinieri di Torino ne salta fuori uno particolare: è una lista di nomi e di recapiti di persone che potevano fornire un rifugio sicuro. In quell’elenco c’è anche Carlo Saronio. In proposito, la moglie di Strano, Brunilde Pertramer, dichiara che il ricco ingegnere milanese le era stato indicato nel giugno 1974 da Fioroni e lei, quando lo aveva annotato, aveva aggiunto a mo’ di nota che in caso di necessità occorreva “riferirsi al Paolo”, nome di copertura dello stesso Fioroni. E aggiungeva: “ha varie case – molto sicura – casa dell’alta borghesia – mandare compagni messi bene – torna fine settembre”. Perché anche l’annotazione temporale prima della quale nella casa di corso Venezia non si può andare? Saronio aveva appena trascorso un anno negli Stati Uniti: dopo aver vinto una borsa di studio, era partito nell’ottobre del ‘73 rientrando in Italia solo dodici mesi più tardi. Fioroni questo lo sapeva bene perché aveva trascorso con l'”amico” proprio i giorni immediatamente precedenti alla sua partenza.

Ma come avviene a un certo punto il cortocircuito tale per cui Fioroni conosce Carlo Casirati e tra i due si stabilisce una collaborazione malgrado l’estrazione così differente? Come già detto, l’uomo è un criminale comune che per un po’ ha flirtato con la banda di Francis Turatello e con i MAR di Carlo Fumagalli: è in quest’ambito che entra in contatto con una delle menti del gruppo, Gaetano Orlando, attraverso il quale avrebbe dovuto ricevere uno specifico addestramento militare e una somma di denaro. Ma aveva lasciato perdere, la politica non faceva per lui. Fioroni racconta di aver conosciuto Casirati perché aveva ricevuto un esplicito incarico da parte del gruppo a cui apparteneva, anche se non specifica esattamente di quale gruppo stia parlando: verificare la consistenza politica del criminale comune per ricondurlo eventualmente alla causa della sinistra extraparlamentare.

Avvenuti i primi incontri, in qualche modo Casirati l’esame lo deve passare, dato che alla fine di luglio ’74 lui e la sua compagna, Alice Carobbio, rimangono per qualche giorno a casa dell’affiliata a Fioroni, Maria Cristina Cazzaniga. La quale non si limita semplicemente a ospitarli, ma fornisce anche il nome e un documento di Antonio Angeloni, un redattore della rivista “Flash-Art”, dove lavora anche lei, perché il bandito possa usarli per fabbricarsi una carta d’identità falsa. E Casirati lo farà, dato che sarà proprio l’identità che fornirà all’agenzia immobiliare Meson per affittare un appartamento. A titolo di garanzia usa anche la professione dell’ignaro Angeloni: redattore presso quello stesso periodico.

Ma ulteriori dettagli sui rapporti tra i criminali comuni che stavano dietro a Carlo Casirati e i politici di Fioroni è argomento che non potrà essere approfondito più di tanto perché i diretti protagonisti, di fronte agli inquirenti, non aggiungeranno molto altro. Fioroni dal canto suo si limita a raccontare le sue verità più false che vere, a correggerle quando non a ribaltarle del tutto. Secondo quanto sostiene all’inizio, nel febbraio 1975 torna in Italia dopo la latitanza svizzera e per motivi politici va a trovare Casirati a Sesto San Giovanni. Rispetto a come lo ricordava si accorge con sorpresa che il pregiudicato ha a disposizione parecchi soldi. A suo giudizio troppi, per un comune, tanto che secondo lui non può che aver iniziato a svolgere lavoretti per Gaetano Orlando, forse fa il provocatore. Ma inventa, Fioroni, “formula supposizioni prive di fondamento” perché non può non sapere che i MAR e tutto il gruppo di Fumagalli sono stati disciolti già dal maggio 1974.

E se anche fosse stato vero che nutriva determinati sospetti, non si fa comunque molti problemi perché Casirati gli è simpatico e lo ascolta mentre questi si lagna: si sente strumentalizzato dai politici per le sue capacità di criminale comune e aspira a una maggiore autonomia per sé. Fioroni però continua a sostenere di aver continuato a sospettare che Casirati fosse un agitatore e per metterlo nuovamente alla prova gli commissiona documenti in bianco da falsificare. “E che problema c’è?” gli avrebbe risposto il comune, “te ne bastano 200 pezzi?”.

Ma poi non ne arriva neanche uno e Fioroni si deve arrangiare: a procurargli il passaporto intestato a Silvio Tassan Solet che gli verrà trovato al momento dell’arresto a Lugano è Maria Cristina Cazzaniga che lo ruba al vero Tassan Solet, un ignaro studente universitario mantovano che aveva affittato una stanza a casa della ragazza e che subisce grosso modo lo stesso trattamento riservato ad Antonio Angeloni, i cui documenti vanno a Carlo Casirati. Dopodiché Fioroni manda a quel paese il comune, che però non sembra aversene a male tanto che passano poche settimane e gli si presenta proponendogli un “esproprio proletario”: sequestrare Leopoldo Pirelli o Carlo Saronio.

Lascia stare, gli direbbe Fioroni che cerca di dissuaderlo per due motivi: il primo sarebbe di principio, dato che il gruppo a cui appartiene non ne vuole sapere di rapimenti; il secondo invece affettivo: Saronio è amico suo e non si deve neanche pronunciarlo quel nome. Tutto ciò sempre nel racconto di Fioroni che non corrisponde al reale accadimento dei fatti e che ritratta mentendo ancora: ora che ci pensa meglio, non è stato Casirati a parlagli dell’intenzione di far sparire un ricco borghese milanese, l’ha saputo per sentito dire da altre persone.

Ciò che accade quando Saronio scompare davvero, si sa. Ulteriori elementi per tracciare un quadro più dettagliato comprendono il litigio del luglio 1974 tra Casirati e Rossano Cochis. Quest’ultimo era l’ennesimo comune identificato come potenziale soggetto da convertire a fini politici: Cochis dirà poi che alcuni mesi dopo, quando già ha rifiutato l’offerta di Casirati di partecipare a un “grosso affare” (il sequestro Saronio), Fioroni e Casirati gli propongono di ricettare dell’argenteria di provenienza sicuramente illecita. In seguito salta fuori un appunto dell’ex-brigatista Pierluigi Zuffada che scrive: “Fioroni ha dato soldi per strutture a compagni emiliani (vicini a quelli di Argelato)”; in ultimo c’è la deposizione di Silvio Cavallo in base alla quale, tra il febbraio e il marzo 1975, Casirati aveva mantenuto contatti costanti sia con gli ambienti della malavita che con quelli del banditismo politico. Il che ha lasciato agli investigatori pochi dubbi sulla natura del “lavoro politico” che doveva essere svolto.