Da Internazionale: “Container 158”, il documentario di ZaLab sulla vita in un campo nomadi, quello romani di via Salone

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CONTAINER 158 from Za Lab on Vimeo.

Internazionale presenta com’è vivere in un container, nel ventunesimo secolo:

Container 158, di Stefano Liberti ed Enrico Parenti
Italia 2014, 62′

Per denunciare le politiche segreganti nei confronti dei rom, l’associazione ZaLab ha prodotto il documentario Container 158, girato nel campo attrezzato di via Salone a Roma, uno dei più grandi d’Italia, diretto da Stefano Liberti ed Enrico Parenti e prodotto con il sostegno di Open Society Foundations. Il documentario sarà online su Internazionale fino al 18 gennaio.

Secondo la commissione europea, in Italia la comunità di rom, sinti e camminanti è composta da 110mila-170mila persone: lo 0,25 per cento dell’intera popolazione italiana. Il 40 per cento di loro ha meno di 14 anni e il 60-80 per cento vive in una casa. Circa 40mila rom vivono invece nei campi nomadi, la maggior parte dei quali si trovano nelle periferie delle grandi città.

ZaLab e l’associazione 21 Luglio hanno inoltre lanciato una petizione per chiedere ai sindaci un impegno per la trasparenza e la reale integrazione dei rom.

Assalto a un campo rom francese: “Sono arrivati armati e a bordo di un’auto con lampeggiante”

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AP/Christophe Ena

Quella che segue è la traduzione di un articolo pubblicato oggi sul quotidiano francese Le Monde. Si intitola Un camp de Roms attaqué par des inconnus dans les Yvelines. Oltralpe i nomadi non se la passano bene, peggio che altrove, e la zona è in cui si è consumato l’episodio è questa.

Il commissariato di Poissy (Yvelines) ha aperto un’inchiesta dopo l’irruzione di alcuni uomini a volto coperto e armati nella notte tra mercoledì 27 e giovedì 28 ottobre, nel campo rom che sorge nella piana di Triel-sur-Seine. Secondo le testimonianze raccolte dagli investigatori, gli uomini sono giunti intorno alle 2 del mattino a bordo di un’auto dotata di lampeggiante e sono penetrati nelle roulotte con fucili e manganelli scardinando alcune porte.
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Un’infanzia da gitana: la storia di Roxy Freeman

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Roxy FreemanRoxy Freeman ha trent’anni e la sua storia m’ha ricordato un brano di molti anni fa firmato da Claudio Lolli. Perché la donna, nata in Irlanda e oggi in Spagna dopo aver vissuto a lungo in Gran Bretagna e aver viaggiato parecchio, è di origine gitana e fino a ventidue anni la sua frequentazione con aule scolastiche ed istruzione formale è stata più che lacunosa. In un lungo articolo pubblicato ieri dal Guardian, My Gypsy childhood, Roxy Freeman racconta la sua storia, probabilmente un’anticipazione dell’autobiografia che sta scrivendo e che sarà di certo da leggere, se sarà coinvolgente come l’articolo. In cui l’autrice, oggi giornalista che ha frequentato il Suffolk College, rievoca la sua vita nei campi nomadi, le abitudini, i libri che ha imparato a leggere grazie alla madre e i luoghi visitati e in cui ha lavorato come ballerina di flamenco.

Non era una vita sempre idilliaca: la vita per strada può essere difficile. Avendo dei fratelli più piccoli ho dovuto lavorare sodo: la mia routine quotidiana includeva andare a prendere l’acqua, cucinare e cambiare pannolini. Eravamo sempre in bolletta: la passione di mio padre è sempre stata quella di coltivare mais. Talvolta la vendita andava bene, ma spesso eravamo senza un soldo. Così tutta la famiglia si dava da fare nella raccolta della frutta. Ricordo che un’estate abbiamo vissuto di funghi dato che lavoravamo in una fattoria che li coltivava. Ci sono stati anche i narcisi, ma dopo cinque stagioni ho sviluppato un’allergia alla linfa di quei fiori e la mia pelle si ricopriva di bolle al suo contatto.

E ancora:

Anche se io non andavo a scuola, ci andavano alcuni dei miei fratelli che, come molti gitani, hanno vissuto situazioni difficili. Capitava di trovarli in lacrime sul portone della scuola perché gli altri ragazzini se la prendevano con loro. Senza istruzione è difficile perseguire i propri obiettivi, ma rispetto alle tradizionali famiglie analfabete di gitani o nomadi, abbiamo avuto buone occasioni e nessuno si aspettava che ci sposassimo giovani mettendo al mondo nidiate di bambini e seguendo le orme dei nostri genitori. Da bambina la mia passione era il flamenco […] e a nove anni, nel periodo di Norfolk, mia madre mi mandò a scuola di danza […]. A 17 anni, volli lasciare il confortevole caos del campo e, dopo aver risparmiato un po’ di denaro, viaggiai per anni, danzando in bar australiani, in scuole spagnole e sulle spiagge dell’India.

Ma le limitazioni imposte dalla mancanza di istruzione hanno seguito la giovane, che risentiva del fatto di non poter comunicare quanto voleva e del gap rispetto a chi a scuola c’era andato. Così, risparmiando un altro po’, a ventidue anni compie un’impresa per lei ardua: scrivere una lettera di tremila parole per spiegare i motivi che la spingevano a voler frequentare corsi per adulti. È stata con quell’azione che ha dato un nuovo corso della sua vita confidando nel fatto che, forse, la strada imboccata l’avrebbe aiutata a realizzare quanto voleva. Fino alla laurea.