A quindici anni denti e unghie non uccidono. O non dovrebbero uccidere

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Domani di Maurizio ChiericiIl delitto di Avetrana, su questo giornale, lo consideravamo capitolo chiuso. Ma in redazione, discutendo degli argomenti da trattare, non si è potuto fare altro rilevare un fatto: quella vicenda, da reale qual è, è stata trasformata in un feuilleton in cui tutti hanno parola – presunti assassini ed altrettanto presunti esperti in primis – tranne lei, la vittima. Sarah Scazzi è diventata un feticcio, pretesto dimenticato per dare il via a un «giallo» che prosegue a suon di confessioni, ritrattazioni, profferte, forse anche di intimidazioni.

Invece qui il cadavere non è partorito della mente di uno scrittore. Quel cadavere apparteneva a una ragazzina che, in un giorno d’estate, esce di casa per andare al mare e invece va a morire assassinata poche centinaia di metri più in là. Non sono i cento passi di Peppino Impastato. In questa storia del resto non c’è l’ombra diretta della mafia che si mangia le vite di giovani e giovanissimi. C’è la modestia della profondissima provincia, una specie di Alabama d’Italia sul quale la criminalità di certo ha il suo influsso. Seppur indiretto. Vuoi perché non c’è lavoro, perché le famiglie sono ancora spaccate tra i maschi al nord a faticare e le femmine a casa, ad arrangiare la quotidianità. Vuoi perché la fuga, quando non si vuole cedere a un futuro già passato sulla scia delle vite dei propri genitori, rimane l’unica alternativa.

È all’interno di questa premessa che vanno calati gli ultimi minuti di Sarah Scazzi. E che vanno calati anche i suoi pensieri. Pensieri da cui, forse, passa ancora il ricordo del litigio della sera prima. Si vende per due coccole, si è sentita dire. Deve averlo intuito il significato di quell’affermazione, magari interpretandolo più come l’atteggiamento del cane che la segue sempre, anche lungo quel breve tratto di strada. Pur essendole rimasto l’amaro in bocca, da un punto di vista razionale non deve aver realizzato fino in fondo di essersi presa della puttanella, quella che per darla via non chiede soldi o qualche regalino, ma affetto. E se anche fosse arrivata abbastanza vicino a quel pensiero da stanarlo a sufficienza e comprenderlo appieno, lei non si sente così perché quello che la comprerebbe per due coccole non è il primo che passa, ma è lui, quello che magari la ama. O la amerà. Lei, per intanto, si è già portata avanti nutrendo la sua cotta adolescenziale di tutte le emozioni di prassi, quelle necessarie – e onnipresenti – in qualsiasi innamoramento da “Tempo delle mele”.

Ma Sarah probabilmente neanche l’aveva sentito mai nominare “Il tempo delle mele”. Il titolo originale del film francese datato 1980 era “Le boum”, la festa. Anzi, la festicciola, per lo più pomeridiana, a casa di qualche compagno di scuola o in discoteca, dove il dopo pranzo delle domeniche invernali si riempiva di giovanissimi avventori in cerca di musica, ma soprattutto del sapore di un bacio. Quasi non importasse chi lo avrebbe dato a chi, quel bacio. La pellicola con Sophie Marceau protagonista fu un’immancabile visione per le ragazzine degli anni Ottanta, dall’inizio alla fine del decennio. Quelle immagini non invecchiavano mai. Tutte le adolescenti di allora aspettavano un Mathiew, il ragazzo del primo bisou à la française, quello con la lingua, per intenderci. Ma ancora di più aspettavano Pierre Cosso, Philippe nel sequel del film. Occhi azzurri, biondo o giù di lì, sguardo tra il timido e il tormentato, era la rappresentazione dell’amore a quindici anni.

Un amore fatto di travolgente passione. Una passione che fa frizzare il naso per l’intensità dei moti interiori e che provoca inquietudine per il misterioso mondo del sesso, dentro cui a volte ci si è già avventurate, ma che più spesso non è andato oltre una mano maschile – di un coetaneo – che scende sotto i vestiti o sotto l’ombelico, ma che viene fermata. Perché la prima volta è la prima volta e i racconti di esperienze deludenti (a volte anche fisicamente dolorose) e del sangue della deflorazione nelle mutandine circolano tra le amiche. Vai a sapere però quanta fiducia va riposta in quelle parole. Vai a sapere quanto ti condizioneranno nel giaciglio provvisorio di quell’esperienza, quasi mai consumata in un letto, tra rassicuranti lenzuola e lontana dal timore di un voyeur, quando non di un vero e proprio maniaco, che trasforma in volgarità quell’atto d’amore assoluto.

La passione di quelle prime avventure amorose però frizza anche di gelosie e tradimenti. La cui fonte, per lo più, arriva dall’ambiente che si frequenta quotidianamente, quando gli spostamenti fisici autonomi sono ancora una chimera perché si deve rientrare a casa prima che faccia buio e solo d’estate la mamma concede qualche deroga. A ingelosire o a essere ingelosita, a tradire o a subire il tradimento, è la compagna di banco, la sorella o la cugina. Oppure l’amica della compagnia, il gruppo di ragazzi, sempre gli stessi, che si ritrova nel bar del paese. Tutto questo, a quindici anni, non è nient’altro che una prova generale dell’amore adulto, dei vincoli – matrimoniali o meno – da danneggiare con meschinità a volte neanche volute o cercate. E che talvolta sfociano in tragedie personali o familiari, come nel caso di Marina Patriti, la donna di Torino che di anni ne aveva 44 quando è scomparsa il 18 febbraio scorso per ricomparire in questi giorni, cementata – e dunque precedentemente assassinata – nel giardino dell’ex amante del marito.

Tornando a Sarah, alla sua adolescenza e all’adolescenza di molte ragazzine, a quindici anni si è un po’ come dei cuccioli di tigre o di gazzella. Si gioca a inseguire o a fuggire, predatrici o prede che interpretano un ruolo. Denti e unghie che metaforicamente affondano nella carne, ma che non uccidono, in genere. Sono ferite, altrettanto in genere, dell’anima, che si impara a gestire guardando la tivvù, tra soap opera, reality show e carrambate di lettere che si aprono e si chiudono di fronte a lacrime che sputtanano l’intimità – ma ancor prima la dignità – dell’essere umano. Addio a Emily Bronte e ai suoi ottocenteschi Catherine e Heathcliff, sulle cui cime tempestose la luce si è spenta da tempo. E addio anche a Liala, che cadenzò l’educazione sentimentale di donne non così diverse da quelle che sembravano uscite dalle ambientazioni neorealiste di Vasco Pratolini, dove l’amore arrivava presto, fluido e impetuoso. Arrivava su un’Italia devastata dalle bombe e dalla dittatura, e si doveva rapportare, crescendo, con la fabbrica, il ghiaccio d’inverno, la canna della bicicletta per le prime scampagnate a due o per andare a partorire.

Le ferite dell’anima di Sarah, quel graffio provocato dall’allusione alla sua propensione a vendersi per due coccole, andavano coperte dal costume da bagno sopra forme non ancora complete. Sotto quelle ferite andava steso un asciugamano da spiaggia, in un pomeriggio di fine agosto, in attesa che il sole le cicatrizzasse più in fretta. O forse che le riaprisse e che le affondasse ancora di più se lui fosse comparso e se lei non avesse saputo arginare la sua sete di carezze. Oppure, più semplicemente, quel pomeriggio di fine estate sarebbe dovuto servire a placare le gelosie dell’adolescenza perché risate, una coca cola, magari qualche sigaretta fumata di nascosto, a volte innescano quella guarigione che, più avanti con l’età, solo gli anni, quando non i decenni, possono favorire.

E allora ecco i calzoncini e la canottiera che scendono sopra il bikini. Ecco le infradito ai piedi, lo zainetto con lo stretto necessario per una gita al mare organizzata all’ultimo momento. Ecco le cuffiette nelle orecchie per ascoltare Avril Lavigne che canta in una lingua quasi sconosciuta. Perché l’importante sono le vibrazioni delle note più che la parole. A volte. Oppure, come scandisce Ligabue in quel disco appena uscito, «chi non è morto è già più forte». E allora «quando canterai la tua canzone, la rabbia, l’innocenza e l’illusione, ti toccherà cantare l’emozione che non sa nessuno».

Forse canticchiava davvero Sarah, mentre raggiungeva la cugina, a casa sua, aspettando quel pomeriggio riparatore su una spiaggia del profondo sud. Il pensiero della morte non la sfiorava e nemmeno la sfiorava l’idea di infilarsi nella tana della tigre, lei così vicina alla natura della gazzella, della preda. E quando una corda, forse una cintura bianca di canapa, le ha mozzato il respiro, lo choc dell’agguato non le avrà nemmeno lasciato il tempo di chiedersi com’era finita in quella situazione da cui non sarebbe più uscita.

(Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Domani diretta da Maurizio Chierici)

One thought on “A quindici anni denti e unghie non uccidono. O non dovrebbero uccidere

  1. loredana

    veramente bello e toccante!!!!!!!!!!!queste emozioni dovrebbero essere il pane quotidiano, in questo mondo sempre più materialista, è necessario rieducarci a vicenda forse già mettendo al primo posto il rispetto!!!! il rispetto per tutte le forme viventi siano persone, animali, piante, acque, insomma tutte le forme viventi, come si dice “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” se metteremo l’amore, il rispetto, la slidarietà la comprensione davanti al nostro io all’egoismo quotidiano faremo della nostra vita e della vita degli altri qualcosa che renderà e ci renderà liberi!!!!!!1

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