A cinque anni dall’inizio della Primavera araba: la storia di Mohamed Bouazizi

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A map of Arab Spring countries - Wikipedia.org

Sotto l’espressione «primavera araba» va una serie di insurrezioni che hanno riguardato il Maghreb, il Vicino e il Medio Oriente. I Paesi che sono stati più o meno attraversati da movimenti per la difesa delle libertà civili e politiche comprendono l’Algeria, il Bahrein, l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, Gibuti, la Libia e la Siria. Poi si sono registrati eventi più episodici anche in Mauritania, Arabia Saudita, Oman, Sudan, Iraq, Marocco e Kuwait. Addirittura una nazione martoriata da più di vent’anni di guerra civile come la Somalia ha dimostrato qualche sussulto «primaverile», soprattutto nell’ostilità contro i fronti islamici più bellicosi, come quelli rappresentati da Al Shabaab.

Iniziati nel dicembre 2010, i movimenti rivoluzionari hanno preso le mosse da alcune istanze comuni, per quanto poi le differenze si siano evidenziate nella declinazione nazionale delle rivolte. Tra queste, la lotta contro corruzione, disoccupazione, violazione dei diritti umani, miseria, regimi dispotici e sanguinari, penuria alimentare generata dalla nuova crisi e i cui effetti si devono aggiungere alla precedente, articolatasi tra il 2007 e il 2008, oltre a fenomeni di globalizzazione che hanno incrementato la povertà in loco e lo sfruttamento di manodopera sottopagata.

In quasi un anno e mezzo, secondo dati provenienti da varie fonti ed elaborati da Wikipedia, i governi sotto minaccia avrebbero utilizzato oltre due milioni di soldati regolari per reprimere le rivolte, effettivi a cui devono aggiungersi trentacinquemila mercenari, da schierare contro venti milioni di manifestanti. E il bilancio di sangue stimato parla di quarantacinquemila morti tra tutti i Paesi coinvolti, la maggior parte dei quali registrati in Libia, seguita da Yemen, Siria, Egitto e Tunisia, e quasi centomila feriti.

A dare il via alla primavera araba come evento sovranazionale è un fatto che si verifica alla vigilia di un inverno, quello targato 2010. Il 17 dicembre di quell’anno, infatti, un ventisettenne che vive in Tunisia e che in tasca ha un diploma senza però riuscire ad avere un’occupazione vera, Mohamed Bouazizi, si dà fuoco a Sidi Bouzid, città di poco meno di quarantamila abitanti nell’entroterra del Paese. Il suo non è un sem-
plice suicidio, per quanto la madre dichiarerà che il giovane fino a quel gesto non aveva mai manifestato convinzioni politiche.

Si tratta invece di una protesta contro anni di vessazioni della polizia locale. Il giovane, infatti, per tutta la vita ha venduto ortaggi e frutta che trasportava al mercato dopo averli caricati su una carriola. Guadagna dieci dollari al giorno e tanto gli deve bastare per sopravvivere e per pagare gli studi alla sorella minore.

Mohamed dunque è un ambulante che, a cicli più o meno regolari, deve pagare come tutti gli altri per la sua condizione di abusivo. Privo di licenza e costretto a fare piccoli affari per strada non potendo permettersi l’investimento necessario per aprire un negozio vero, per quanto piccolo, è costretto a sopportare in silenzio vessazioni ben oltre il limite dell’umiliazione, tra cui il periodico sequestro della merce, «tributo» che considera una tangente estorta dagli agenti che pattugliano le vie della città. E se anche qualcuno gli avesse proposto di «adeguarsi» al «così fan tutti», pagando una mazzetta ai funzionari pubblici per regolarizzare la sua posizione lavorativa, non avrebbe disposto del contante necessario per farlo.

Mohamed, però, contrario alla corruzione e calato nella lotta quotidiana che la sua bancarella improvvisata gli impone contro tutto e contro tutti, il giorno prima di compiere il suo gesto estremo chiede un prestito di duecento dollari per acquistare la merce da rivendere l’indomani. Ma quando arriva al mercato, secondo quello che racconteranno i suoi familiari e alcuni amici, viene preso a schiaffi in faccia da un agente della polizia municipale, che si scoprirà poi essere una donna.

Umiliato ulteriormente per essere stato bersagliato anche da una serie di sputi da parte del pubblico ufficiale, deve sentirti ribollire il sangue quando gli portano via le bilance usate per pesare i prodotti che vende e non può fare niente quanto frutta e verdura rotolano a terra dopo che il suo carretto viene rovesciato. Decide però di non tacere e va a chiedere aiuto.

Si presenta poco dopo al governatore per denunciare quanto accaduto e per chiedere indietro le bilance sequestrate, senza le quali è più difficile lavorare, ma riceve una porta sbattuta in faccia.

«Ah sì?» avrà pensato, aggiungendo in base al racconto di alcuni testimoni: «Se non mi vedete, mi darò fuoco» 91.

«Vattene via» si sente rispondere e Mohamed Bouazizi sembra eseguire.

Si allontana di poco e si fruga in tasca trovando qualche soldo avanzato dal prestito del giorno precedente. Allora si avvicina a un distributore di carburante, acquista una tanichetta di benzina e ritorna sui suoi passi, piazzandosi di nuovo di fronte al palazzo del governatore. Secondo altre persone che assistono alla scena, il giovane ambulante urla alle mura dell’edificio, indifferente tanto quanto chi lo occupa: «Mi avete preso tutto, come pensate che adesso possa guadagnarmi da vivere?»

A quel punto si rovescia addosso la benzina, estrae un fiammifero e si trasforma in una torcia umana, diventando un contemporaneo Jan Palach, divenuto nel 1969 simbolo cecoslovacco dell’opposizione antisovietica. «Dando fuoco a se stesso» ha detto Zied Mhirsi, un medico tunisino attivo nella lotta anti Aids e conosciuto anche come commentatore radiofonico, «ha usato il suo corpo per esprimere tutta la rabbia che aveva dentro e la necessità di recuperare quella dignità che molto tunisini vedono oltraggiata tutti i giorni».

Mohamed viene malamente soccorso da chi gli sta intorno, ma in qualche modo sopravvive. Quando giunge al pronto soccorso di Sidi Bouzid, però, la diagnosi parla di ustioni sul novanta per cento del corpo e di una prognosi disperata. Non ce la farà, che nessuno si illuda. Però si tenta comunque di fare qualcosa. Il giovane viene trasportato prima in un centro sanitario più attrezzato, a oltre cento chilometri di distanza, a Sfax, la seconda città più importante della Tunisia dopo la capitale, e anche il governo, composto da grandi code di paglia (come il contestatissimo Zine El-Abidine Ben Ali, presidente dal 1987, che farà visita al giovane durante la degenza), inizia a interessarsi della vicenda, disponendo un secondo trasferimento presso l’unità grandi ustionati di Ben Arous.

Lotta per sopravvivere, quell’uomo di 27 anni, tanto che l’ultimo giorno del 2010 il bollettino medico parla di condizioni stabili e di un lievissimo accenno di ripresa. Ma non è che un evento isolato. Diciotto giorni dopo essersi dato fuoco, annuncia suo fratello, Mohamed Bouazizi da Sidi Bouzid muore intorno alle 17.30. È martedì 4 gennaio 2011.

«Si tratta della quarta vittima confermata di un’ondata di malcontento» scoppiata il giorno dopo il tentato suicidio, il 18 dicembre, riporta Al Jazeera. Le prime due, registrare una settimana dopo l’immolazione di Mohamed, sono Houcine Falhi, 22 anni, che si suicida con l’alta tensione, e Mohamed Ammari, 18, raggiunto da un colpo sparato dalla polizia. Ai loro nomi si deve aggiungere quello di Chawki Belhoussine El Hadri, 44 anni, anche lui colpito da un proiettile degli agenti il 24 dicembre e rimasto agonizzante per sei giorni. E tutte queste morti non sono un caso.

Rientrano infatti in un movimento di protesta che inizia a organizzarsi il 18 dicembre, il giorno dopo il gesto di Mohamed Bouazizi. A scendere in piazza sono studenti, avvocati, commercianti, piccoli professionisti, intellettuali, lavoratori e disoccupati. Le forze di sicurezza ricevono ordini in base ai quali devono rispondere ai disordini con armi da fuoco, lacrimogeni, manganelli e arresti illegali. Ma tutto questo non riesce comunque ad avere ragione degli scioperi proclamati a ritmo costante da sindacati, associazioni di categoria e gruppi per i diritti civili. Ma come accaduto un anno e mezzo prima in Iran, dalla Tunisia le informazioni non devono uscire. E allora ecco che si ripete il tentativo di oscurare i mezzi d’informazione, internet e i social network.

Se la Cnn è stata tra le emittenti che meglio di altre è riuscita a garantire un minimo flusso di notizie nel caso della repressione voluta da Ahmadinejad, in Tunisia lo stesso risultato riescono a ottenerlo in parte France Presse ma soprattutto Al Jazeera, che inizia a rimbalzare le voci dei blogger, riprese anche dal network di informazione indipendente Global Voices.

In base a queste voci, si moltiplicano i casi di manifestanti picchiati e gravemente feriti. E racconta un’attivista raggiunta in loco, Lina Ben Mhenni: «Il governo ha attaccato anche con la manomissione di caselle di posta elettronica, di account facebook e di blog. Tra i materiali rimasti online ci sono i video che rilanciano le proteste degli studenti a Grombalia, una città a trenta chilometri da Tunisi».

Dozzine sono inoltre gli avvocati arrestati perché si erano offerti di fornire supporto legale ai manifestanti ed è a questo punto che, se qualcuno avesse temuto il silenziamento internazionale della propria battaglia, può iniziare a fare affidamento sul supporto degli attivisti stranieri, a iniziare da Anonymous. In un Paese gestito con il pugno di ferro per i ventitré anni ininterrotti della presidenza di Ben Ali e in cui l’indice della qualità di vita 2011 elaborato dalla rivista irlandese International Living lo pone erroneamente tra una delle nazioni meno sfasciate di quell’area geografica in forza solo di qualche algoritmo matematico, si muore perché non si trova lavoro, per le vessazioni delle forze dell’ordine, per la sordità dei politici e perché si scende per strada dando voce al proprio dissenso.

Inoltre non si può comunicare con l’estero, non si può raccontare la repressione di cui si è fatti oggetto, occorre prenderle (ed eventualmente crepare) nel silenzio più assoluto. Ecco allora che acquista sostanza l’operazione Tunisia di Anonymous.

Questo testo è contenuto nel libro Anonymous – Noi siamo legione (Aliberto, 2012)