Gladio a chi? – 1

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È dei giorni scorsi la notizia secondo cui nei paesi dell’Europa occidentale e del Patto di Varsavia sarebbero esistite carcere segrete della Cia. Ne è seguita qualche reazione (seppur, come per le armi al fosforo bianco su Fallujah, non si sia poi così tanto approfondito sui giornali) per lo più improntata alla sorpresa, alla richiesta di indagini accurate e così via in un balletto di dichiarazioni che, anche in questo caso, sembrano ricalcare un galateo politico predefinito. Eppure non è la prima volta che si parla di realtà del genere in Europa. Il riferimento deve fare un salto indietro di quindici anni quando, per una serie di rivelazioni, dichiarazioni ufficiali e dossier, si venne a sapere dell’esistenza delle strutture stay behind, organizzazioni di promanazione statunitense che, per il tramite della Nato, hanno attecchito in tutto il vecchio continente, compresi paesi neutrali come Austria, Svizzera, Svezia e Finlandia che avrebbero così violato anche i trattati di pace firmati alla fine della seconda guerra mondiale.
Questa struttura si è chiamata, sia in Italia che altrove, Gladio ed ha assunto denominazioni differenti alcuni stati: Absalon in Danimarca, ROC in Norvegia, SDRA8 di Belgio. E la possibilità che i suoi uomini – o uomini a loro collegati – siano responsabili di attività esplicitamente illegali è stata adombrata da personaggi di rilievo come Giuseppe De Lutiis, storico che ha studiato a lungo i servizi segreti, Libero Gualtieri, presidente della commissione stragi che ricevette per primo da Giulio Andreotti il dossier relativo a Gladio, Daniele Ganser, ricercatore del centro per gli studi sulla sicurezza dell’istituto federale svizzero di tecnologia di Zurigo, e dal giornalista Ugo Tassinari. Un esempio, seppure non esista una verità incontroverbile e provata, può essere l’attività criminale che la banda del Bradante portò avanti dal 1982 al 1985 in Belgio: 16 incursioni, 28 morti e 25 feriti provocati – si seppe – da agenti delle forze dell’ordine che si trasformavano fuori servizio in rapinatori disinteressati al bottino. Non si dimentichi che anche in Italia, tra il 1987 e il 1994, accadde qualcosa di analogo con la banda della Uno Bianca il cui curriculum criminale (o sarebbe meglio chiamarlo terroristico?) fu molto più nutrito: 103 azioni, 24 morti, 102 feriti. Come si diceva, prove non ce ne sono, solo collegamenti e intuizioni. Sta di fatto però che il parlamento belga, per bocca del presidente della commissione che indagò sui colpi del Brabante, disse che gli attacchi sarebbero «opera di governi stranieri e di servizi servizi segreti che lavoravano per gli stranieri, un terrorismo svolto a destabilizzare una società democratica». Del resto, da qualche parte si è già sentito il motto (e il moto) «destabilizzare per stabilizzare».
Sorpresa? Non si dovrebbe se si pensa che all’articolo 11 dei Basic principles and minimum standards of security è riportato che «le persone che sono senza dubbio a rischio per la sicurezza, come coloro che sono membri di organizzazioni sovversive, o coloro sulla cui lealtà e affidabilità vi sia un ragionevole dubbio, devono essere escluse o rimosse da posizioni nelle quali potrebbero rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale». Siamo all’inizio degli Anni Cinquanta e nel verbale del consiglio dei ministri dell’8 gennaio 1951 sta scritto che «è necessario allontanare i comunisti dai posti d’importanza e di responsabilità, mettendoli nei posti nei quali non possono nuocere». Una lettura interessante, a questo proposito, sono gli atti del convegno della Fondazione Istituto Gramsci “Doppia lealtà e doppio Stato nella storia della Repubblica”.
Questo è solo un piccolo assaggio di ricostruzioni secondo cui l’Europa occidentale tutta visse in uno stato di subalternità agli alleati d’oltre oceano. E se l’Italia non è stata la prima nazione a essere colonizzata dagli Stati Uniti, è stata sicuramente quella che ha più sofferto di una posizione subordinata a iniziare dalle frontiere orientali con la Jugoslavia dove organizzazioni paramilitari anticomuniste come l’Associazione Partigiani Italiani, Fratelli d’Italia, Stella Alpina e la Osoppo hanno subito progressive trasformazioni per convogliare, almeno in quest’ultimo caso, in un “organismo militare segreto”, l’Organizzazione O. Vennero anche la Rosa del Venti, Pace e Libertà, Difesa Civile, nata nel 1950 per «provvedere alla difesa passiva del territorio in caso di eventi bellici o connessi alla guerra» (Mario Scelba), e nel 1956 Gladio che risulta un perfezionamento di realtà pre-esistenti.
Un’ultima osservazione prima di chiudere questa entry rimandando a successivi interventi approfondimenti del caso. Dell’esistenza di Gladio si venne a sapere nell’agosto 1990 quando, in relazione a indagini su fatti di terrorismo in Italia (tra cui l’inchiesta sulla strage di Peteano condotta da Felice Casson e quella del giudice Giovanni Tamburino sulla Rosa dei Venti), Giulio Andreotti parlò esplicitamente per la prima volta di un servizio non ortodosso attivato dall’Alleanza Atlantica e voluto da CIA (USA) e MI-6 (Gran Bretagna) per combattere il comunismo a ovest della cortina di ferro. Della sua esistenza erano informati i primi ministri e i ministri degli interni e/o della difesa e coordinati da strutture sovranazionali. Armi, riceventi e trasmittenti ad ampio spettro, flussi economici hanno girato per il continente fino alla caduta del blocco sovietico. E mentre si attendeva un’invasione sovietica che non venne mai, gli uomini della rete Gladio lavorarono per reclutare neofascisti (anche in Italia e in Germania) per attuare attentati terroristici attribuiti poi a forze politiche avverse per screditarle e toglierle di mezzo.
Recentemente, nel corso di uno dei dibattiti tenuti all’interno della manifestazione Politicamente Scorretto, Libero Mancuso ha sostenuto che «le stragi in Italia sono state volute dallo Stato», cioè da chi avrebbe dovuto tutelare i cittadini e invece ne ha ammazzati (per parlare solo negli Anni di Piombo) oltre 400. È quello stesso stato che ha lavorato con un’entità più grande, che ha usato maggiore eleganza rispetto al Sudamerica per togliere di mezzo personaggi e intellettuali come Cesare Battisti e Adriano Sofri (per citare solo i più noti), che sapeva dell’esistenza delle carceri segrete in giro per il continente e che ha prestato un pezzo del suo territorio (la Sardegna) per fare un quartier generale stay behind dove sono stati addestrati molti del gladiatori.

Parole in libertà

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Da lunedì prossimo Radiolinux, quindicinale trasmissione radiofonica sul software libero ideata e condotta da Vasco Maria Cleri in onda sulle frequenze di MEP Radio Organizzazione oltre che disponibile in streaming, si arricchisce di una nuova rubrica, Parole in libertà. Si tratta di uno spazio tra i cinque e gli otto minuti dedicato all’editoria libera e, nello specifico, a saggi, paper, fumetti, romanzi e quant’altro rilasciati con una licenza che ne permetta quanto meno la ridistribuzione. Se per le prime puntate è stata effettuata una prima selezione del materiale disponibile in rete, il desiderio sarebbe quello che gli autori segnalino i propri lavori in modo che si crei un filo diretto con gli ascoltatori. La segnalazione può avvenire inviando una mail all’indirizzo redazione[at]radiolinux.info.
Per la trasmissione del 7 novembre, l’inaugurazione di Parole in libertà avviene con il libro Il sapere liberato – Il movimento dell’open source e la ricerca scientifica di cui si è già parlato qui. La pubblicazione, uscita quest’anno per i tipi di Feltrinelli, è stata realizzata dal collettivo Laser, esperienza nata durante le contestazioni studentesche degli Anni Novanta all’università La Sapienza di Roma e dall’autogestione dei centri sociali. Il quadro che ne esce – focalizzato su privatizzazione delle idee, circolazione della conoscenza, brevetti copyleft in ambito scientifico e innovazione tecnologica – non rimane però cristalizzato nel momento in cui il libro è andato in stampa, ma prosegue sul server di Ippolita, comunità di scriventi che ha curato, tra gli altri progetti, il libro Open non è free (Eleuthera, 2005).

Creative Commons, istruzioni per l’uso

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Qual è il funzionamento delle licenze Creative Commons? In quali particolari si differenziano rispetto ai sistemi full copyright? Esistono davvero minacce nel rilasciare in questi termini le proprie opere? Sul sito Libera Cultura è stata pubblicata la traduzione integrale (curata dal giornalista Bernardo Parrella con il supporto di Juan Carlos De Martin, public lead Creative Commons Italia) dell’articolo Does Creative Commons free your content?. Il pezzo, scritto da Tom Merritt di CNET.com, cerca di rispondere ai quesiti di cui sopra e ne scaturisce un’interessante lettura per comprendere meglio pregi e difetto dell’impianto su cui si basano queste licenze. Sempre in argomento CC, poi, è stato reso pubblico il programma definitivo dell’evento Creative Commons Italia 2005, fissato per il prossimo 19 novembre. Solo una considerazione a fronte della quantità di materiale che si produce con queste modalità: le letture sulla comprensione dei meccanismi “tecnici” iniziano a essere fitte e diventa così più agevole comprendere gli aspetti legali, ma manca ancora la possibilità di poterla viverla, questa produzione culturale. Continuano a essere poche le occasioni per assistere alla presentazione di un libro o e a un concerto di musica rilasciati sotto Creative Commons. E anche quando si cerca in Rete, ci si può affidare solo ai motori di ricerca, a qualche esperienza più o meno nota o poco altro senza che esista un repository specifico da cui poter attingere. Magari, in futuro…

Il blog si fa libro e il libro si fa blook

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La definizione che il dizionario libero Wiktionary dà del neologismo blook comprende tre significati: un libro seriale pubblicato attraverso una piattaforma per blog, un libro sul blogging e un libro cartaceo che contiene quanto pubblicato all’interno di un blog. Non si tratta di un fenomeno recentissimo, quello del blook, perché già diversi siti si stanno muovendo in questo senso. È il caso di Hackoff.com di Tom Evslin, giallo ambientato all’interno dell’omonima azienda che si apre con la morte violenta del suo presidente, Larry Lazard. Ma anche di iniziative italiane come quelle comparse su Carmilla On Line, che ha pubblicato a episodi diversi racconti lunghi e romanzi più o meno brevi tra cui «Le Cronache di Bassavilla» di Danilo Arona, «Playmaker» di Antonio Nucci, «Il Coccige Da Vinci» di Lorenzo Valla. Ora si compie un passo un più e a farlo è l’iniziativa di Bob Young, Lulu.com, che bandisce il Lulu Blooker Prize 2006, il primo concorso dedicato ai blook. Fiction, saggistica e fumetti le sezioni previste dal bando di concorso mentre, per iscriversi, è stato predisposto un form a cui fare riferimento. Per recensioni, segnalazioni e domande è stato approntato, neanche a dirlo, un blog ad hoc.

Eventi, blog e rapporti

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Peccato che le date siano così vicine al Linux Day da essere, per una delle due giornate, coincidenti. Ciò non toglie che la nona edizione del Meeting Etichette Indipendenti, che si terrà a Faenza il 26 e il 27 novembre (con la presentazione dell’evento il 25), è una manifestazione che meriterebbe di essere seguita. Uno spazio poi viene dedicato, nel corso del pomeriggio del 27 novembre, al copyleft in ambito artistico e alle licenze Creative Commons con un dibattito organizzato da ForArt e Anomalo, realtà che hanno come scopo la libera della diffusione della musica in rete, e che vedrà la partecipazione di Gianluigi Chiodaroli della Società consortile fonografici.

Infine due segnalazioni. La prima riguarda l’incontro Creative Commons Italia 2005 che si terrà a Torino il 19 novembre, organizzato in collaborazione con l’Associazione Documentaristi Italiani doc.it. Audiovideo, editoria e musica i tre cardini della manifestazione. La seconda segnalazione, invece, è per l’Handbook for bloggers and cyber-dissidents, analisi curata da Reporters sans Frontières e che prende in considerazione il ruolo dei blog nel mondo dell’informazione elettronica. La pubblicazione, disponibile in inglese, francese, cinese e arabo, contempla anche le testimonianze raccolte da blogger che vivono in Germania, nel Bahreïn, negli Stati Uniti, a Hong Kong, in Iran e in Nepal. Strumenti, etica, anonimato e censura gli argomenti cardine del rapporto.

Back to basics

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È un rock acustico e fluido, quello dei brani contenuti nell’album Back To Basics di Marcello Cosenza, chitarrista italiano che ha riunito qui dieci pezzi scritti durante gli ultimi suoi due anni di permanenza a Los Angeles. E fin qui si può dire che è una bella raccolta scandita da una chitarra calda e intensa, di quelle giuste per quando si scrive cercando magari un po’ di ispirazione per andare avanti e riempire una pagina. Ma la particolarità del lavoro del musicista, del quale in rete si possono trovare informazioni sui trascorsi artistici che comprendono anche una collaborazione con il Banco del Mutuo Soccorso, sta (anche) altrove e, nello specifico, nella licenza di rilascio, la Creative Commons Attribuzione Non commerciale Non opere derivate 2.5 in modo che quest’opera possa circolare liberamente. MP3 e Ogg Vorbis i formati da poter scaricare.

Copyleft. Le ragioni di una scelta

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Il testo che segue è stato inserito all’interno di un articolo più ampio, Copyleft. Le ragioni di una scelta, scritto a quattro mani con Ermanno Pandoli de iQuindici. Lo scopo dell’intero articolo è quello di fornire uno strumento agli autori che vogliono rilasciare le proprie opere liberamente mentre il testo riportato di seguito cerca di offrire una prospettiva storica e motivazionale alla libera circolazione di materiale protetto da diritto d’autore.

La tutela di un autore e la possibilità per un lettore di usufruire dell’opera attraverso una serie di strade vietate dal full copyright (tutti i diritti riservati) non sono incompatibili. Affatto. Esiste un ecosistema che del digitale ha fatto il proprio propulsore affinché la conoscenza possa diffondersi attraverso la copia autorizzata di un’opera e l’eventuale opzione di trarne opere derivate, a scopo commerciale o meno, consentendo l’attribuzione al progetto originale o consigliando una nuova denominazione.
La nascita di questa corrente di pensiero si contestualizza all’interno degli ambienti informatici che, dopo esperienze più che decennali alimentate dalla libertà di ricerca scientifica e dalla volontà di incentivare l’evoluzione tecnologica, hanno portato alla creazione della Free Software Foundation nel 1984, dell’Open Source Initiative nel 1998 e delle Creative Commons nel 2001. Nell’arco di questi diciassette anni si assiste a un fenomeno che, intessuto di elementi tecnici e culturali, estende l’attenzione – e dunque l’estensione delle norme sul diritto d’autore – dal software a tutti contenuti digitali intesi in senso più ampio.
Le ragioni di questa tendenza, che oggi sta portando a un’ipertutela della “proprietà intellettuale” dannosa per i consumatori e ancor prima lesiva fin delle basilari libertà di espressione del cittadino, si ravvisano principalmente in elementi come il decremento dei costi di riproduzione dei contenuti elettronici, l’aumento della velocità di utilizzo della Rete per operazioni di caricamento e scaricamento di file anche corposi e la conseguente moltiplicazione di episodi di copie non autorizzate di programmi per elaboratore, testi, ipertesti, musica e file multimediali.
In tempi capital-intensive per settori industriali economicamente potenti come quelli dell’informatica, della discografia e della cinematografia, la copia non autorizzata è risultata inacettabile. Ragionamento eventualmente condivisibile quando la licenza d’uso dice esplicitamente che a ogni “pezzo” venduto deve corrispondere un corrispettivo economico e la possibilità di effettuare esclusivamente una copia di backup personale. Diventa invece meno accettabile quando ci si trova di fronte a strumenti sempre più restrittivi come il Digital Millennium Copyright Act statunitense o l’appiattimento a un unico corpus – la cosiddetta “proprietà intellettuale” – di istituti giuridici differenti definito dagli accordi Trips e dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio. E ancora la European Union Copyright Directive o il ricorsivo tentativo di riforma della convenzione europea sui brevetti per arrivare a concedere monopoli temporanei anche sui beni immateriali che di per sé non assolvono al requisito della materialità e dall’innovazione industriale.
Senza entrare nel dettaglio di questi esempi, si pensi soltanto all’introduzione di polizie private al soldo di RIAA (Recording Industry Association of America) e MPAA (Motion Picture Association) che vigilano sul comportamento dei cittadini, ai libri elettronici che “espirano” trascorso un periodo prestabilito dagli editori o che non possono essere “prestati” perché non leggibili se trasferiti da un dispositivo a un altro, ai DRM (Digital Rights Management, sistemi tecnologici per la gestione di opere sotto diritto d’autore che permettono protezione, tracciabilità e identificazione del contenuto stesso) o ancora ai divieti di divulgazione delle informazioni se queste stesse informazioni vanno a collidere con gli interessi del detentore diritti d’autore in versione full. Ma si pensi anche, facendo un salto nel passato di oltre dieci anni, a esperienze di repressione della cultura digitale come quelle del primo Crackdown americano e della sua replica tricolore, l’Italian Crackdown, quando non si fece differenza tra chi studiava, divulgava, pubblicava, manteneva macchine perché altri potessero ripetere il loro esempio e chi, invece, usava la rete per altri interessi, alcuni dei quali discutibili.
E così si fa ancora oggi: non si discerne – o non si vuole discernere – tra un comportamento legale e uno illegale, tra chi autorizza gli utenti a rimbalzare la propria opera per i quattro angoli del globo attraverso i collegamenti telematici e chi sceglie la via del cracking e dell’illegalità per vivere lo spazio digitale.
Così ieri come oggi è stata avvertita un’esigenza: utilizzare il diritto d’autore, quello stesso piegato nel giro di vent’anni a favore del profitto e della privatizzazione della conoscenza, per tutelare in aspetti morali e patrimoniali connessi alla creazione di un’opera dell’ingegno e della creatività. Ma concedendo anche, in termini espliciti e legali, agli utenti (informatici, lettori, ascoltatori, spettatori, navigatori della Rete) una serie di libertà che variano a seconda delle intenzioni dell’autore.
Oggi l’ambiente tecnologico appare quello più maturo in questo senso con le sue licenze d’uso, come la General Public License del Progetto GNU, la cui tenuta giuridica è stata testata anche in tribunale (peraltro un tribunale in territorio europeo e non nei natii Stati Uniti). I contenuti non informatici invece sono nel pieno della loro formulazione giuridica e, malgrado possano esistere ancora interpretazioni non univoche di determinate disposizioni e note di copyright, sono saldamente avviate verso la piena condivisione della conoscenza.
In questo contesto si inserisce l’attività de iQuindici per quanto riguarda sia le pubblicazioni sulla newsletter Inciquid che l’inserimento all’interno della Biblioteca Copyleft. Un contesto che vuole offrire un’occasione, tanto agli autori che ai lettori, di confrontarsi in un sistema di distribuzione dei contenuti che, pur non reinventando un sistema giuridico, lo usa per incentivare una fruizione orizzontale ma tutelata delle opere che i Lettori Residenti prendono in carico.

Informazione, idee, open source e proprietà intellettuale

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In libreria ci è arrivato il primo settembre sotto il marchio Feltrinelli mentre su web è scaricabile in formato pdf dall’indirizzo http://www.ippolita.net/content/progetti/laser/laser_-_il_sapere_liberato.pdf (è disponibile anche la versione in HTML). Si tratta del libro Il Sapere Liberato. Il movimento dell’open source e la ricerca scientifica, analisi curata dal collettivo Laser (e rilasciata con licenza CreativeCommons.org) su circolazione delle idee, privatizzazione della conoscenza, innovazione tecnologica, brevetti e copyright. Su una scia analoga si muove anche il lavoro di Philippe Aigrain dal titolo Cause commune : l’information entre bien commun et propriété, edito in libreria dalle parigine Editions Fayard. Anche in questo caso la licenza è CC.org (Creative Commons-By-NC-ND-2.0), il pdf del libro si trova all’indirizzo http://grit-transversales.org/IMG/pdf/Causecommune-CC-By-NC-ND.pdf e, come già si evince dal sottotitolo, L’information entre bien commun et propriété, fa una panoramica dei diversi approcci all’informazione spaziando tra Wikipedia, le macchine universali, il software libero ed ecosistemi informativi.

«Questa è una storia vera» disse l’autore

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A fare dello scetticismo una filosofia di vita, magari non ci si giurerebbe sul fatto che tutto tutto – anche i dettagli – sia autentico e che non subisca mai nessuna deriva narrativa. Ma Jon Ronson, scrittore e documentaristica inglese, ha scritto un libro che promette e mantiene con The Men Who Stare at Goats (il libro su Amazon.co.uk), inchiesta sulle tecniche di guerra (para)psicologica usate negli Stati Uniti da alcune elite belliche. Le storie raccontate in questo volume sembrano infatti uscite da una sceneggiatura ai confini della realtà. La collocazione del libro è quella di un’America post-11 settembre in cui le torture di Abu Graib possono essere spacciate per episodi tragicomici attraverso cui distendere le truppe e dove va trovato un nuovo approccio al combattimento per non risentire più delle conseguenze dell’orrore stile Vietnam. E così iniziano a farsi strada nelle alte gerarchie militari teorie estreme portate avanti da un pugno di gerarchi tra cui il tenente colonnello Jim Channon. Secondo il quale, sul campo di battaglia, sarebbe meglio ricorrere a mutanti, suoni discordanti e armi psico-elettriche contro il nemico. Roba da fantascienza da due soldi? Mica tanto a leggere le testimonianze che Ronson ha raccolto nel giro di qualche anno. La storia di questa unità, il First Earth Battalion, risalirebbe al 1979 quando venne messa insieme una squadra che doveva trovare il modo di rendere i soldati invisibili, farli passare attraverso i muri e uccidere senza muovere un dito. Alcune di queste tecniche – quelle meno insofferenti verso le leggi della fisica – sarebbero oggi utilizzate in Iraq dove i prigionieri vengono fatti impazzire a suon di avventure dei Flinstones o negli stessi Stati Uniti dove suicidi di massa, come quello di San Diego del marzo 1997, sarebbero stati indotti. Per alcuni versi, il libro riporta d’attualità argomenti non nuovi facendo ripensare all’unità Stargate, alle spie psichiche o a collaudate tecniche di vessazione psicologica utilizzate brillantemente in America Latina. Ma se un merito ce l’ha, questo lavoro, è quello di ritratte efficacemente una frangia di militari a stelle e strisce che non sembra essere così tanto ai margini.