La sintesi migliore della giornata l’ha data Daria Bonfietti, presidentessa dell’associazione delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno 1980. “È giunto il momento di passare da una memoria condivisa a una memoria documentata”. E Bologna – attraverso il lavoro di documentazione sugli eventi stragisti svolto in primis dalle associazioni – si candida a diventare una capitale (almeno italiana) dell’accesso a documenti e atti. Accadrà con l’inventariazione e la messa online di fondi finora di difficile consultazione.
Di questo si è discusso al recente convegno Archivi negati. Archivi “supplenti”. Le fonti per la storia delle stragi e del terrorismo, ospitato nella cappella Farnese di Palazzo d’Accursio, dove ha sede il Comune di Bologna. Ed è stata l’occasione per fare il punto di un progetto in fase d’arrivo che spazia oltre i documenti della strategia della tensione. Un punto che si è esteso a raggiera sui temi più caldi di quel periodo, come il segreto di Stato e l’accesso ad archivi “sensibili”, tra cui quelli dei servizi segreti. E che ha chiesto risposte a Massimo D’Alema, presente in qualità di presidente del Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica). “Trent’anni per il segreto di Stato? Vedremo che non si vada oltre, ma dipende se coinvolge nazioni amiche o alleate. Noi però abbiamo poteri limitati, è il governo che decide”.
Bologna diventa “una città per gli archivi”
Focus del convegno è stato un progetto iniziato nel 2007, Una città per gli archivi, che mira a inventariare, restaurare e sistemare in ambienti idonei circa 150 fondi documentali pubblici e privati. Si parla di materiale cartaceo, cartografico, audio e video che arriva dall’archivio di Stato e da quello comunale, dalla biblioteca dell’Archiginnasio, da partiti, sindacati, associazioni e famiglie per un totale di 5 milioni di documenti a cui hanno lavorato un’ottantina di archivisti, supportati da strumentazione informatica di archiviazione.
E il risultato, frutto di un finanziamento da 6 milioni di euro concesso dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, sarà la pubblicazione online entro il 2011 di 500 mila documenti. La sinergia per giungere alla vigilia di questo traguardo, che comprenderà anche l’ultimazione e la pubblicazione degli inventari completi entro il 2012, ha coinvolto la sovrintendenza archivistica dell’Emilia Romagna, l’istituto regionale dei beni culturali, l’archivio di Stato di Bologna e l’Archiginnasio. Ma soprattutto ha avuto due grandi protagoniste: l’associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e quella di Ustica.
Le associazioni autentiche “imprenditrici della memoria”
Nate rispettivamente il 1 giugno 1981 e il 22 febbraio 1988 (la prima per seguire da vicino il lavoro della magistratura e la seconda insoddisfatta delle risultanze della commissione d’inchiesta presieduta da Luigi Luzzatti), hanno iniziato una spontanea raccolta di documentazione. Innanzitutto si parla di atti giudiziari: istruttorie, perizie, verbali e, naturalmente, sentenze processuali. E poi ci sono stati stralci di indagini parlamentari, come quelle effettuate dalle commissioni stragi e P2, e filoni investigativi più o meno collegati (terrorismo degli anni Settanta, Gladio, deviazioni di apparati dello Stato).
Ma non c’è stato solo questo. C’è il settore iconografico con la rappresentazione delle stragi nei manifesti e nei materiali commemorativi. Ci sono le corrispondenze private e istituzionali, le tesi universitarie, la documentazione burocratica e amministrativa per i risarcimenti e ancora i contributi venuti dal mondo dell’arte e della cultura. Tutto questo, nelle parole di Bonfietti, perché per i fatti del 27 giugno 1980 “una verità su quegli avvenimenti è stata intesa subito e altrettanto subito si è voluto nasconderla”.
Ha aggiunto Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione delle vittime della strage alla stazione: “Ci siamo resi conto abbastanza presto che se ci fossimo limitati al fronte giudiziario, avremmo avuto come interlocutori solo addetti ai lavori. Invece volevamo che il bacino dei fruitori dei nostri archivi fosse più ampio, comprendesse studenti, scrittori, giornalisti, artisti e chiunque volesse avvicinarsi ai fatti che non hanno riguardato solo noi, ma l’intera nazionale”.
Eccoli allora trasformati in “imprenditori della memoria”, per usare un’espressione di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter, assassinato a Milano il 28 maggio 1980 dalla Brigata XXVIII marzo. Presente a Bologna oggi perché parte attiva in un movimento per la preservazione della memoria attraverso la digitalizzazione dei documenti (oltre che nella Rete degli archivi per non dimenticare della quale capofila è l’Archivio Flamigni), ha aggiunto a proposito del lavoro svolto dalle associazioni vittime: “A loro si deve il merito di aver diffuso e tenuto viva la memoria su due piani: la testimonianza diretta dei sopravvissuti e la centralità dei processi”.
Questi ultimi, infatti, sempre nelle parole di Tobagi, costituiscono “l’ossatura della storia dello stragismo” anche laddove le sentenze sono assolutorie perché, nelle motivazioni ma soprattutto negli atti contenuti nel fascicolo processuale completo, si ritrovano elementi di contesto politico e sociale tali da far scrivere una storia al di là delle responsabilità penali dei singoli individui.
E Benedetta Tobagi cita un altro esempio “felice” di “imprenditoria della memoria”: il lavoro svolto dall’associazione delle vittime della strage di piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974 a Brescia. In questo caso la magistratura inquirente ha capito l’importanza della digitalizzazione degli atti processuali, ma ha ammesso l’assenza di risorse economiche tutto sommato modeste (occorrevano più o meno 45 mila euro per smaterializzare centinaia di migliaia di pagine di documenti). L’associazione e il suo presidente, Manlio Milani, si sono messi a disposizione per reperire i fondi mentre la cooperativa Labor e il carcere di Cremona ci hanno messo know how, formazione e personale (i detenuti che lavorano per la cooperativa e che hanno nel frattempo acquisito competenze professionali).
Risultato? In poche ore le parti coinvolte nel processo partito a Brescia nel 2008 e conclusosi a fine 2010 (accusa, difese, parti civili) hanno avuto la piena disponibilità del materiale. Se si fosse proceduto con la carta, forse questa fase avrebbe portato via tanto di quel tempo da far slittare di mesi, nella più positiva delle ipotesi, la data dell’udienza preliminare e anche l’avvio del dibattimento.
Segreto di Stato e archivi dei servizi segreti: due nodi irrisolti
Le varie forme di classifica su documenti “sensibili”, fino a quella massima riformata con la legge 124 del 2007, sono state un fantasma che ha aleggiato su tutta la giornata e che si è materializzato a più riprese. È accaduto quando Paolo Bolognesi ha parlato di una volontà che risale al 1984, anno in cui la sua associazione presentò la prima legge d’iniziativa popolare sulla rimozione del segreto di Stato sui reati di terrorismo, stragi e criminalità organizzata. Ai tempi vennero raccolte 100 mila firme e a oggi, 4 anni dopo la legge che ha riformato l’intelligence in Italia, non c’è ancora un regolamento attuativo che stabilisca come il testo del 2007 vada applicato.
O meglio ci sono lavori in corso – secretati – e c’è l’esito della commissione Granata che nel luglio del 2010 ha dato qualche indicazione sul rinnovo del segreto di Stato. Se per legge deve essere apposto dal presidente del Consiglio e deve scadere dopo 15 anni, procrastinabile per altri 15, le informazioni di cui si dispone al momento non sono tranquillizzanti. Alla scadenza automatica, infatti, secondo le linee su cui ci si starebbe muovendo, potrebbero essere introdotte altre forme di classifica di 5 anni in 5 anni (la cosiddetta classifica di secondo livello). Poi, dice la commissione Granata, se il segreto dovesse essere “sovranazionale” (cioè riguardare governi amici o alleati), allora ci si dovrebbe accordare tra governi.
Tutto ciò, per le associazioni e per gli studiosi, equivale a un’affermazione drastica: al segreto di Stato non ci si vuole rinunciare mai. “Si cerca la segretezza perenne?” si chiede Manlio Milani, presente tra il pubblico, e Paolo Bolognesi dice: “Il presidente del Cosapir ci dica qualcosa sugli sviluppi veri”. Massimo D’Alema è stato chiamato in causa direttamente anche da altri relatori, come Giulia Barrera, della direzione generale degli archivi e consulente della procura di Roma per l’inchiesta sui desapareciros italiani in Argentina, e Miguel Gotor, ricercatore dell’università di Torino che si è concentrato sulle lettere e sul memoriale scritti da Aldo Moro nei 55 giorni del suo sequestro.
Il presidente del Copasir: “Noi diamo un indirizzo, le risposte arrivano dal governo”
D’Alema ha dovuto (o avrebbe dovuto) rispondere non solo della questione sul segreto di Stato, ma anche dell’accesso agli archivi dei servizi segreti. “Cercherò di violare la legge il meno possibile”, ha esordito il parlamentare riferendosi al vincolo di segretezza che c’è sui lavori del comitato al cui vertice siede da un anno e mezzo dopo aver preso il posto di Francesco Rutelli.
E ha aggiunto: “Il problema non sono solo gli archivi dell’intelligence. Ci sono altri fondi di cui si dovrebbe parlare: quelli dell’Arma dei carabinieri, della guardia di finanza, degli stati maggiori delle forze armate e del ministero degli esteri. Il fatto è che c’è una rosa di problemi, a iniziare dall’accessibilità a questi archivi. A oggi non sappiamo ancora quanti siano e dove siano collocati. Ma alcuni passi avanti lo abbiamo fatti: è stato creato per esempio l’archivio storico di deposito dove questo materiale dovrà confluire”.
Peccato però che questo archivio, a oggi, sia vuoto. O quasi. Ma promette D’Alema: “Ci faremo di nuovo parte attiva perché il regolamento attuativo giunga quanto prima e già posso dire che la classifica di secondo livello proposta dalla commissione Granata non sarà tenuta in considerazione. Discorso diverso per il segreto sovranazionale. Per esempio, su quello apposto sulla vicenda del rapimento dell’imam Abu Omar, sono d’accordo perché, riguardando la Cia, riguardava un governo alleato, gli Stati Uniti. Discorso diverso per gli archivi di via Nazionale, fatti per conto del Sismi di Nicolò Pollari da Pio Pompa, e sul caso dei dossieraggi di Telecom, che hanno coinvolto funzionari dei servizi. In quei casi possiamo parlare di deviazioni”.
E ancora – fa notare – D’Alema per lo stragismo il segreto di Stato non è stato applicato, ma aprire gli archivi potrebbe aiutare anche questi filoni di studio. “Per la vicenda Eni-Petronim, per il caso dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni (scomparsi a Beirut il 2 settembre 1980 e mai più ritrovati) o per i traffici d’armi con il Medioriente, forse la desecretazione potrebbe aiutare a far piena luce su altre vicende”.
Allora quando si saranno accessibili? “I tempi non li posso dare. Il Copasir è un organo di indirizzo politico, la competenza è del governo. Noi possiamo fare poco”.
Una nota a chiusura: sul caso Toni-De Palo citato da D’Alema, il segreto di Stato venne opposto nel 1984 da Giuseppe Santovito (a capo dei servizi militari) e da Stefano Giovannone (capocentro del Sismi a Beirut) con il successivo avvallo di Bettino Craxi, allora presidente del consiglio. Nell’autunno 2009 sembrava, tra enormi difficoltà, che quest’anno molto materiale sarebbe stato reso accessibile (nel 2010 una parte limitata era stata visionata – ma non copiata né divulgata e c’erano molti omissis – dai fratelli dei due giornalisti). Invece, malgrado le rassicurazioni degli ultimi due presidenti del Copasir, alcune settimane fa è giunta una notizia: il segreto è stato confermato fino al 2014. Nello scoramento delle famiglie.
Il solo depistaggio di Ustica veramente provato era la telefonata del SISMI il giorno dopo, in quale i NAR si dichiaravano colpevoli di aver messo la bomba:
http://archiviostorico.corriere.it/1995/ottobre/13/Ustica_uomo_Bisaglia_depisto_indagini_co_0_9510133870.shtml
Chi e perche aveva ordinato al SISMI di fare quella telefonata?
La P2?
Gladio?
http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/politica/pazienza-gelli/pazienza-gelli/pazienza-gelli.html
A dare gli ordini al SISMI di Santovito in quel periodo storico erano solo Andreotti e Cossiga.
…e almeno Giulio Andreotti sapeva esattamente perche il Dc9 ando giu:
http://strage80bologna.wordpress.com/2011/04/03/gheddafi-e-bologna/
Pero coinvolgere la Libia in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l’Eni…
…e per tutto il resto di Tangentopoli.