Un’infanzia da gitana: la storia di Roxy Freeman

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Roxy FreemanRoxy Freeman ha trent’anni e la sua storia m’ha ricordato un brano di molti anni fa firmato da Claudio Lolli. Perché la donna, nata in Irlanda e oggi in Spagna dopo aver vissuto a lungo in Gran Bretagna e aver viaggiato parecchio, è di origine gitana e fino a ventidue anni la sua frequentazione con aule scolastiche ed istruzione formale è stata più che lacunosa. In un lungo articolo pubblicato ieri dal Guardian, My Gypsy childhood, Roxy Freeman racconta la sua storia, probabilmente un’anticipazione dell’autobiografia che sta scrivendo e che sarà di certo da leggere, se sarà coinvolgente come l’articolo. In cui l’autrice, oggi giornalista che ha frequentato il Suffolk College, rievoca la sua vita nei campi nomadi, le abitudini, i libri che ha imparato a leggere grazie alla madre e i luoghi visitati e in cui ha lavorato come ballerina di flamenco.

Non era una vita sempre idilliaca: la vita per strada può essere difficile. Avendo dei fratelli più piccoli ho dovuto lavorare sodo: la mia routine quotidiana includeva andare a prendere l’acqua, cucinare e cambiare pannolini. Eravamo sempre in bolletta: la passione di mio padre è sempre stata quella di coltivare mais. Talvolta la vendita andava bene, ma spesso eravamo senza un soldo. Così tutta la famiglia si dava da fare nella raccolta della frutta. Ricordo che un’estate abbiamo vissuto di funghi dato che lavoravamo in una fattoria che li coltivava. Ci sono stati anche i narcisi, ma dopo cinque stagioni ho sviluppato un’allergia alla linfa di quei fiori e la mia pelle si ricopriva di bolle al suo contatto.

E ancora:

Anche se io non andavo a scuola, ci andavano alcuni dei miei fratelli che, come molti gitani, hanno vissuto situazioni difficili. Capitava di trovarli in lacrime sul portone della scuola perché gli altri ragazzini se la prendevano con loro. Senza istruzione è difficile perseguire i propri obiettivi, ma rispetto alle tradizionali famiglie analfabete di gitani o nomadi, abbiamo avuto buone occasioni e nessuno si aspettava che ci sposassimo giovani mettendo al mondo nidiate di bambini e seguendo le orme dei nostri genitori. Da bambina la mia passione era il flamenco […] e a nove anni, nel periodo di Norfolk, mia madre mi mandò a scuola di danza […]. A 17 anni, volli lasciare il confortevole caos del campo e, dopo aver risparmiato un po’ di denaro, viaggiai per anni, danzando in bar australiani, in scuole spagnole e sulle spiagge dell’India.

Ma le limitazioni imposte dalla mancanza di istruzione hanno seguito la giovane, che risentiva del fatto di non poter comunicare quanto voleva e del gap rispetto a chi a scuola c’era andato. Così, risparmiando un altro po’, a ventidue anni compie un’impresa per lei ardua: scrivere una lettera di tremila parole per spiegare i motivi che la spingevano a voler frequentare corsi per adulti. È stata con quell’azione che ha dato un nuovo corso della sua vita confidando nel fatto che, forse, la strada imboccata l’avrebbe aiutata a realizzare quanto voleva. Fino alla laurea.

Un racconto che racconti la paura del buio

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Un racconto per paura del buio1) È un’iniziativa editoriale che porta avanti la battaglia a favore delle licenze Creative Commons (e ciò che uscirà sarà rilasciato con una Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate).

2) Affronta una tematica che è più che attuale.

Si intitola Un racconto per “paura del buio?” ed è una coproduzione tra Collane di ruggine e paura.anche.no per creare un cofanetto che contenga trenta cartoline illustrate e su cui stampare racconti in argomento. Questa la presentazione dell’iniziativa:

Il Babau è l’ultima frontiera nella politica dell’ansia. Semplice e primordiale paura. Diverso dal terrore, più simile alla goccia che ti cade in testa e pian piano ti porta incosapevolmente alla pazzia. Il nostro buffo mondo sta prendendo coscienza dell’esistenza del Babau. L’ansia di sicurezza, la paura del proprio simile, il rancore confuso e convulso che trasudano da ogni dove in questi anni difficili trovano la propria naturale conclusione nell’avvento del Babau. Non ci sarà più bisogno di invocare/creare/inventare emergenze e pericoli, tutti avranno paura del buio e basterà invocare il Babau perché ogni complessa manovra di ingegneria sociale trovi una giustificazione.

Il Babau è meglio del terrore, perchè il Babau non ti uccide subito, ti logora e ti porta a modificare il tuo sguardo sulla realtà in un’ottica schizoide, che alimenta se stessa. Nel paese del Babau può essere vero tutto e il contrario di tutto, il Babau non ti vuole sempre tristo e mogio. Il Babau porta anche allegria, folli risate che si alzano fino al cielo. Se non hai un soldo in tasca e la crisi ti divora, devi ridere, perché ci vuole ottimismo, altrimenti il Babau arriva e ti mangia. Ma non devi sollazzarti troppo, perchè il Babau è in agguato e non ci vuole nulla perché ti rubi il bambino dalla culla, usurpi il tuo posto di lavoro, rubi la/il tua/o donna/uomo.

Prendendo in prestito brandelli di saggezza in pillole da Kurt Vonnegut, potremmo dire che in questo mondo delle mille e una oppurtunità di essere divorati dall’ansia, dalla paura e dall’angoscia, tutto quello che può accadere probabilmente accadrà. Scansatevi in tempo.

Per partecipare si scrive un racconto di circa 1500 battute e lo si spedisce all’indirizzo collanediruggine-at-inventati.org entro la fine di agosto. Se i racconti dovessero superare il numero delle cartoline, si imporrà gioco forza una selezione, ma online ci andranno tutti.

Cara Angela, cara Maria, per voi la pena è certa

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Bologna, 2 agosto 1980Cara Angela, cara Maria. Lettere aperte sul 2 agosto.

– Mamma, sono morti anche dei bambini?
– Sì, è accaduto. E alcuni sono morti con la loro mamma.
– Chi sono?
– C’è Maria, che aveva tre anni, e c’è Angela, che se la teneva vicina e che ne aveva ventiquattro.

A sette anni, quanti ne hai invece tu, la strategia della tensione non sai cosa sia. Sei abituata ad ascoltare il telegiornale della sera, dove sigle astruse vengono rimbalzate a cavallo di diverse notizie. Gente ammazzata da guerre a bassa intensità sono per te solo delle immagine statiche, fotografie di fantocci immobili spesso coperti da lenzuola bianche. Per te è quella l’immagine della morte: finta, in bianco nero alla tivvù o a pallini di varie tonalità di grigio nelle retinature dei giornali.

È un giorno di piena vacanza, il 2 agosto 1980. In montagna ci sei arrivata a fine giugno, quando le scuole si sono chiuse sul tuo primo anno scolastico. La poca esperienza di vita che ti porti dietro ti sta già suggerendo che non durerà ancora molto, che le vacanze finiranno prima di quanto tu non creda, ma non l’ascolti: quella voce è poco più di un malessere che talvolta ti passa per lo stomaco. Non credi davvero che verrai restituita alla pianura, alla normalità, alla nebbia.

Alle 10.25 del mattino non sai più neanche cosa stavi facendo. Di certo qualche gioco, di certo con tuo fratello e tua sorella, ma a pranzo ti ricordi dov’eri perché così accadeva tutti i giorni: il tuo posto, l’ultimo sulla sinistra della grande tavolata, con le spalle alla stufa a legna spenta e alla cucina a gas dove sta ancora sfrigolando qualcosa.
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Il (surreale) racconto di una tranquilla giornata criminale

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Una tranquilla giornata criminaleRoberto Vignoli di Information Guerrilla segnala che nei giorni scorsi un intervento di Antonio Manzini a proposito di Una tranquilla giornata criminale. Sottotitolo: “Come sarà la vita in Italia ora che saranno sospesi i processi per decine di reati?” Un racconto strano, frutto della fantasia del suo autore, che inizia con una moglie massacrata dentro le pareti domestiche e che termina con un elenco di reati i cui procedimenti chissà che non saltino. E questa non è l’immaginazione dello scrittore. Il quale scrive nella sua narrazione all’apparenza surreale:

Finalmente al gate mi sedetti insieme a Paolo a sfogliare il Messaggero, che è l’unico giornale che riesco a leggere. E lessi. Avevano appena fatto una nuova legge che mi sembrava molto interessante. Paolo mi disse che non c’era più niente da temere. E che finalmente l’Italia stava diventando un paese come dio comanda grazie a quest’uomo che ci dava una mano concreta, mica chiacchiere. Berlusconi. Io penso che ce l’abbia mandato la provvidenza. Potevo tornare in Italia e stare tranquillo, continuare i miei affari, vivere felice e e libero in un bel paese democratico. Certo, mi sarebbe piaciuto aggiustare quel processo che ancora pendeva sulla mia testa, quando avevo corrotto un giudice patrimoniale (23). Ma poi scoprii che anche quello era un pensiero che non avevo più. Incredibile, ero nella stessa situazione del primo ministro

Abu Ghraib: racconto dal carcere iracheno

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Luigi Milani, quando scrive, affronta tematiche di non facile gestione. Infatti, dopo Ci sono stati dei disordini, racconto ambientato nei giorni del G8 di Genova, su Thriller Magazine ha pubblicato Abu Ghraib, lunga narrarazione in un luogo diventato negli ultimi anni tristemente famoso. E, con un linguaggio crudo e asciutto, porta subito il lettore all’interno del carcere iracheno:

È l’inferno nel quale è precipitato Iussuf, insieme a decine di altri soldati iracheni catturati dalle truppe americane. Soldati inviati ufficialmente a rovesciare un regime dittatoriale, per portare la democrazia in un paese oppresso da una feroce dittatura, accusato di pericolose collusioni con i terroristi responsabili dell’attacco alle Torri Gemelle. E poco importa che quelle accuse si siano poi rivelate infondate e pretestuose. Il presidente non può arretrare da una decisione presa. Il suo paese è la culla della Libertà e non può certo sottrarsi al ruolo di guardiano della pace e delle libertà di tutti i popoli della terra. È in nome di una sua presunta superiorità morale che l’America si arroga il diritto di poter intervenire ovunque la libertà sia minacciata. O non sarà invece a causa di ben altri interessi, non tutti di adamantina virtù?

Satisfiction e un racconto inedito di Joe R. Landsdale

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Satisfction, il free press culturale diretto da Gian Paolo Serino, e Menstyle.it devono aver preso carta e penna (o, più plausibilmente, il loro corrispettivo elettronico), contattato Joe R. Landsdale e chiesto un racconto inedito. Lui ha risposto che, sì, glielo mandava. Ed ecco ora pubblicato Buono a nulla, la storia (inedita) di Miller che viaggia su una Cadillac trasportando il cadavere della moglie la quale, anche da morta, gli procura un mare di problemi.

Una fiction può condizionare un processo?

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Chi fosse Graziella Campagna, giustiziata dalla mafia ventidue anni fa, è storia poco nota. La sua vicenda avrebbe potuto essere più conosciuta, dato che era in già pronta una fiction che avrebbe dovuto raccontarla. Però la messa in onda è stata bloccata, come spiega Articolo 21. Perché?

Perché coincideva con l’udienza in Corte d’appello nel processo ai due mafiosi imputati dell’omicidio di Graziella Campagna […]. Paura della televisione, come se i giurati di un processo potessero essere influenzati da una ricostruzione televisiva su l’oggetto del loro giudizio: come se l’orrore di quell’omicidio potesse esser meglio rappresentato in Tv di quanto non si possa fare con dovizia di particolari in un’aula di corte d’Appello. Come se si volesse separare la giustizia dal mondo, dalla realtà.

Oggi, durante il dibattito Vedo, sento, parlo, si diceva che è un tribunale che si potrebbe far influenzare da immagini televisive – anche laddove si ricostruisse una storia non fedele alla realtà dei fatti (ma non si può sapere se sia così oppure il contrario) – non farebbe in ogni caso un lavoro corretto. Per sentire il resto degli interventi (su questo e su altri argomenti), la registrazione è disponibile qui.

Si veda anche il post di Peter Gomez Una farsa pericolosa.

L’avevano tanto amata

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Il signor Pandolfi lo vedevi subito che aveva un peso sul cuore. Non tanto per il suo abbigliamento, tipico di chi sta subendo una grave perdita, nero di fuori a indicare il plumbeo che ha di dentro. Quanto, piuttosto, per le occhiaie, l’espressione smarrita, le palpebre arrossate non celabili dalle lenti scure sfoderate in una giornata grigia.
Rossani l’aveva visto avvicinarsi. Le vetrine sulla sua agenzia di pompe funebri erano fumé fuori, ma chi stava dentro poteva controllare chi passava lungo la strada. Così non aveva avuto problemi nello squadrare l’ometto esile e incerto che stava suonando al campanello. «Un novello vedovo, mi ci gioco il cofano,» si sfidò il becchino. E vinse, come sempre.
La serratura scattò per cedere il passo a Pandolfi il quale, senza scandire una parola né seguire un’indicazione, raggiunse l’ufficio di Rossani nel soffuso friscio delle scarpe strascicate sulla moquette tendente al bruciato.
«Dunque…» esordì lo smilzo.
«Dunque…» gli fece eco Rossani.
«Mia moglie…»
«Condoglianze.»
«Grazie.»
«Mi dica come posso aiutarla…»
Pandolfi, che si era piazzato davanti alla scrivania del suo interlocutore, torse il collo abbastanza per valutare la distanza della poltroncina riservata ai dolenti clienti. E facendo un passo indietro, riportata la testa in posizione naturale, vi si sedette mentre Rossani recuperava il modulo d’ordine e, con espressione di rassegnata serenità, afferrava una stilografica.
«La signora, qual è il suo nome?»
«Anna. Anna Ricotti in Pandolfi.»
«L’evento è accaduto in ospedale o a casa?»
«A casa,» rispose Pandolfi soffiando fuori la risposta come se fosse il bronco di un tisico.
«Dunque è là che dobbiamo… intervenire?»
«Sì, là.»
«E…»
«Scusi se la interrompo,» irruppe l’ometto con sorprendente vigore, «mi prometta, ma me lo prometta davvero, che farete un lavoro con tutta la cura dovuta. Il suo saluto deve essere indimenticabile. Indimenticabile per me, si intende.»
«Certo, si intende.»
«Da me voleva sempre quanto di meglio il mondo potesse offrirle. Non posso tirarmi indietro ora.»
«Comprendo.»
Pandolfi vide il funesto professionista iniziare a prendere appunti, afferrare un catalogo e invitarlo a scegliere legno, fregi, raso per il rivestimento interno, materiale per l’imbottitura. E ancora fiori, tipologia delle corone, testo del necrologio, giorno e orario per la funzione religiosa. Eseguì, fu diligente come uno scolaretto che voglia farsi bello con la supplente, accostò squisitamente i colori e non si fece pregare quando si trattò di afferrare il libretto degli assegni per una dovuta caparra.
«Vediamo. Ora sono le 11.35. Saremo da lei entro l’una. D’accordo?»
«Benone.»
Allora i due si alzarono e Rossati seguì Pandolfi lungo il corridoio che conduceva all’uscita.
«Prometta ancora. Indimenticabile,» chiese di nuovo l’ometto girandosi prima di inforcare la porta.
«Indimenticabile.»
«Ha sempre voluto il meglio. Da me e da tutti coloro che l’hanno amata negli anni del nostro matrimonio.»
«Si intende.»
«Grazie.»
«Signor Pandolfi, non mi ha ancora detto quando è morta la signora.»
L’ometto, che era già sul gradino esterno, tornò a voltarsi e rispose come se fosse la domanda più idiota che gli fosse mai capitato di udire.
«Entro l’una, in tempo perché possiate preparare tutto.»

Fame

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“Se aspettavi ancora un po’, oltre alle collanine, di là ci lasciavo anche qualcos’altro. Per di più tra mezz’ora sarà buio e si assieperanno tutti fuori. Muoviamoci”. Ivica era nervosa e apostrofò Rade in malo modo quando finalmente lasciò la dimensione dell’inquisitore e riapprodò al presente. Credeva che il ragazzo le serbasse ancora rancore per non averlo seguito subito quando Emir lo aveva abbandonato come un randagio riottoso sull’autostrada. Ma nel momento in cui Rade stava per replicare, il suo biondo compagno sbiancò di fronte a un manifesto, di quelli che se fossero nel far west inizierebbero con “Wanted” e sotto riportano una foto. La foto stavolta era sua ed era accompagnata da un inequivocabile annuncio. “Quest’uomo è all’origine dell’infezione. Chi non ha ancora subito cambiamenti, ne stai lontano e scriva a questo indirizzo”. Seguiva, un po’ assurdamente, un indirizzo di posta elettronica.
Dejan e Miograd avevano un motivo in più per inseguire Ivica e Rade. L’epidemia si era diffusa con una velocità impressionante. Se le strade che la coppia percorreva erano fino a poche settimane prima sufficientemente trafficate da far maledire il signor Ford e il suo rivoluzionario modello produttivo, ora diventava raro incrociare un altro veicolo. Anzi, non se ne incrociava più nessuno. Spostarsi con la luce era reso difficoltoso dalle tempeste di vento che, con puntualità quotidiana, battevano indistintamente le regioni attraversate. La notte, invece, qualsiasi movimento che non fosse l’autodifesa era pressoché impossibile.
Dejan ormai sapeva dominare abbastanza la sua mente perché non partisse inavvertitamente una raffica di evocazioni. Evocazioni che, del resto, si stavano dimostrando sempre più inefficaci via via che gli essere umani diminuivano: sortiva ancora effetti sulle vittime del torpore, ma sui trasformati non poteva nulla. Quasi inutilizzabile anche il necronium: le sue formule permettevano ancora la levitazione, il passaggio sulle acque o la possessione di corpi altrui. Ma le comunicazioni con le poche sacche di resistenza erano ancora possibili solo attraverso i satelliti non ancora andati in crash. Dunque, laddove quel libello non aveva più potere, arrivava il palmare che Dejan si era procurato in un ingrosso di elettronica deserto.
Lo strumento, inizialmente più impenetrabile delle potenti alchimie valacche, era stato domato a suon di pagine di manuale d’istruzioni e qualche colpo fortuito nella selezione dei comandi. E ora era divenuto indispensabile per la corrispondenza che Dejan aveva ripreso con una vecchia conoscenza, Vassili Mitrovic, anziano antropologo macedone che aveva trascorso lunghi anni documentandosi su leggende e superstizioni dell’Europa orientale. Lo studioso, tanto devoto alle tradizioni quanto incuriosito dalla tecnologia, era entrato a sua volta in contatto con un altro superstite, Aleksandar Visljic. Accorciata la barba rossiccia e abbandonata l’idea di essere rimasto l’ultimo uomo sulla faccia della terra, quest’ultimo aveva condiviso con Mitrovic i risultati delle sue ricerche sulla fisiologia dei nuovi esseri. E una su tutte era stata determinante per risalire all’origine dell’epidemia: la scoperta di una variante della xenopsylla cheophis, ospite del rattus rattus, quel roditore ritratto anche da Murnau e che vai a sapere perché aveva subito una mutazione rendendola resistente a qualsiasi attacco antiparassitario.
Se ora la dinamica trasmissiva dell’infezione era più chiara, i tre uomini avevano aggiunto anche l’ultimo tassello trovandolo non nei vetrini da microscopio o nei trattati di ematologia. Lo avevano cercato nel posto giusto, la statistica, che, messa in relazione con la cronologia degli eventi degli ultimi trent’anni, aveva fatto digitale a lettere maiuscole a tutti a tre esalutazioni soddisfatte.
I primi casi di torpore, stato antecedente alla trasformazione, erano stati registrati nel villaggio di Petrovci, convertito all’abbandono di qualsiasi attitudine alimentare che comprendesse carne, latte e suoi derivati e uova. Se il comizio di un buffo individuo che tutti credevano un ultranazionalista a guardare abbigliamento e modi era stato seguito da un improvviso temporale dopo settimane di un vento secco e corrisivo, avvenimenti meravigliosi avevano iniziato a manifestarsi proprio lì.
Successe che, durante la raccolta della soia, un mezzo agricolo investì e uccise sul colpo il gatto della moglie del capo villaggio. Un dramma per l’intera comunità, un lutto collettivo che avrebbe potuto risucchiare anche il suo primo cittadino, vessato com’era dall’inconsolabile consorte. La bestia, di per sé, i suoi begli anni ce li aveva: diciotto, per la precisione, trascorsi tra cuscini di broccato e gourmé degno della miglior gastronomia. Ma la sua tragica quanto improvvisa scomparsa rischiava di gettare la tranquilla vita politica del paese in un’anarchia poco salutare per il nascente turismo che rimpinguava le casse pubbliche.
Ecco inaspettatamente che, sospirato come l’alba che ormai ogni notte Dejan, Vassili e Aleksandar attendevano impazienti, a quell’epoca era comparso un novello Gesù Cristo, Rade. Il quale, con la sola imposizione delle mani, aveva riportato in vita il gatto, risparmiato il sindaco dall’incolmabile vuoto della moglie e restituito al villaggio il suo futuro di ricca mecca per latifondisti e reazionari con tendenze salutiste. A quella resurrezione ne erano seguite altre, ma man mano che la nomea e i miracoli del platinato profeta si diffondevano, ecco presentarsi i primi casi di torpore: sempre maggiore era il numero di chi accusava inizialmente stanchezza, inappetenza e pallore eccessivo per arrivare a non destarsi più. Non destarsi almeno finché non calavano le tenebre e la sveglia era suonata da una fame atavica e orribile.

Il racconto prende ispirazione (diventandone un po’ miscuglio, incontro e continuazione) da “Ninna Nanna” di Chuck Palahniuk, “Nicolas Eymerich, Inquisitore” di Valerio Evangelisti e “Io sono leggenda” di Richard Matheson

Acqua e sapone

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Levati quell’espressione atterrita. Nulla di personale, Sconosciuto. È lavoro. No, non so come ti chiami, non l’ho chiesto. Non lo faccio mai. Il Capo mi passa indirizzo e foto. Io mi apposto, osservo, rilevo i dettagli: una questione di poche ore. Fa parte del mio compito, della mia professionalità. Del resto, se non fossi accurato, avrei già chiuso bottega. Invece eccomi qui, Numero 202, è il tuo turno. I motivi? Non chiederli a me. La domanda, piuttosto, dovresti girarla a te stesso. Che hai fatto? Trucchetti che ti avrebbero levato dagli impicci? Non funziona, Sconosciuto. Ne ho visti altri come te: un maneggio qua, uno là e poi siete fottuti. Peccato che ve ne rendiate conto solo quando mi presento io. Se sono un esattore? Non sono venuto per denaro o documenti. Ancora domande? Non è la procedura. A che ti serve sapere? Mi vuoi raccontare la tua storia? Ho capito, la vuoi buttare sul personale. Le ho lette anche io le tue teorie: quando la preda si trasforma in uomo, smette di essere preda. Lascia stare. Ci hanno già provato. Una domanda te la rivolgo io: mi puoi indicare il bagno? No, non ci devo andare ora. È per dopo: sono una persona pulita, oltre che accurata. Mi piace il sapone, mi piace quando la schiuma si fa sempre più fitta. L’igiene è una questione mentale: la realtà si specchia meglio dentro la testa se trova superfici limpide fuori. Girati. Ho detto girati. Grazie.
Da che parte diceva? Sì, in fondo a sinistra. Banalmente scontato. Acqua, sapone, la salvietta trenta per venti che porto sempre con me, una ripassata per le impronte.

Dal quotidiano del giorno, in cronaca. Titolo: Omicidi acqua e sapone. Sommario: Da indiscrezioni degli inquirenti, indizi importanti arrivano dall’analisi degli scoli. Occhiello: La risposta va cercata negli scarichi.

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