Ventura, dal Veneto ordinovista all’Argentina passando per gli anni di piombo

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Milo Manara racconta piazza Fontana

Giovanni Ventura, nome che ha segnato in modo pesante gli anni della strategia della tensione (piazza Fontana, ma non solo), è morto lunedì scorso, per quanto la notizia sia circolata con un po’ di ritardo e con qualche imprecisione. Di seguito vengono pubblicati alcuni passaggi su di lui contenuti nel libro Attentato imminente, scritto con Simona Mammano sul commissario Pasquale Juliano. Passaggi che tracciano un profilo dell’ex ordinovista.

Franco Freda, insieme a un libraio-editore di Treviso, Giovanni Ventura, verrà ritenuto responsabile in via definitiva dell’attentato del 15 aprile 1969 al rettorato di Padova. E Giovanni Ventura è quel personaggio che si fa passare per militante della sinistra, ma che diventa – e resterà per lungo tempo – una sorta di alter ego del «doktor» Freda: laddove c’è l’uno si nomina l’altro, quando l’uno si fa venire in testa un’idea l’altro si dà da fare per realizzarla. È una specie di spalla, Ventura, che all’inizio gioca con gli specchi parandosi in parte dietro a simpatie insospettabili e in parte dietro al sostegno che la sua famiglia – e la madre in particolare – non lesina alla Democrazia cristiana e a Tina Alselmi nello specifico.

Nato il 2 novembre 1944 da una famiglia di modeste origini, figlio del podestà di Piombino Dese (Padova) che dopo la Liberazione deve prendere la famiglia e riparare in una villa di campagna per sfuggire alle ritorsioni degli antifascisti, Giovanni Ventura vive la seconda parte dell’infanzia e la giovinezza a Castelfranco Veneto. Primo di quattro fratelli […], fa fatica a integrarsi e in città viene ricordato come un musone, uno il cui carattere ben si adatta alla sua data di nascita, il giorno dei morti. Ne fugge appena può e si mette a fare l’editore mirando in alto, ispirato da Giangiacomo Feltrinelli.

A metà degli anni Sessanta fonda il gruppo di Reazione, ma deve abbandonare velocemente le nostalgie repubblichine per stare dietro al superamento dei retaggi mussoliniani di Freda. Così estende il suo raggio di amicizie e allaccia rapporti con personaggi singolari come il conte Piero Loredan da Venegazzù, un ristoratore che va in giro con un falcone al motto di «I lupi nella foresta, le pecore nell’ombra, i vermi sottoterra» e usa una calibro 9 a mo’ di fermacarte, ma poi se la batte in Sudamerica quando il clima si fa teso. O come Guido Giannettini, che, incontrato nel periodo della sua permanenza romana, gli farà frequentare – o così a Ventura sembra – il jet set di politica, forze armate e intelligence.

Ma poi quando l’editore che voleva diventare come Feltrinelli ha un problema, sa che può tornare a casa. Così, quando si trova per le mani una partita d’armi che è meglio far sparire, si rivolge al fratello che a cascata muove socialisti – o sedicenti tali – come Franco Comacchio o l’ingegnere elettronico Giancarlo Marchesin. Ma intanto, prima di prendere la via per l’eversione nazionale e ‘inciampare’ nel 1972 nelle indagini milanesi di Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini, va scandagliato più nel dettaglio l’ambiente padovano […].

Il gruppo di Freda e Ventura ruota intorno a una libreria, la Ezzelino di Padova, un mezzo fallimento dal punto di vista economico, ma funzionale da un altro punto di vista: qui infatti si incontrano anche altri sodali dei neofascisti, come Aldo Trinco, Ivano Toniolo, Gianni Casalini, Marco Balzarini e Gustavo Bocchini Padiglione, la cui presenza sarà accertata da dichiarazioni incrociate rilasciate nel corso del tempo. Inoltre, in un’ottica ben navigata di irretimento dell’estrema sinistra attraverso una retorica di ispirazione maoista, da quei locali passano anche personaggi di sinistra […].

Giovanni Ventura […] continua a sembrare, nel corso della storia giudiziaria che lo riguarda, più come un’utile spalla. Attraverso gli introiti della piccola attività editoriale di cui è titolare, dà una mano a Freda a diffondere la sua impostazione ideologica e le sue linee operative per quanto riguarda gli attentati terroristici, alla cui organizzazione partecipa in prima persona. [Ma contribuisce a fare di Padova] una centrale del terrore […]. Una centrale non isolata, non autoreferenziale, ben inserita in una rete che comprende il capoluogo veneto e la sua provincia estendendosi a est fino a Trieste e Udine e a ovest fino a Verona per spingersi, insieme ai veneziani, sino a Milano dove si tesseranno relazioni con il gruppo “La Fenice” di Giancarlo Rognoni, Nico Azzi, Piero Battiston, Mauro Marzorati e Francesco De Min.

[Nella primavera del 1969] sono due anni e mezzo che questa rete funziona, dall’inizio del novembre 1966, quando a Mestre si celebra la fondazione di Ordine Nuovo del Triveneto, presente l’ispiratore e artefice del centro studi ON, il giornalista romano Pino Rauti. È lo stesso periodo in cui Freda e Ventura si fanno conoscere per aver tentato di istigare alla rivolta ufficiali delle forze armate. Se Freda racconterà in seguito che subito dopo questo evento lui e i suoi si allontanano da ON per i contrasti nati con Maggi e i veneziani per riavvicinarsi solo nel marzo 1970, con il rientro degli ordinovisti nel MSI, dal processo celebrato davanti alla Corte d’Assise di Milano emergeranno invece prove dell’esistenza di rapporti fra i gruppi anche tra il 1968 e il 1969.

A rigor di logica già sarebbe difficile credere al fatto che, nel raggio di una cinquantina di chilometri, operino due organizzazioni criminali di stampo nazi-fascista con finalità eversive senza che nessuna abbia a che fare con l’altra [tentativo che in sede giudiziaria, ma non solo, si tenterà di avallare]. Se così fosse, Freda non sarebbe stato invitato a fine ‘69 a un convegno ordinovista dai dirigenti dell’organizzazione stessa. Inoltre nei mesi precedenti, tra l’inverno e la primavera di quell’anno, si tengono cicli di conferenze organizzate da ON, dal MSI o dal FUAN (di cui Massimiliano Fachini è presidente a Padova) e da altre formazioni di destra.

Nel veneziano si tengono presentazioni di libri che comprendono quelli pubblicati dalle Edizioni Ar e incontri ospitati in posti diversi, tra cui la libreria Ezzelino di Freda e Ventura. Il quale Ventura, peraltro, affida testi di Julius Evola e di altri teorici di estrema destra in conto deposito a Delfo Zorzi, un estremista mestrino appassionato di arti marziali e di cultura giapponese che in quel periodo commercia libri tra i frequentatori della sede veneziana del MSI, quella che si trova in via Mestrina e che in seguito diventerà la sede del circolo Generazione Europea […].

Franco Freda e Giovanni Ventura hanno subìto una condanna, divenuta definitiva, per aver creato e coordinato un’associazione sovversiva che, nel corso degli anni, fu al centro di molti attentati di stampo terroristico. Ma per piazza Fontana no, non sono stati giudicati colpevoli alla fine dell’iter processuale seguito a Catanzaro e poi a Bari. Nel 2005, tuttavia, i giudici della seconda sezione penale della Corte di Cassazione, presieduti da Francesco Morelli, hanno scritto che «la responsabilità della strage di Piazza Fontana è di Freda e Ventura, anche se assolti nei procedimenti a suo tempo celebratisi a loro carico». Dunque ci si era sbagliati prima, ma ormai è troppo tardi, dal punto di vista giudiziario non si può più fare nulla. Che i familiari delle vittime si rassegnino. E rifondano le spese processuali.

Giovanni Ventura, l’ex factotum della libreria Ezzelino di Padova, dopo aver scontato una decina d’anni di carcere anche per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di Milano e per quelle sui treni dell’agosto dello stesso anno, ha lasciato l’Italia nel 1979 – durante il processo celebrato davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro – per andare a vivere a Buenos Aires, in Argentina. Qui gestiva una pizzeria, la Filo, dove pare che la pizza sia buona e i prezzi accettabili, mediamente sotto i dieci dollari a persona. Inoltre nel 1992 gli è stato restituito il passaporto per consentirgli nel novembre di quell’anno di far visita alla madre, a Castelfranco Veneto. In quell’occasione ha incontrato anche il giudice Felice Casson che indagava su Gladio e sul terrorismo tra Veneto e Friuli con relativi collegamenti istituzionali.

Franco Freda, sorte giudiziaria analoga a quella del suo sodale d’origine trevisana, oggi continua a portare avanti le sue Edizioni di Ar (che hanno pubblicato anche un libro su Hitler con sua prefazione finito per disattenzione nelle mani dei ragazzi di un liceo romano). Inoltre, impegni permettendo, partecipa a qualche analisi del sindacato UGL indicando la corretta via per l’interpretazione della crisi economica: l’immigrazione. Tornato in libertà nell’agosto 2000 dopo che la legge Mancino lo aveva portato a un’ulteriore condanna per ricostituzione del partito fascista (vicenda che risale ai primi anni Novanta e alla creazione del cosiddetto «Fronte nazionale», sciolto nel 2000 con un provvedimento del ministero dell’Interno), sarebbe stato nel mirino dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea – secondo un recente libro scritto da Sergio Segio – che voleva far fuori lui e Guido Giannettini come punizione per la bomba di Bologna. Ma poi non se fece più nulla e di lì a poco la storia di Prima Linea giungerà alla fine.

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