Fame

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“Se aspettavi ancora un po’, oltre alle collanine, di là ci lasciavo anche qualcos’altro. Per di più tra mezz’ora sarà buio e si assieperanno tutti fuori. Muoviamoci”. Ivica era nervosa e apostrofò Rade in malo modo quando finalmente lasciò la dimensione dell’inquisitore e riapprodò al presente. Credeva che il ragazzo le serbasse ancora rancore per non averlo seguito subito quando Emir lo aveva abbandonato come un randagio riottoso sull’autostrada. Ma nel momento in cui Rade stava per replicare, il suo biondo compagno sbiancò di fronte a un manifesto, di quelli che se fossero nel far west inizierebbero con “Wanted” e sotto riportano una foto. La foto stavolta era sua ed era accompagnata da un inequivocabile annuncio. “Quest’uomo è all’origine dell’infezione. Chi non ha ancora subito cambiamenti, ne stai lontano e scriva a questo indirizzo”. Seguiva, un po’ assurdamente, un indirizzo di posta elettronica.
Dejan e Miograd avevano un motivo in più per inseguire Ivica e Rade. L’epidemia si era diffusa con una velocità impressionante. Se le strade che la coppia percorreva erano fino a poche settimane prima sufficientemente trafficate da far maledire il signor Ford e il suo rivoluzionario modello produttivo, ora diventava raro incrociare un altro veicolo. Anzi, non se ne incrociava più nessuno. Spostarsi con la luce era reso difficoltoso dalle tempeste di vento che, con puntualità quotidiana, battevano indistintamente le regioni attraversate. La notte, invece, qualsiasi movimento che non fosse l’autodifesa era pressoché impossibile.
Dejan ormai sapeva dominare abbastanza la sua mente perché non partisse inavvertitamente una raffica di evocazioni. Evocazioni che, del resto, si stavano dimostrando sempre più inefficaci via via che gli essere umani diminuivano: sortiva ancora effetti sulle vittime del torpore, ma sui trasformati non poteva nulla. Quasi inutilizzabile anche il necronium: le sue formule permettevano ancora la levitazione, il passaggio sulle acque o la possessione di corpi altrui. Ma le comunicazioni con le poche sacche di resistenza erano ancora possibili solo attraverso i satelliti non ancora andati in crash. Dunque, laddove quel libello non aveva più potere, arrivava il palmare che Dejan si era procurato in un ingrosso di elettronica deserto.
Lo strumento, inizialmente più impenetrabile delle potenti alchimie valacche, era stato domato a suon di pagine di manuale d’istruzioni e qualche colpo fortuito nella selezione dei comandi. E ora era divenuto indispensabile per la corrispondenza che Dejan aveva ripreso con una vecchia conoscenza, Vassili Mitrovic, anziano antropologo macedone che aveva trascorso lunghi anni documentandosi su leggende e superstizioni dell’Europa orientale. Lo studioso, tanto devoto alle tradizioni quanto incuriosito dalla tecnologia, era entrato a sua volta in contatto con un altro superstite, Aleksandar Visljic. Accorciata la barba rossiccia e abbandonata l’idea di essere rimasto l’ultimo uomo sulla faccia della terra, quest’ultimo aveva condiviso con Mitrovic i risultati delle sue ricerche sulla fisiologia dei nuovi esseri. E una su tutte era stata determinante per risalire all’origine dell’epidemia: la scoperta di una variante della xenopsylla cheophis, ospite del rattus rattus, quel roditore ritratto anche da Murnau e che vai a sapere perché aveva subito una mutazione rendendola resistente a qualsiasi attacco antiparassitario.
Se ora la dinamica trasmissiva dell’infezione era più chiara, i tre uomini avevano aggiunto anche l’ultimo tassello trovandolo non nei vetrini da microscopio o nei trattati di ematologia. Lo avevano cercato nel posto giusto, la statistica, che, messa in relazione con la cronologia degli eventi degli ultimi trent’anni, aveva fatto digitale a lettere maiuscole a tutti a tre esalutazioni soddisfatte.
I primi casi di torpore, stato antecedente alla trasformazione, erano stati registrati nel villaggio di Petrovci, convertito all’abbandono di qualsiasi attitudine alimentare che comprendesse carne, latte e suoi derivati e uova. Se il comizio di un buffo individuo che tutti credevano un ultranazionalista a guardare abbigliamento e modi era stato seguito da un improvviso temporale dopo settimane di un vento secco e corrisivo, avvenimenti meravigliosi avevano iniziato a manifestarsi proprio lì.
Successe che, durante la raccolta della soia, un mezzo agricolo investì e uccise sul colpo il gatto della moglie del capo villaggio. Un dramma per l’intera comunità, un lutto collettivo che avrebbe potuto risucchiare anche il suo primo cittadino, vessato com’era dall’inconsolabile consorte. La bestia, di per sé, i suoi begli anni ce li aveva: diciotto, per la precisione, trascorsi tra cuscini di broccato e gourmé degno della miglior gastronomia. Ma la sua tragica quanto improvvisa scomparsa rischiava di gettare la tranquilla vita politica del paese in un’anarchia poco salutare per il nascente turismo che rimpinguava le casse pubbliche.
Ecco inaspettatamente che, sospirato come l’alba che ormai ogni notte Dejan, Vassili e Aleksandar attendevano impazienti, a quell’epoca era comparso un novello Gesù Cristo, Rade. Il quale, con la sola imposizione delle mani, aveva riportato in vita il gatto, risparmiato il sindaco dall’incolmabile vuoto della moglie e restituito al villaggio il suo futuro di ricca mecca per latifondisti e reazionari con tendenze salutiste. A quella resurrezione ne erano seguite altre, ma man mano che la nomea e i miracoli del platinato profeta si diffondevano, ecco presentarsi i primi casi di torpore: sempre maggiore era il numero di chi accusava inizialmente stanchezza, inappetenza e pallore eccessivo per arrivare a non destarsi più. Non destarsi almeno finché non calavano le tenebre e la sveglia era suonata da una fame atavica e orribile.

Il racconto prende ispirazione (diventandone un po’ miscuglio, incontro e continuazione) da “Ninna Nanna” di Chuck Palahniuk, “Nicolas Eymerich, Inquisitore” di Valerio Evangelisti e “Io sono leggenda” di Richard Matheson

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