Con la fine del processo di primo grado, la sentenza diventa definitiva per una parte degli imputati nel caso Saronio che, condannati per alcuni reati marginali, non ricorrono in secondo grado e beneficiano di una recente amnistia. Sono Franco Prampolini, Maria Cristina Cazzaniga, Ugo Felice, Luigi Carnevali, Rossano Cochis, Domenico Papagni e Pietro Cosmai. Ad appellarsi sono invece coloro che si vedono riconosciuti colpevoli dei reati più gravi: Carlo Fioroni, Giustino De Vuono, Carlo Casirati, Alice Carobbio, Gennaro Piardi, Brunello Puccia, Maria Santa Cometti, Gioele Bongiovanni, Enrico Merlo, Giovanni Mapelli, Maria Chiara Ciurra e Alberto Monfrini.
Il processo di secondo grado per il sequestro e l’omicidio dell’ingegnere milanese si apre con giudizi tranchant in particolare sull’atteggiamento dei politici della banda:
La miserevole fine di Carlo Saronio è stato l’epilogo fisiologico della teorizzazione perversa del cosiddetto ‘esproprio proletario’, escogitato per autofinanziamento dei gruppi eversivi, ma necessariamente modellato sulla operatività della criminalità comune.
I militanti che vi prendono parte vengono definiti “unti del Signore, unici depositari di verità e giustizia” in forza di una “presunzione” che si trasforma in “jattanza” quando passano dalle parole ai fatti. La condanna – se (come si vedrà) non tanto sul piano giudiziario quanto su quello morale – sembra senza appello.
L’identità dello Stato-Popolo viene scissa e negata […] e tutti coloro che per lo Stato lavorano vengono ritenuti non servitori del Popolo, ma servi del male nel quale lo Stato si incarna e vive, essi stessi in definitiva amministratori del male. Di qui la missione – autoconferita – di distruggere lo Stato, ma con la consapevolezza di non poter distruggere l’astrazione. Perciò le armi vengono mirate alle persone e alle cose che dello Stato sono l’espressione fisica tradizionale […] in un cortocircuito mistificato ove la reazione delle vittime diviene provocazione che legittima ogni rappresaglia, fino a imporre lo status di guerra civile.
Per arrivare alla formulazione di un giudizio, la vicenda viene ripercorsa dall’inizio e si riparte fin dal primo interrogatorio di Carlo Fioroni dopo l’estradizione dalla Svizzera in Italia a fine ’75, le sue parole vengono ritenute “ulteriore dimostrazione della tempestività e della versatilità nell’ammannire racconti menzogneri”. Fioroni sembra voler giocare con il giudice istruttore, Gerardo D’Ambrosio, sfidarlo e batterlo sul piano dialettico, accettando di parlare più per il gusto di un braccio di ferro verbale che per la reale volontà di raccontare ciò che è accaduto a Carlo Saronio.
Pur affermando di voler collaborare e dissociarsi, dice poco, non si scopre, vuole apparire più logico e lucido del magistrato e premette che per determinate domande si avvarrà della facoltà di non rispondere per tutelare il gruppo politico a cui appartiene. E per la prima volta viene fuori un nome dal suono misterioso, ma che tornerà a più riprese nel corso degli anni successivi quando imperverserà la bufera “7 aprile”: Fioroni parla infatti di una fantomatica “Organizzazione”.
Rispetto al primo processo, i giudici hanno infatti in mano un memoriale che Carlo Fioroni scrive nel carcere di Matera e che consegna il 3 dicembre 1979. In queste pagine il detenuto esordisce dicendo di aver deciso “finalmente […] di offrire piena collaborazione alla giustizia rivelando la verità sulla sua attività di militante occulto prima di Potere Operaio poi di Autonomia Organizzata, nonché sulle vicende del sequestro e della morte di Carlo Saronio”. È a questo punto che si crea il collegamento con un’altra indagine, la “7 aprile”: un consigliere designato dalla corte d’appello viene infatti inviato a Roma per prendere visione del procedimento protocollato con il numero 1067 a carico di Antonio Negri e altri e con un’ordinanza datata 4 marzo 1981 ne venivano acquisite le parti ritenute più interessanti. Quali sono questi documenti che sono accolti con favore perché rompono “finalmente i dannosi compartimenti stagni fra istruzioni parallele”?
Sono le dichiarazioni che Fioroni rende il 3 dicembre 1979 e poi ancora il 4 gennaio 1980, quelle di Casirati rilasciate tra il 28 dicembre ’79 e il 12 gennaio successivo e ulteriori precisazioni ancora di Fioroni che risalgono al 14 gennaio di quello stesso anno e che dovrebbero puntualizzare alcune ammissioni del criminale comune. Il quale interviene di nuovo pochi giorni dopo sulla scia delle parole del complice.
Nel momento in cui Carlo Fioroni dichiara la propria dissociazione dalla lotta armata e si dice disposto a pentirsi rivelando nuove (e stavolta “vere”, dice) verità, occorre fare un salto indietro di un decennio. Siamo nel 1970 e dal 9 all’11 gennaio si tiene a Firenze il convegno costitutivo di Potere Operaio in cui vengono presentate posizioni divergenti – anche se sul momento non generano fratture insanabili, l’emorragia di militanti verrà in seguito – tra chi sostiene la natura spontaneista del gruppo (soprattutto il gruppo veneto-emiliano) e chi invece auspica una svolta che porti alla creazione di un partito vero e proprio. Una nuova realtà che deve rimanere all’esterno della compagine parlamentare ponendosi a capo delle rivendicazioni operaie non più sufficientemente rappresentate – si ritiene – dai sindacati né tanto meno dal Partito Comunista Italiano già impantanato su posizioni moderate che contribuiranno a traghettarlo verso il compromesso storico.
Il resto di quell’anno prosegue tra il consolidamento della corrente che vuole il partito, i fatti di Reggio Calabria27 e un’estate trascorsa tra attivismo politico e scanzonatezza vacanziera in attesa di un settembre in cui si tenteranno impossibili manovre di avvicinamento al Manifesto. Ma in questo periodo c’è anche un’altra trasformazione che caratterizza almeno a parole Potere Operaio: l’accettazione della violenza e delle molotov come alternativa alla dialettica politica. È a questo punto infatti che si crea un’altra spaccatura interna: una spaccatura che vede schierati da un lato coloro che sostengono ancora la linea operaista e chi invece aspira a una svolta insurrezionalista.
Con la terza conferenza nazionale di organizzazione di Potere Operaio, che ha luogo a Roma dal 24 al 26 settembre 1971 al Palazzo dei Congressi dell’Eur, è ufficiale ormai che si sta andando verso la creazione di un nuovo partito. Davanti a un migliaio di partecipanti, non veri e propri delegati ma semplici tesserati, riuniti in cinquantasette sezioni e 108 cellule, vengono presentati i tre cardini attorno a cui il dibattito si svilupperà: livelli e strumenti di organizzazione, programmazione delle scadenze di lotta e appropriazione e insurrezione. Gli occhi degli uffici politici delle questure iniziano a puntarsi sempre più spesso su Potere Operaio e mentre c’è chi decide di andarsene perché non aveva alcuna intenzione di ritrovarsi in un contesto militarizzato, la maggioranza sembra orientata invece in senso opposto.
Questo congresso di fatto spacca POTOP, lo allontana dalle istanze proletarie e inizia la rincorsa a realtà quantitativamente più nutrite (ma dal punto di vista ideologico disprezzate) come Lotta Continua. Nasce in questo contesto il livello di Lavoro Illegale, si parla di armarsi e si affida a Valerio Morucci l’organizzazione dell’apparato militare che lo porterà a conoscere Giangiacomo Feltrinelli e a meditare il suo passaggio ai GAP alla vigilia della morte dell’editore.
Dal punto di vista dei vertici – Negri, Scalzone e Piperno – permangono comunque pesanti dubbi sulla creazione di un esercito vero e proprio, come dichiarato da Saetta-Piperno nella lettera a Osvaldo-Feltrinelli. Anche se poi sul numero 45 del settimanale “Potere Operaio del Lunedì”, in prima pagina, compare nel dicembre 1971 l’articolo “Democrazia è il fucile in spalla agli operai”. Qui si legge che:
Le linee difensive, i fronti democratici non servono ai proletari. Le conquiste operaie di questi anni si difendono solo se il movimento è capace di rilanciare l’offensiva, e di conquistare il terreno della lotta insurrezionale. Nella fase attuale – nella crisi capitalistica – compito di un’organizzazione comunista rivoluzionaria è spingere il movimento verso questo sbocco insurrezionale. L’unico modo per il proletariato di occuparsi degli affari dello Stato è la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico. L’unico modo rivoluzionario di fare politica è la lotta contro lo Stato.
Di qui al futuro prossimo avvengono tre fatti che cambiano il corso degli eventi: l’organizzazione della manifestazione del 12 dicembre 1971, le sommosse dell’11 marzo 1972 e il 14 marzo di quello stesso anno la morte di Giangiacomo Feltrinelli sul traliccio di Segrate. Ne seguono, per ognuno di questi fatti, blitz, arresti e indagini, come visto in precedenza.
È a questo punto che si innesta un episodio che per certi versi ricorda ciò che tenterà di fare anche Carlo Fioroni e che viene ricordato come il “memoriale Pisetta”. Marco Pisetta, latitante e sedicente rivoluzionario di estrema sinistra originario di Trento, tra il 1969 e il 1970 è sicuramente un infiltrato della polizia e il 17 dicembre 1969, cinque giorni dopo la strage di piazza Fontana, fa sapere tramite Antonino Fabbri che la bomba alla Banca Nazionale è opera di Feltrinelli. Non viene creduto e l’indirizzo che le indagini hanno preso è verso la falsa pista anarchica e Pietro Valpreda. Nella primavera del 1972, poi, Pisetta viene fermato mentre sta entrando nel covo milanese delle BR di via Boiardo 33: in quest’occasione rilascia dichiarazioni che non saranno verbalizzate e viene rimesso in libertà sulla parola promettendo ulteriori rivelazioni.
Ma ovviamente scompare per ricomparire a Trento a fine giugno di quello stesso anno ospite di un tenente colonnello dei carabinieri e di un ufficiale del SID (Servizio Informazioni Difesa) di stanza a Verona. Il pubblico ministero Guido Viola va in Trentino per interrogare Pisetta insieme al commissario Allegra che aveva avviato contatti con lui dopo il fermo di Milano. Ma i due militari che proteggono l’uomo lo fanno sparire “al fine di sottrarlo alla curiosità di altri organi di polizia”. Potrà essere sentito a casa del tenente colonnello dell’Arma solo in qualità di testimone e non di indiziato grazie a un accordo con il SID solo tra il 27 e il 28 giugno, ma cosa dica ancora una volta non si sa.
Poi fa perdere di nuovo le sue tracce e riappare epistolarmente quando invia alla procura della Repubblica di Milano, al presidente della Repubblica e all’ufficiale che lo protegge un memoriale scritto forse in Austria: è la sua “verità” sulle attività eversive dell’estrema sinistra, dei GAP e delle Brigate Rosse. Il memoriale fa scattare gli arresti per decine di persone che poi verranno quasi tutte prosciolte in istruttoria o assolte durante i processi. I documenti prodotti da Pisetta vengono svestiti di qualsiasi credibilità mentre la corte d’assise d’appello di Milano dimostra che il memoriale è roba prodotta dal SID e che Pisetta, presentato come “pentito”, era invece sul libro paga dei servizi. A cottimo (o a tassametro, come si scriverà negli atti giudiziari che parlano del suo caso). Veniva cioè pagato in base alla quantità e all’attendibilità delle sue invenzioni.
Di fatto anche chi si vedrà incriminato dal memoriale del falso pentito Pisetta dovrà sopportare un lungo percorso giudiziario: l’assoluzione con formula piena degli ultimi indagati arriva solo il 9 maggio 1981 con la sentenza n.33/81. Ma quando parte il processo d’appello per il caso Saronio, già orientato pesantemente verso ipotetiche responsabilità di ex-appartenenti a Potere Operaio, si torna su questi eventi. “I servizi segreti avevano in pratica, con l’utilizzazione inquinante del Pisetta, incautamente concorso a creare questa realtà [consentire l’irrobustimento di Potere Operaio, N.d.B.]: e si tenga presente che la stessa ‘utilizzazione’ di Pisetta era stata concentrata tutta sul settore dell’estrema sinistra rappresentata da Lotta Continua e dai GAP di Feltrinelli finiti con lui stesso, mentre nulla Pisetta sapeva – o non lo sapevano i suoi ispiratori – sulle iniziative politico-militari di Potere Operaio. Anzi gli erano del tutto sconosciuti Negri e Fioroni”.
- 1. Valerio Evangelisti: i pentiti di niente e i demoni moderni
- 2. Milano, 14 aprile 1975, l’ingegnere è stato rapito
- 3. E subito si giunse ai primi sospetti
- 4. Lugano, 16 maggio 1975: una valigia piena di denaro
- 5. Giugno 1975: le indagini si estendono
- 6. Milano, 22 dicembre 1975: una prima versione
- 7. Primavera 1976: nuovi arresti e le prime conferme sulla morte di Saronio
- 8. Malavitosi in vacanza tra giri di appartamenti, denaro e auto
- 9. Lo strano compagno che girava con una vecchia Glisenti scarica
- 10. “Caro Osvaldo, tu resisti proponendoci i tuoi schemini militari”
- 11. Eppure proprio la vittima l’aveva aiutato
- 12. Il compagno Saronio, la vittima sacrificale e sacrificabile
- 13. Chi va a processo e chi no
- 14. Un mosaico che si va componendo
- 15. Tra versioni opposte e l’inutile carta dell’infermità mentale
- 16. “Nessuna angoscia morale, ma freddo, lucido e bieco calcolo”
- 17. Reggio Emilia, 12 giugno 1975, l’omicidio di Alceste Campanile