Nel corso del dibattimento, emergono con maggiore chiarezza diversi dettagli. Innanzitutto che Alice Carobbio non solo avrebbe avuto la lista dei rivenditori milanesi di divise militari, ma che sarebbe stata lei ad adattare le due indossate la notte del sequestro. Lei però si difende: non sa cucire nemmeno un bottone e poi le divise non le aveva neanche mai viste, stavano in una valigia che le era stata consegnata da Fioroni. Chiusa. Compito suo era di custodirla e di restituirla quando le fosse stata richiesta indietro.
Gli elementi più drammatici emergono dagli esami effettuati sulle spoglie che Casirati fa ritrovare con le dichiarazioni che rende il 24 novembre 1978. Che Carlo Saronio, mai ricomparso dopo il pagamento del riscatto, fosse morto era considerato abbastanza certo. Ora si avrà la conferma di ciò che è accaduto. Innanzitutto si accerta attraverso verifiche odontoiatriche che quei resti appartengono proprio all’ingegnere milanese e sul cranio non viene trovato alcun segno di trauma né alcun foro di proiettile. Il che non esclude per forza che il giovane sia stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco: il proiettile avrebbe potuto essere trattenuto dalle masse muscolari senza intaccare le strutture ossee e poi andare perduto a causa del disfacimento post mortem quando il cadavere viene spostato da Casirati dopo l’arresto di Fioroni.
Ma è improbabile soprattutto a fronte di un dato: dall’analisi dei tessuti cerebrali emerge un quantitativo abbondante di toluolo, sostanza usata come solvente per resine, grassi, oli, vernici, colle o coloranti e anche per aumentare gli ottani della benzina. Inoltre i suoi vapori, altamente tossici, hanno un effetto narcotico molto specifico: bloccano la respirazione. Ed è proprio così che sarebbe morto Carlo Saronio: non stordito e ucciso accidentalmente dal cloroformio, come sostenuto in un primo tempo, ma soffocato a causa di una prolungata pressione del tampone forse imbevuto di uno smacchiatore esercitata con troppo vigore e per troppo tempo.
A individuare la sostanza da usare – racconta Fioroni – si arriva qualche giorno prima del sequestro. E qui mente di nuovo. Dice infatti di venire a sapere che Casirati sta cercando di ottenere ricette mediche per l’acquisto di potenti narcotici usati nei reparti di psichiatria su pazienti con esplosioni di violenza. Capito dove voleva andare a parare il comune, inizia un doppio gioco: finge di prestarsi alle imprese criminali di Casirati per proteggere l’amico e arrivare al nome di tutti i banditi coinvolti, primo tra tutti Giustino De Vuono. In questo modo viene a sapere che dopo il rapimento l’ingegnere è stato portato in una villa di Sanremo e che sta bene.
Ciò che in dibattimento si stabilisce è però altro. Infatti sarebbe stato lo stesso Fioroni a suggerire ai suoi complici le modalità per stordire la vittima: che non usino il cloroformio, pericoloso nel caso Saronio soffra di una qualche cardiopatia o di un’insufficienza respiratoria (anche se non gli risulta), meglio optare per un altro tranquillante, magari il Valium o il Largactil, da somministrare per via endovenosa. Ma l’iniezione, da fare poi con mano esperta per essere sicuri di centrare la vena, viene ritenuta uno strumento non praticabile e dunque alla fine si opta per uno smacchiatore che il toluolo lo contiene (seppur chi lo acquista non se ne avvede e nemmeno ne conosce i rischi) e per il tampone da premere su naso e bocca.
Un compromesso che non sarebbe comunque finalizzato a uccidere, ma solo a stordire. Insomma, per dirla più semplicemente, i banditi prendono in considerazione e sono consapevoli che Saronio può morire nel caso si ribelli e loro lo debbano sedare, ma cercano – per quanto in modo rozzo e inutile – di evitare che accada. Del resto se l’ostaggio fosse deceduto, per loro sarebbe stato un problema: non avrebbero più avuto in mano niente per arrivare allo scambio. Però poi quando l’inevitabile accade, eccoli pronti a reagire: fatto sparire il corpo, Casirati e Fioroni trovano le informazioni per rassicurare la madre di Saronio, anche se devono “accontentarsi” di una cifra molto più esigua rispetto a quanto chiesto inizialmente.
Sulla base di queste considerazioni uno dei capi di imputazione cambia e da omicidio volontario si passa a omicidio preterintenzionale perché non volevano uccidere, ma l’hanno fatto, e l’accusa non grava solo su chi ha materialmente agito, ma su tutti coloro che hanno organizzato il sequestro. Ma esattamente chi sono queste persone in mezzo a una banda di cui fanno più o meno parte molte persone con ruoli eterogenei? Fioroni sì, fa parte del gruppo organizzatore, anche se aveva dichiarato prima di aver intuito che dietro il sequestro c’era Casirati e di essersi fatto coinvolgere a rapimento avvenuto per proteggere l’amico e in seguito punire i rapitori. Poi ritratta, dice di aver confessato reati che non ha commesso perché se ne sentiva moralmente responsabile, ma gli indizi a suo carico finiscono per inchiodarlo.
Altro organizzatore viene ritenuto Casirati, che ci prova a ritagliarsi un ruolo defilato in questo crimine, ruolo che però non regge: parla con De Vuono dei profitti generati da un sequestro di persona, delle modalità operative, del travestimento per avvicinare la vittima senza allarmarla e del fatto che lui non lo fa mica per politica di cui – dice – non capisce nulla. Dal punto di vista operativo, poi, racconta di essere stato acquattato in una traversa di piazza Aspromonte mentre i falsi carabinieri agganciano Saronio e di essersi limitato a prendere l’auto dell’ingegnere e di averla riportata in corso Venezia, sotto casa Saronio dove poi verrà ritrovata, portandosi via le chiavi. Ma – aggiunge per alleggerire ulteriormente la sua posizione – mica era da solo.
Il resto di quanto afferma spazia anche nell’infamia nei confronti della vittima: era frustrato a causa del controllo a cui era sottoposto da parte della famiglia e magari se l’è organizzato da solo il sequestro per finanziare la “causa”. Lui però non lo sa – insiste – perché è solo una comparsa. E se questa storia è finita male la colpa è tutta di Fioroni perché gli ha affiancato degli incapaci e altrettanto incapace si è dimostrato lui nel riciclare il denaro. Infine quando gli si chiede come abbia fatto a sapere dove era stato sepolto l’ingegnere, risponde che gliel’ha detto il politico, Fioroni.
Ma nel corso del processo emerge una figura ben diversa di Casirati: la figura di un protagonista. È lui infatti che ingaggia Silvio Cavallo con il compito di trovare le divise da carabiniere, che a un certo punto si dice provengano dall’unione militare di Torino, ed è sempre lui che prima pensa di coinvolgere i bergamaschi ma poi, quando questi si tirano indietro, contatta De Vuono perché subentrino i calabresi. Da lui inoltre Rossano Cochis si vede avanzare l’offerta di partecipare a un “grosso colpo”, che riceve da Fioroni prima le informazioni sulla possibile vittima e a morte avvenuta le notizie da spacciare alla famiglia come prova della sopravvivenza dell’ostaggio. Inoltre arrivano da Casirati i 180 milioni affidati a Puccia e a Manfrini perché li riciclino, è lui che indica il luogo in cui il cadavere è stato sepolto ed è quella di sua madre la Simca che viene notata nella cava di Cernusco sul Naviglio il 4 maggio 1975, quando il primo pagamento del riscatto va a vuoto.
E in merito a quest’ultimo elemento la difesa ribatte che l’auto, sì, c’era, ma che era stata prestata a Fioroni quella sera, mentre Casirati era alla festa di compleanno di un amico. La sentenza sottolineerà però l’implausibilità dell’affermazione: se la Simca accompagna Casirati e la sua compagna Alice Carobbio in tutti i loro spostamenti tra ristoranti, pizzerie e scorribande notturne senza mai cederla a nessuno, a non convincere è proprio l’ipotesi che Casirati la dia a Fioroni in un momento delicato come il pagamento del riscatto, permettendo che vada da solo all’appuntamento con gli emissari della famiglia.
Chi lascia nel sequestro un’impronta profonda è “lo scotennato”, Giustino De Vuono. Capo dei calabresi che sostituiscono i bergamaschi nel rapimento, tiene i contatti con i familiari e ancora prima tra gli organizzatori. Inoltre ci sono altri elementi che lo collegano al reato: innanzitutto la perizia fonica sulla sua voce disposta per capire se è lui o meno l’anonimo telefonista lo indica come tale; inoltre il suo intercalare – soprattutto la parola “diciamo” – sembra inchiodarlo; e poi gli emissari dei Saronio, Armando Damaschi e Alessandro Tonolli, lo riconoscono prima attraverso una fotografia e poi tramite un confronto diretto come la persona che compare al Bis Bar appena prima di ricevere indicazioni telefoniche per la consegna del riscatto. Infine va a completare il quadro indiziario la collocazione della cabina, che si trova in via Beato Angelico, da cui parte una chiamata dei rapitori: questa cabina è molto vicina all’abitazione che “lo scotennato” prende in affitto sotto falso nome.
A riscatto pagato, poi, De Vuono viene trovato con banconote segnate. “Da dove vengono?” gli chiederà Maria Chiara Ciurra che ne riceve una parte e che vedrà il calabrese pagare sempre con pezzi di grosso taglio. E per tutta risposta si prenderà un ceffone in piena faccia. Fino al 6 giugno 1975, quando viene arrestato, De Vuono si lascia andare a spese che fino a poco prima non si sarebbe potuto permettere: per giustificarle, di fronte al pubblico ministero e al giudice istruttore, usa l’arma dell’arroganza invece che della spiegazione.
Per quanto riguarda invece Alice Carobbio e la sua partecipazione al sequestro, sono due per lei i momenti di non ritorno: l’adattamento delle divise da carabinieri e la consegna del denaro a Fioroni. Per quanto riguarda il primo elemento, ci sono molteplici testimonianze da parte di componenti del clan che parlano della presenza di falsi militari, a iniziare dalla deposizione del 23 novembre 1978 di Carlo Casirati che conferma quanto già il 22 dicembre 1975 aveva detto Fioroni. Il reperimento delle uniformi era stato affidato a Silvio Cavallo: un compito non semplice e che, una volta evaso, avrebbe richiesto interventi ulteriori. Le divise infatti erano state in seguito affidate ad Alice Carobbio perché le adattasse e anche se lei ribatte di nuovo che l’ago in mano non lo sa neanche tenere, arriva la testimonianza di una zia, Maria Rossi, che attesta che fino al maggio 1974 aveva lavorato come camiciaia in una piccola azienda del milanese.
La donna, interrogata in sede dibattimentale subito dopo il suo compagno, ammette ancora una volta di aver davvero incontrato Fioroni a Treviglio per dargli la valigia con le uniformi, ma ribadisce che non sapeva cosa contenesse perché chiusa con un lucchetto.
Luigi Marro e Brunello Puccia forniscono ulteriori conferme: sì, Saronio venne prelevato da due individui che indossavano divise militari. Che Casirati ne parli con Puccia non desta sorpresa: i due sono amici, “colleghi” ed ex-compagni di prigione. Inoltre, Puccia è un confidente delle forze dell’ordine: dunque, per mantenere i privilegi che questo ruolo gli riserva, non può permettersi di mentire. Tanto che non lo fa nemmeno quando rivela alcuni dettagli sull’occultamento del cadavere di Saronio: Casirati infatti avrebbe fatto in modo di depistare la ricerca effettuata da unità cinofile cospargendo il cadavere del sequestrato con del pepe. La circostanza viene confermata dal ritrovamento di due barattoli vuoti lasciati nella fossa in cui Saronio viene seppellito.
La testimonianza di Marro viene poi considerata di particolare valore. Amico di Alice Carobbio fin dall’adolescenza, tra la fine 1974 e l’inizio del 1975 conosce tramite lei Carlo Casirati. Questi gli confida di essere in contatto con le Brigate Rosse che lo riforniscono di armi, ma poi per qualche mese i due si perdono di vista fino all’aprile 1975. Riallacciano i rapporti solo in seguito, quando i due si incontrano a Parigi dove Casirati vive sotto il falso nome di Giovanni Longoni. Marro, altro personaggio introdotto nel mondo della mala milanese che per campare fa anche l’informatore per le forze dell’ordine, confida alla polizia il luogo in cui Casirati si è rifugiato e le motivazioni dell’espatrio: il sequestro Saronio. E aggiunge qualche particolare sul rapimento così come gliele ha raccontate Fioroni: i finti carabinieri non erano due, ma almeno tre o quattro, e la destinazione verso cui parte il commando non è Sanremo, ma Sesto San Giovanni.
È durante questo tratto che Saronio muore a causa del tampone – gli dice questa volta Casirati – che Gennaro Piardi gli ha premuto sul volto con eccessiva enfasi, facendo uscire di senno il comune al punto che prima gli spara un colpo di pistola che va a vuoto e poi lo punisce decurtandogli la percentuale del riscatto che gli spetta. Casirati per sé si sarebbe tenuto a questo punto 187 milioni dei 470 estorti alla famiglia. La sua amica Alice conferma tutto quanto.
Alice Carobbio, si diceva, che non agisce solo perché è la donna del boss e vuole proteggerlo, ma perché è parte attiva nei piani della banda: è lei, oltre i suoi interventi di sartoria, a distribuire i proventi del sequestro a Fioroni ed è sempre lei che trova il posto dove nascondere la valigia con il denaro: l’appartamento di una parente che, in vista del matrimonio, stava facendo ristrutturare l’abitazione. Qui il denaro rimane fino al 12 maggio 1975, tre giorni dopo il pagamento. Insomma, a inchiodare la donna, gli elementi sono molteplici: è presente nel momento in cui Fioroni indica a Casirati Carlo Saronio perché si stampi ben in mente il suo volto, con il riscatto paga una parte della banda ed è in possesso di una quota del bottino a titolo di pagamento per i suoi interventi che va ad aggiungersi alla quota spettante a Casirati. Anche per lei, dunque, c’è concorso nell’omicidio dell’ingegnere.
In merito alla posizione di Gennaro Piardi, in un primo momento sembra meno grave di quella degli altri: oltre alla gita all’estero che fa dopo la vacanza in Sardegna e sul lago Maggiore, non pensa di scappare definitivamente dopo l’arresto di Carlo Fioroni. Che Casirati lo faccia, lo sorprende poco: pregiudicato e latitante dopo l’evasione da San Vittore, ha contatti diretti con Fioroni, va in giro a reclutare complici parlando del “colpo grosso” a Silvio Cavallo, Rossano Cochis, Giustino De Vuono e allo stesso Gennaro Piardi, sa che la Simca 1000 di sua madre è stata vista alla cava di Cernusco sul Naviglio il 4 maggio e ha con sé 160 milioni del riscatto ancora da riciclare.
Piardi invece è tranquillo: Fioroni non lo conosce e non ha nulla da temere. Tanto che quando una notte viene fermato dalla polizia perché è in auto insieme a Cochis e a Bizzantini, invece di fuggire e attirare su di sé l’attenzione, si lascia condurre remissivo in questura per accertamenti. Non ha nemmeno bisogno di declinare false generalità negli hotel che frequenta, almeno fino a quando non viene a sapere, mentre è in Sardegna, che un maresciallo di pubblica sicurezza, Ferdinando Oscuri, vuole interrogarlo a proposito del sequestro Saronio. A questo punto assume prima l’identità di Guido Faccioni, che non ha documenti con sé ma per il quale garantisce Giovanni Mapelli, e si fa chiamare poi Francesco Berruti, questa volta con passaporto e pistola. Sarà solo a questo punto che Piardi avrà preso la decisione di scappare: non solo infatti c’è chi lo ascrive alla banda che ha rapito Saronio, ma viene indicato come chi materialmente ha premuto il tampone di smacchiatore sul volto dell’ingegnere, uccidendolo.
- 1. Valerio Evangelisti: i pentiti di niente e i demoni moderni
- 2. Milano, 14 aprile 1975, l’ingegnere è stato rapito
- 3. E subito si giunse ai primi sospetti
- 4. Lugano, 16 maggio 1975: una valigia piena di denaro
- 5. Giugno 1975: le indagini si estendono
- 6. Milano, 22 dicembre 1975: una prima versione
- 7. Primavera 1976: nuovi arresti e le prime conferme sulla morte di Saronio
- 8. Malavitosi in vacanza tra giri di appartamenti, denaro e auto
- 9. Lo strano compagno che girava con una vecchia Glisenti scarica
- 10. “Caro Osvaldo, tu resisti proponendoci i tuoi schemini militari”
- 11. Eppure proprio la vittima l’aveva aiutato
- 12. Il compagno Saronio, la vittima sacrificale e sacrificabile
- 13. Chi va a processo e chi no
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