La ricerca e i falsi: alcune motivazioni alla base di un inganno

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Crystal Skull - Foto di Roberto CorraloUna delle chiavi basilari per fare ricerca – indipendente o accademica che sia – è quella di difendersi dai falsi. Per ogni disciplina esistono sistemi di contraffazione che possono – o vogliono – indurre in errore il ricercatore e altrettanti che possono tutelare dall’inganno. Brittany Jackson, studentessa di antropologia all’università di Chicagno, e Mark Rose, dell’Arizona Interschool Association, hanno di recente scritto per la rivista Archaeology Online un articolo in tema intitolato Bogus! An Introduction to Dubious Discoveries partendo con un’avvertenza a premessa: non esiste museo che non contenga al suo interno qualche oggetto o elemento ingannevole. Parola di Jane Walsh dello Smithsonian’s National Museum of Natural History.

E si fa qualche esempio, privilegiando il settore dell’archeologia. Dai teschi di cristallo, sbugiardati già a partire dal diciannovesimo secolo, all’uomo di Piltdown, una presunta specie di ominidi i cui scarni resti ossei vennero scoperti nel 1912 nell’East Sussex, in Gran Bretagna. Ma perché dedicarsi a un progetto che abbia come scopo il trarre in inganno la comunità scientifica? I due autori del saggio parlano in prima istanza di pubblicità e autopromozione. Dopodiché vengono motivi pecuniari, scherzi non meglio motivati o vendetta.
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Information Guerrilla: «Noi, guerriglieri dell’informazione»

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Information Guerrilla

Il pezzo che segue lo ha diffuso Roberto Vignoli ed è stato scritto da Roberto Laghi a proposito dei dossieraggi effettuati dalla coppia Pollari-Pompa ai danni di una serie di professionisti e organi d’informazione. Nel caso specifico, si tratta di Information Guerrilla. A latere – ma neanche più di tanto – risultano efficaci anche due articoli scritti da Giuseppe Genna per Carmilla: Le expertise di Luttwak e Luttwak, la voce del padrone. Buona lettura.

Dopo le rivelazioni del Fatto Quotidiano sull’attacco di Luttwak a Informationguerrilla [http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2415191&title=2415191], per chi volesse sapere qualcosa in più sul sito d’informazione alternativa da me curato dal 2002 al 2007, pubblico un articolo inedito (scritto per il numero zero di una rivista poi abortita) dell’amico e braccio destro “infoguerrigliero” Roberto Laghi. Dedicato a tutti i collaboratori e lettori di Information Guerrilla. Che, prima o poi, come la fenice, chissà che non risorga dalle sue ceneri.
rv

Noi, guerriglieri dell’informazione
di Roberto Laghi

Non si inizia mai da zero. Non si dà nessun post- senza alcun pre- (nonostante, come cantavano i CCCP, “qualcuno è post senza essere mai stato niente”). E poiché in questo spazio vogliamo parlare di informazione dal basso in rete, è necessario fare un passo indietro per dare conto dei suoi momenti importanti, fondativi. Raccontare lo scenario di oggi presuppone la conoscenza di ciò che era ieri, con la consapevolezza dell’evoluzione degli strumenti di comunicazione e partecipazione. Implica una riflessione sull’importanza della memoria – conoscenza di contesti e percorsi oltre che di fatti -, tensione personale che va a innestarsi su un tessuto civile collettivo in grado di mantenere il ricordo e di collegarlo al presente. Questo articolo parla di un sito, un importante punto di riferimento per la rete dal 2001 in avanti.
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Project Censored: 25 storie passate sotto silenzio sulla stampa tradizionale

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Project CensoredScrive Luca De Biase:

Project Censored ha censito le 25 storie che i grandi media hanno tralasciato, soprattutto in America, e che invece sono state seguite e sviluppate sui nuovi media. via Indyweek. Si tratta si storie, a quanto pare, controllate e verificate con attento metodo di ricerca. Si fa notare, in questo contesto, la questione della relazione tra lobby e allocazione degli aiuti statali Usa.

Da qui si può acquistare il libro che raccoglie le 25 storie individuate e scritte da Peter Philips e Mickey Huff mentre qui si dia un’occhiata alle modalità per sottoporre una vicenda di censura. Che la 35 edizione del progetto, partito nel 1976, è già in via di preparazione.

La videocrazia è roba loro e chi critica fuori da tv pubbliche e private

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Senza che nemmeno si sia concluso l’affaire RaiTre e TG3, un nuovo segnale giunge da Raiset. Scrivono infatti Giuseppe Giulietti e Vincenzo Vita a proposito di Videocracy, il trailer censurato dalla Rai:

Se ancora qualcuno coltivasse delle illusioni sulle reali intenzioni della destra a proposito della Rai, la censura imposta al trailer del film “Videocracy” è arrivata puntualmente a svelare il piano di normalizzazione in atto. Tutto quello che non piace a questo governo deve essere espulso dalle reti MediaRai, si tratti di un autore, di un soggetto sociale, di un trailer per un film che osa affrontare il tema della tv in Italia. Non sorprende che il rifiuto sia venuto da Mediaset che almeno risulta essere di diretta proprietà di Berlusconi, sorprende invece che la Rai per rifiutare il trailer abbia esplicitamente parlato di un messaggio politico contro il governo in carica.

In questi giorni il direttore Masi si è molto preoccupato di far sapere che non guarderà in faccia a nessuno e provvederà alle nomine di Rai3 e del Tg3,adesso è il momento che la Rai cominci a rassicurare i cittadini che non intendono essere oscurati o imbavagliati. L’associazione Articolo21 non intende accettare il regime della oscurità e dell’oscuramento e per queste ragioni ha deciso di dedicare l’apertura del sito al trailer cancellato. E ovviamente, è fondamentale che in questa sacrosanta battaglia di libertà si trovino insieme tutte le opposizioni.

Intanto, sul documentario censurato, che qualche nervosismo l’aveva stimolato già settimane addietro, si può vedere il trailer qui oppure andare sul sito del produttore, la svedese Atmo.

Teaching Copyright: mantenersi creativi senza subire intimidazioni

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Teaching CopyrightNon c’è bisogno di altre parole per presentare Teaching Copyright, iniziativa targata Electronic Frontier Foundation nata per spiegare a insegnanti e giovani cos’è il diritto d’autore (o, meglio, il copyright anglosassone) e come utilizzarlo per ampliare il proprio margine d’azione invece di farselo ridurre a suon di soperchierie:

La fuori c’è un sacco di disinformazione sui diritti e sulle responsabilità legali nell’era digitale. Questo è particolarmente sconcertante quando si tratta di informazioni condivise con i più giovani, bombardati a suon di messaggi provenienti da una miriade di fonti secondo cui l’utilizzo delle nuove tecnologie è un comportamento ad alto rischio. L’atto di scaricare musica è paragonato al furto di una bicicletta anche se sono molti i download legittimi. Realizzare video usando clip prese altrove viene stigmatizzato come probabilmente illegale, anche se molti di questi video sono messi a disposizione legalmente.

Questa malainformazione è dannosa perché scoraggia i ragazzini e gli adolescenti a seguire la loro naturale inclinazione a essere innovativi e curiosi. Gli innovatori, gli artisti e gli elettori di domani devono sapere che la legge sul diritto d’autore limita alcune attività, ma ne permette altre. E hanno bisogno di sapere che quali sono i percorsi virtuosi che li possono proteggere nella sfera digitale. In breve, i giovani non hanno bisogno di intimidazioni: ciò di cui hanno bisogno è di un’informazione solida e accurata.

Tematiche, queste, applicabili anche ad altri ambiti. Restando in quello trattato, è già nutrita la sezione delle risorse.

Evangelisti: paranoia in Messico. Una storia di maiali e bufale

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Addio porco su CarmillaQuesta “non è una bufala, ma una porcata”. È la conclusione del testo Paranoia in Messico. Una storia di maiali e bufale di Valerio Evangelisti pubblicato su Carmilla. Scritto, peraltro, dalla nazione che secondo i media sarebbe al centro dell’epidemia che minaccia tutto il mondo, dove si trova ora Valerio. Che fa una serie di considerazioni tra l’ironico e l’indignato per comprendere quanto vuota sia l’attuale emergenza. Per esempio, si veda quanto inutili siano alcuni provvedimenti del governo:

In tutto il paese sono chiusi da tre giorni i siti archeologici, i musei, i cinema e i teatri, le scuole e le università, molti uffici pubblici, molti complessi industriali. A Città del Messico un sindaco ambizioso, Marcelo Ebrard, in perenne competizione con il presidente del distretto e con il governatore dello stato, ha voluto mostrarsi più papista del papa: così ha ordinato la chiusura completa di bar, ristoranti, discoteche e locali notturni, visti quali potenziali luoghi di assembramento e di propagazione dell’influenza suina. Peccato che si sia scordato di chiudere anche la metropolitana, dove ogni giorno si ammassano cinque milioni di viaggiatori e che è certamente più affollata di un ristorante.

Sempre su Carmilla si dia un occhio anche al post precedente, Addio porco, di Alessandra Daniele.

Pandemie, i numeri e il prospetto della storia

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Dato che si torna a parlare di pandemie (e concordo con il commento di Alfonso Fuggetta a proposito del verbo dilagare), Neatorama coglie la palla al balzo e se ne esce con un post sui cinque peggiori contagi della storia. Si parte dalla febbre tifoide del 430 AC del Peloponneso, durante la guerra che contrappose Sparta e Atene, per arrivare alla spagnola del 1918. Giusto per far parlare i numeri e ridimensionare le emergenze strillate a ogni pie’ sospinto. Sempre in tema sui fatti di questi giorni si legga anche un lungo reportage di Fabrizio Lorusso su Peacereporter.

Nicotri: il 7 aprile, i teoremi e i pseudoracconti in tempi di affarismo

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Spettacolare post di Pino Nicotri sul blog Arruotalibera. Il testo si intitola 7 aprile 1979, la lezione è ancora valida: troppo spesso il giornalismo è servile, specie quando mancano gli editori puri e abbondano invece quelli affaristi e sostanzialmente suggerisce un’evoluzione – o una nuova età – della strategia della tensione attraverso l’uso dei media. Se in questo post il processo 7 aprile è predominante non solo per questioni di anniversari (domani saranno trascorsi esattamente trent’anni), ma anche perché il giornalista ci venne tirato dentro con l’accusa di essere il telefonista delle Brigate Rosse (“confondendolo” però con Valerio Morucci), Nicotri fa anche altri esempi: quello raccontato in modo ottimo in questo libro (peraltro finito ieri: aiuta a ben comprendere quelle che sono state balle e omissioni spacciate in tutti questi anni sul caso di Emanuela Orlandi) ma anche ciò che si legge ogni giorno sui giornali, emergenze varie comprese. O, aggiungerei, la non verifica della veridicità di determinati allarmi, per i quali ci si accontenta delle denunce penali e degli epiteti istituzionali (salvo poi, in caso di disastro ricredersi o far finta di nulla). Infine racconta anche un’epoca straordinaria in cui, se un giornalista veniva accusato di reati pur gravissimi, trovava la solidarietà di (almeno) alcuni degli editori suoi committenti che scendevano in campo per primi. Ha ragione Nicotri, oggi sarebbe impensabile.

E in chiusura alcuni passaggi del post uscito su Arruotalibera

Ma veniamo ora al vero problema, che si ripete sempre: il caso 7 aprile fu in realtà un sequestro e un processo di massa a mezzo stampa. A tenere gli imputati in galera era il baccano dei mass media, che avvaloravano man mano le balle più colossali rifilate dagli inquirenti che non sapevano più come tenere in piedi una montatura tanto mostruosa quanto vacua […]. Il giornalismo pessimo, però, non quello degno del nome […].

Appena quattro anni dopo il 7 aprile ’79, lo stesso uso vergognoso dei mass media è dilagato alla grande con il caso della scomparsa della cittadina vaticana Emanuele Orlandi, che ancora oggi, a 25 anni di distanza, si insiste a dire sia stato un rapimento, quando invece perfino il giudice Severino Santiapichi, lo stesso che a Roma ha presieduto il collegio giudicante del caso 7 aprile e poi anche del caso Moro, ha dichiarato a più riprese che si è tratto di un “rapimento mediatico”: cioè di balle rifilate ai mass media e da questi ingordamente avvalorate per nascondere i veri motivi della scomparsa della ragazza. Motivi che nulla hanno di politico, ma molto devono avere a che vedere con gli obbrobbri del Vaticano se dobbiamo giudicare dalla ostinata e documentatissima volontà della “Santa Sede” di tacere e sabotare l’inchiesta dei magistrati italiani. Il culmine dell’uso violento e politicamente finalizzato dei mass media è stato senza dubbio l’invasione dell’Iraq, avvenuta grazie alla campagna di stampa a base di panzane sulle “bombe atomiche” e altre armi di distruzione di massa […].

La strategia e l’uso del capro espiatorio è vecchia più del cucco, ma ha sempre funzionato. La gestione del potere costituito e di quello arrembante per perpetuarsi, per poter fare e giustificare le guerre, ha bisogno di costruire società percorse dalla paura e dalle paure. Che portano immancabilmente alla costruzione del capro espiatorio di turno, per scoprire solo dopo che si trattava di un nemico è fasullo.

La commissione europea e quegli spioni dei giornalisti

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Ora il rischio spionistico, riporta Peacereporter, sarebbe costituito dai giornalisti, secondo la commissione europea. Si legge infatti che:

L’associazione internazionale dei giornalisti a Bruxelles, l’Api, ha protestato ufficialmente con quanto contenuto nella nota interna della Commissione. Lorenzo Consoli, presidente dell’Api, ha dichiarato che: “I giornalisti hanno il dovere di cercare le informazioni, anche quelle più sensibili e confidenziali”. Il portavoce della Commissione europea Johannes Latenberger ha replicato all’associazione della stampa internazionale affermando che: “L’essenza della professione giornalistica è cercare informazioni. Non è questo il problema. Il problema riguardo l’obbligo dei funzionari della Commissione di difendere informazioni confidenziali”. Latenberger ha inoltre sottolineato che la Commissione, diversamente da quanto fanno altre istituzioni pubbliche, “consente a tutti i funzionari di parlare con i giornalisti, purché mantengano il rispetto richiesto per le informazioni sensibili”.

De mortuis: oltre le cronache massificate

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C’è chi dice che il cordoglio pubblico sia fuori luogo, anche se il defunto è un porporato. Nei giorni scorsi il nunzio apostolico Pio Laghi è stato salutato come il “cardinale della pace” di “preclare virtù”, ma sono stati in pochi ad aver ricordato invece un passato tutt’altro che luminoso vissuto in America Latina, quando giocava a tennis con i gerarchi della dittatura argentina. Tra questi pochi, ecco alcuni articoli che ne ricostruiscono al figura. Il più completo è De mortuis… scritto da Vania Lucia Gaito, autrice del libro Viaggio nel silenzio (Chiarelettere, 2008) e dell’omonimo blog. Rispetto alla fanfara funebre letta nei giorni scorsi:

Diversamente lo ricordano le Madres de Plaza de Mayo, le donne argentine madri, mogli e sorelle dei 30.000 desaparecidos durante la dittatura militare che terrorizzò l’Argentina dal 1974 al 1980. In quel periodo, monsignor Laghi era già Nunzio Apostolico in Argentina. E giocava a tennis con Emilio Massera, all’epoca a capo della Marina militare argentina, di cui era intimo amico. Il 19 maggio 1997 le Madri, con il patrocinio legale di Sergio Schoklender, presentarono denuncia alle autorità italiane contro Pio Laghi, che, come è scritto nella stessa denuncia, «collaborò attivamente con i membri sanguinari della dittatura militare e portò avanti personalmente una campagna volta ad occultare tanto verso l’interno quanto verso l’esterno del Paese l’orrore, la morte e la distruzione. Monsignor Pio Laghi lavorò attivamente smentendo le innumerevoli denunce dei familiari delle vittime del terrorismo di Stato e i rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani».

Altri due interventi in questo senso sono quelli di Paolo Maccioni su Megachip e di Stefano Morciano su Giornalettismo.com. A leggere questi interventi, da un punto di vista concettuale sembra un caso non molto diverso dalle foto di guerra ritoccate.