Il diciottesimo vampiro vive a Modena. Parola di Claudio Vergnani

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Il diciottesimo vampiro di Claudio VergnaniDi Gargoyle Books ho già parlato varie volte perché ne ammiro l’accuratezza nella scelta dei libri da pubblicare: occupandosi solo di horror, non pesca nella massa degli ammiccamenti commercializzanti a cui potrebbe con facilità attingere, ma va alla ricerca di testi che spesso raccontino non solo la storia narrata, ma anche un contesto non di rado dagli aspetti politici e sociali. Si provi per esempio con questo recente volume e si inizi con un esercizio di fantasia prendendo un improbabile drappello di cacciatori di non-morti. La prima immagine che viene in mente, iniziando a leggere, è quella dei protagonisti strappati a Vampires, prima nel romanzo di John Steakley (Vampire$) e poi nella trasposizione cinematografica di John Carpenter. Anche qui ci sono i cacciatori che il loro compito lo svolgono su commissione.

Ma nel romanzo di Claudio Vergnani, Il diciottesimo vampiro, l’ambientazione è diversa. Pur mantenendo alcune atmosfere da far west, sono Modena e la sua provincia a dover essere “bonificate” e il sapore di un certo cinismo marmoreo alla Raymond Chandler subisce l’inevitabile reinterpretazione della quotidianirà della bassa italiana: precarietà della vita, fugaci riferimenti a un benessere economico inaccessibile a chi sta solo accanto, l’operosità dell’oriundo contro il perdigiornismo di alcuni dei disullusi personaggi. Per certi versi sembra di rileggere Fuori e dentro il borgo o rivedere Radiofreccia di Luciano Ligabue: non per nulla la limitrofa provincia reggiana è abitata da un tizio che si fa chiamare Bonanza, come nel longevo telefilm statunitense. Ma in questo caso, a differenza di quello della cricca di Ligabue, il nemico non è l’eroina, che falcia una generazione. Sembra quasi che, oltre ai vampiri (o per certi versi più di loro), i nemici di Claudio e dei suoi comprimari siano più che altro loro stessi (e qui si ritrovano influssi forse inconsapevoli di un altro autore che ha raccontato, nascendovi, la provincia emiliana, Piervittorio Tondelli).
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Bram Stoker, i vampiri e la storia del cinema di genere

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The Dark ScreenFranco Pezzini e Angelica Tintori sono gli autori del libro The Dark Screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo (Gargoyle Books, 2008) che attraversa, con chiave saggistica ma tono narrativo, la storia del cinema per seguire la figura dei miti vampirici e la loro rappresentazione tra ruoli e personaggi. Infatti:

A più di un secolo dalla sua prima apparizione, il mito di Dracula mantiene intatto il proprio fascino, ispirando di continuo nuove produzioni cinematografiche e televisive basate sulle sue gesta: dalle molteplici e più diverse trasposizioni della vicenda originaria ai numerosi sequel, fino a storie del tutto autonome, attraverso una lunga serie di maschere interpretative di cui Max Schreck, Bela Lugosi, Christopher Lee, Klaus Kinsky, Gary Oldman sono solo i nomi più noti. Quali i motivi di un successo così clamoroso e longevo?

A rispondere ci provano i due autori: Pezzini in qualità di studioso dei rapporti tra letteratura, cinema e antropologia; Tintori avvalendosi della sua esperienza di soggettista e sceneggiatrice (ha lavorato tra l’altro per alcune serie della Bonelli). La prefazione del libro è stata scritta dal critico cinematografico Alberto Farina, che dice:

In questo lavoro davvero monumentale, l’opera di Stoker non è solo la pietra di paragone di tutti i film che ne sono stati tratti [ma] è evidente che ogni deviazione o modifica rispetto alla fonte originale ha avuto una sua ragione precisa nel contesto storico in cui è stata decisa e proprio per questo può rivelarsi, a un esame attento, estremamente significativa.

“Le memorie di Jack Lo Squartatore”: un affresco storico

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Le memorie di Jack Lo SquartatorePersonalmente ritengo che sia poco rilevante ormai l’identità di Jack Lo Squartatore, lo pseudonimo dell’anonimo assassino che nell’autunno del 1888 fece (almeno secondo le ricostruzioni ufficiali) cinque vittime tra le più neglette delle donne di Whitechapel. In proposito, nel corso di un quasi un secolo e mezzo, di ipotesi ne sono state formulate molteplici. E un’altra la propone Clanash Farjeon, noto anche come Alan John Scarfe, ponendo come protagonista del suo romanzo, Le memorie di Jack Lo Squartatore, lo psichiatra londinese Lyttleton Stewart Forbes Winslow. Il libro, uscito a fine settembre in italiano per Gargoyle Books e con la prefazione di Luca Crovi, racconta la storia di questo medico: figlio di un facoltoso alienista, quarant’anni passati da poco, smaltite vicissitudini familiari che gli hanno impedito di migliorare ulteriormente il suo stato sociale, lo psichiatra scopre una passione. Anzi, un’illuminazione, una sorta di percorso mistico verso il sollievo (suo e delle sue vittime): uccidere.

Ma il valore di questo libro non sta tanto nella trama, nella rievocazione dei delitti, nell’autocritica che il killer porta avanti per migliorare il suo modus operandi. Il suo vero valore sta invece altrove: nello spettacolare affresco storico e sociale della Londra di fine Ottocento; nei chiari di una borghesia professionale che assapora gli anticipi di quella che altrove sarebbe stata chiamata belle époque; e negli scuri di un mondo infame, sudicio, senza speranza, da cui fuggire, mondarsi, elevarsi. Singole parole e intere costruzioni sintattiche (ben tradotte in italiano da Chiara Vatteroni) rendono in pieno le atmosfere, contrastanti e complementari, di quel mondo. Sembrano renderle reali, visibili, le luci delle case signorili dove la scurrilità viene ben celata, la frigidità è un destino ineluttabile contro la trivialità dei sensi, dove l’amore diventa motivo di schiavitù tramandato di generazione in generazione. In modo paradossale, la vita e la vitalità stanno altrove: stanno laddove una coltre di sporcizia copre pelle, strade, abiti, marciapiedi, esseri umani. Dove la profanazione di qualsiasi legame affettivo significa perdizione autentica, ma dove la disperazione diventa una costante molla per una ricerca.
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