L’istituto vaticano, dunque, sembra proiettato verso un futuro che annulli – o quanto meno riduca – le malversazioni per le quali i suoi conti hanno fatto molto parlare. Malversazioni che, lungi dall’essere state punite, non sono state neanche mai del tutto chiarite. La banca vaticana nacque nel 1942 per farsi carico dei possedimenti terreni di pochi clienti d’élite e per questo chiedeva loro opere di carità. Che la carità non fosse però proprio uno stile di vita condiviso da tutti era emerso già nella seconda metà degli anni Settanta, quando intercorrevano i primi abboccamenti tra Santa Sede e governo italiano per il rinnovo del concordato nel 1929, siglato il 18 febbraio 1984.
In quel periodo, un gruppo di cronisti dell’Europeo, capitanato da Paolo Ojetti e sotto la direzione di Gianluigi Melega, «inciampò» negli estratti catastali di molti palazzi romani, concentrati soprattutto nel centro della capitale e nelle zone più prosperose delle periferie collinari. Scavando, si arrivò a stabilire che uno su quattro di quegli edifici era o era stato di proprietà del Vaticano e che le attività di compravendita avevano generato guadagni e plusvalenze mai toccate dal fisco.
Lo scandalo che ne seguì fu notevole, considerando poi che si era lavorato su una sola città, Roma, per quanto conosciuta come la città delle 1265 chiese. Da oltre Tevere si accusarono direttore e giornalisti di condurre una battaglia contro la religione cattolica e il clero. E sebbene tutto ciò che era stato scritto fosse dimostrabile, Melega lasciò il suo posto alla direzione del mensile di casa Rizzoli, nel frattempo sotto l’arrembaggio di Licio Gelli, Umberto Ortolani e Bruno Tassan Din, che volevano il Corriere della Sera. Ma ciò che emerse dalle pagine del periodico milanese sarebbe stata la punta dell’icerberg.
Un iceberg di cui si intuirono le dimensioni solo dopo il 21 giugno 1982, quando il ministro del tesoro Beniamino Andreatta sciolse gli organi amministrativi del Banco Ambrosiano su proposta del governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, e il 6 agosto successivo, quando l’istituto di Calvi venne messo in liquidazione. Qualche avvisaglia era giunta già dopo l’ispezione di Palazzo Kock del 1978: Giulio Padalino, capo della vigilanza di via Nazionale 91, aveva lanciato un monito da non sottovalutare a proposito degli affari portati avanti attraverso operazioni e società estere da Roberto Calvi e da monsignor Paul Marcinkus, morto nel suo letto di Sun City (Arizona) il 20 febbraio 2006.
Affari che sono passati, appunto, per la gestione dei soldi della mafia, il finanziamento a Solidarność, il sostegno alle dittature sudamericane e l’arricchimento personale, oltre che dalle ostilità tra il vescovo americano di origine lituana e Giovanni Paolo I, papa Albino Luciani, che voleva ristrutturare le gerarchie vaticane ma che morì troppo presto, il 28 settembre 1978, trentatré giorni dopo essere salito al soglio pontificio.
I livelli finali di esposizione del Banco Ambrosiano raccontano di debiti da milleduecento miliardi di lire dei quali Calvi cercava di rientrare minacciando lo IOR (il banchiere avrebbe atteso, per la fine del giugno 1982, almeno 300 milioni di dollari da parte dell’istituto vaticano). E a bancarotta dichiarata, si cercò una specie di pax finale che dovesse chiudere (e lo fece) il discorso su debiti, lettere di patronage che confermavano la proprietà di otto offshore da parte del Vaticano e altre lettere di manleva, con cui Calvi sollevava da responsabilità la banca della Santa Sede.
Negli anni successivi lo Ior, promosso Marcinkus per tentare di marginalizzarlo e costituita una commissione mista italo-vaticana, sborsò 240 milioni di dollari a livello di «contributo volontario». Una cifra messa insieme con l’aiuto dei banchieri dell’Opus Dei, organizzazione che ne trarrà qualche vantaggio, come lo status di prelatura personale del papa, anche se poi Giovanni Paolo II dovette indire nel 1983 un anno santo straordinario per far convergere sulle casse vaticane un po’ di denaro.
Paul Marcinkus, entrato già da tempo sotto l’ala protettiva di Giovanni Paolo II, che nel 1981 lo aveva nominato arcivescovo e pro-presidente della pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano, venne indagato dalla magistratura italiana per concorso in bancarotta fraudolenta, ma le accuse – e l’ordine di arresto – rimbalzarono sulle mura leonina in forza dell’articolo 11 dei Patti lateranensi. E saranno liquidate come «accuse infamanti senza fondamento» le dichiarazioni degli ultimi anni in merito al coinvolgimento del vescovo americano nel rapimento di Emanuela Orlandi. In proposito, padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, il 24 giugno 2006 si affidò al bollettino vaticano per esprimere «vivo rammarico e biasimo per modi di informazione più debitori al sensazionalismo che alle esigenze della serietà e dell’etica professionale».
Allora, in base alle «esigenze della serietà e dell’etica» pastorale che ci si attenderebbe da uomini di religione, sarebbe arrivato il momento di fare piena luce su fatti che ancora attendono di essere chiariti. Ne scrisse lo stesso Roberto Calvi nelle sue ultime settimane di vita, quando agiva alla disperata per salvare il suo impero. Salvarlo anche a costo di ricorrere al ricatto. «Se domani il santissimo non mi paga gli ottanta milioni di dollari per le fatture che ho pagato per la Polonia, lo faccio saltare […]. Non so a cosa voleva alludere con quelle parole, ma so che le disse e le disse a me personalmente, presente l’avvocato Umberto Ortolani […]. Minacciava di rivelare quello che aveva fatto», dirà lo stesso Licio Gelli, come riporta Francesco De Rosa nel libro incentrato sulla figura del capo della P2.
Ciò che invece scrisse Calvi di suo pugno proviene da alcune delle lettere che saltarono fuori il primo giorno dell’aprile 1986, nel corso della trasmissione Spot di Enzo Biagi. In studio, oltre al conduttore, c’erano il senatore Giorgio Pisanò e Flavio Carboni e l’onorevole, già membro della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, aveva con sé una borsa nera, una Valextra a soffietto, che si diceva fosse appartenuta alla vittima. Si lasciava dunque intendere che fosse la stessa borsa scomparsa insieme al suo contenuto, quella cui si era data la caccia fin dal giorno dell’omicidio e di cui Carboni parlava dall’agosto 1984, quando, appena scarcerato, contattò la famiglia Calvi dicendo di possedere materiale del defunto banchiere.
L’imprenditore sardo ne aveva parlato anche al giornalista Roberto Cantore di Panorama sul finire di quell’anno e la storia della borsa fu al centro di un procedimento separato per il tentativo di ricettare i documenti di Calvi e di venderli al Vaticano. Gli imputati erano lo stesso Carboni, il vescovo cecoslovacco Pavel Hnilica e Giulio Lena. I quali, condannati in primo grado, nell’ottobre 2005 furono assolti dalla Cassazione (Hnilica era stato prosciolto già in precedenza) perché non sarebbe emersa «alcuna certezza sul prelievo, sul percorso e sul trasferimento della borsa e del suo prezioso carico, da Calvi agli imputati».
- 1. Prefazione di Paolo Bolognesi
- 2. “E rimasero impuniti – Dal delitto Calvi ai nodi irrisolti di due Repubbliche”
- 3. Sotto il ponte un corpo con i piedi immersi nell’acqua del Tamigi
- 4. Il finto suicidio del padre del pentito e l’omicidio dell’antiquario trafficante
- 5. La scomparsa di Jeanette May e quei resti ritrovati in montagna
- 6. La rapina al Knightsbridge, i documenti di Calvi e la carriera criminale di Valerio Viccei
- 7. Da Casillo e Baby Doll a Giorgio Di Nunzio, tra camorra, P2 e Vaticano
- 8. Molinari, il commissario di Tenco che amava Gladio
- 9. Trasparenza sul futuro e foschia sul passato
- 10. I benefattori di Solidarnosc e l’almeno annunciata glasnost vaticana
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