Si intitola La storia e le false notizie il dibattito che, in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria, si terrà il prossimo 30 gennaio a Modena. Presso il Caffè Concerto di Piazza Grande, a partire dalle 21, l’argomento sarà Il complotto – La vera storia dei Protocolli dei Savi di Sion, il libro a fumetti di Will Eisner pubblicato recentemente da Einaudi per Stile Libero Extra. Nel corso della serata interveranno Andrea Plazzi, “Fumetti e romanzi e fumetti: il contributo di Will Eisner alla narrativa per immagini”, e Daniele Barbieri, della Scuola Superiore di Studi Umanistici, Università di Bologna, “Il punto di vista della Storia: Eisner testimone di un’epoca”.
Author: Antonella
La Lola della Bassa – 1
StandardStorie Nere è una categoria nuova categoria che intende riportare a puntate storie reali, di fantasia o verosimili. Quella che segue si intitola “La Lola della Bassa” e si ispira a una vicenda consumatasi tra il 1939 e il 1940, quella della saponificatrice di Correggio. Ma vi si ispira soltanto, però, per sommissimi capi. Dialoghi, personaggi, azioni sono invece frutto di finzione e non sono ricondicibili ad alcunché di reale.
Il retrobottega
Lola aveva il sorriso delle persone fresche d’animo. Guardandola, si sarebbe detto che i lutti e le botte non avessero calato su di lei quella patina grigia di chi ha fatto il suo ingresso nell’età matura, gravato da responsabilità e spogliato di sogni. Il suo spirito, bonario e aperto, aveva fatto la fortuna della bottega e del marito Ferruccio, impiegato all’ufficio del catasto che, per quattro ma sicure lire di stipendio, aveva ritenuto un buon affare vendere giovinezza e giovialità.
Lola invece ci sapeva fare. Quei due, emigrati dal Mezzogiorno dopo la distruzione della Marsica, in dote solo la maledizione della madre di lei, avevano affittato in via Roma un appartamento con negozio annesso grazie ai risarcimenti versati a chi aveva perso casa e beni sotto l’impennata della terra.
«Qualcosa ce ne faremo» aveva detto lei. E qualcosa ci fecero. Da meridionali trattati con diffidenza perché mica se ne vedevano tanti da quelle parti, avevano tirato su una piccola fortuna in un paesotto della bassa Emilia dove d’estate, quando la nebbia è assente, ci pensa l’umidità a intorbidire il paesaggio.
«E non è per merito della questua del comune che siamo quasi signori» ripeteva Lola alle donne che, con la scusa di cercare una camicetta come si usa nella capitale o il cappello che con la moda non ha nulla a che vedere, si davano convivio nel retro.
Ad attirarle non erano però solo gli straccetti che Lola recuperava trasformandoli, dietro diligenti lavaggi e stirature, in capi di sartoria che le assicuravano un discreto introito. No. A far loro gola era il retrobottega, trasformato nella seconda attività – prima in termini di guadagni – della padrona. Qui, con espressione grave e modi da officiante, leggeva carte e fondi del caffè, consultava astri e trapassati e vaticinava un futuro per una serie di zitellotte a cui il futuro glielo leggevi in faccia, senza tirare in ballo i lumi del cielo. Tra le più affezionate, ce n’erano tre che venivano un giorno sì e l’altro anche, se proprio proprio non c’era altro di più urgente.
Antonietta Cocinelli l’avreste detta una massaia che spenna oche pescate dalla corte e inforna arrosti per una mezza dozzina di figli. Di figli, invece, ne aveva, anzi ne aveva avuta da un anno in qua, solo una e di marito mai neanche l’ombra. Diciannove anni prima, quando gli echi degli scontri tra cooperative rosse e i nascituri fasci di combattimento iniziavano a farsi conoscere, lei aveva messo al mondo una creatura, Lietta, al di fuori del sacro vincolo del matrimonio.
Il padre della creatura era un garzone che, dalla sporta da fornaio, era passato al manganello facendo tappa alla marcia su Roma. Famiglia povera ma onorata la sua, aveva pensato bene di spedire il rampollo dai lombi ruspanti in città e di qui era partito più tardi per l’Eritrea dove infausto destino aveva voluto che una portentosa diarrea se lo portasse via.
Così Antonietta, svergognata e ripudiata dai genitori, si era tenuta la sua bambina stirando la biancheria dei signori di campagna. Ragazzetta silenziosa ma amorevole, Lietta era cresciuta con l’aroma dell’amido nelle narici e il timore che Gesù, un giorno, venisse a chiedere il conto per il peccato che l’aveva generata. E così era stato quando, inciampando in un forcone, s’era trafitta il polso e il sangue, infettato dal tetano. Antonietta aveva pianto ai funerali e poi si era rasserenata quando aveva saputo che Lola sapeva parlare con i morti.
La seconda avventrice fissa del retrobottega era Carlotta Galeppi. In età da marito, aveva sacrificato la sua carne sbocciante alla follia della madre: la donna viveva ormai persa in una rievocazione tutta sua della corte del Re Sole di cui aveva letto, giovinetta peccaminosa, in romanzi sporchi che circolavano in collegio nonostante l’onnipresente sguardo inquisitorio delle suore. Man mano che il male inondava la sua testa, la matta si era trasformata nell’immaginaria concubina di sua maestà e destinava le giornate ai preparativi del regale amplesso con il più luminoso dei sovrani.
A Carlotta non era rimasto altro che accudirla, scandire stentati «Mais oui, madamoiselle», «Le roi vous attend» e aspettare che la vecchia esaurisse i suoi ardori per l’assolutismo borbonico nell’abbraccio dell’eterno riposo. Quando avvenne, la fioritura di Carlotta era trascorsa da tempo e, con rammarico, si era rassegnata al fatto che in paese non avrebbe mai trovato un uomo che la impalmasse.
Così, per sopravvivere, aveva venduto i gioielli della madre e, riesumando un diploma magistrale ingiallito nel cassetto del comò, aveva imbastito un asilo privato. Non una scuola ufficiale che l’avrebbe insabbiata nella fiera burocrazia fascista, ma un nido con lettini, giocattoli e seggiole in cui le mamme potevano depositare i loro cuccioli confidando in un pasto caldo e nella merenda dietro il pagamento di una ragionevole retta mensile. Carlotta si era appassionata talmente al suo ruolo di maestra che ora meditava il grande salto: una scuola vera, ma non più da insegnante, voleva essere direttrice.
La terza signora di nome faceva Adelaide Ghislandi. Donna dal petto imperioso, teneva il mento sempre alto, la testa di tre quarti che puntava alla spalla sinistra. Da giovane era stata una cantante lirica, un soprano, che, complice l’unica audizione azzeccata della sua vita artistica – anche per la compiacenza dimostrata verso il direttore della compagnia di canto, malignava la cognata Irene Minguzzi –, aveva preso parte a una tournée che l’aveva portata in Egitto e in Marocco. Qualche giornale locale si era occupato di lei ai tempi dei successi d’oltre Mediterraneo, ma la sua stella aveva iniziato a tramontare nel momento in cui le brame del direttore si erano indirizzate verso un passerotto aspirante tenore che aveva forse superato la pubertà.
La pubertà, il passerotto, l’aveva effettivamente esaurita, ma era ancora lontana dalla maggiore età e non aveva comunicato ai genitori la sua intenzione di raggiungere una compagnia di canto per esibirsi pubblicamente davanti agli arabi. Quindi, quando la patria aveva visto il ritorno gli artisti, ad attenderli non c’erano fama e pubblico, ma i carabinieri aizzati da mamma e papà passerotto. Morale: il direttore in carcere e poi al confino e Adelaide al punto di partenza, nel paese natale, bruciata dallo scandalo. I passati splendori erano l’argomento preferito della cantante, sempre pronta a sfoderare dalla borsetta quegli articoli che parlavano di lei, uno dei quali era corredato addirittura da una fotografia. E ora, alle soglie dell’infertilità, aveva abbandonato velleità canore per attendere un uomo con cui maritarsi e condividere quello che restava.
Addio a Roberto Bellogi
StandardAveva fatto parte del collegio della difesa dei Bambini di Satana nel processo del 1997 quando, da innocenti, vennero accusati di un po’ tutto ciò che di più turpe può venire in mente. Ma era anche con la parte civile al processo per l’eccidio dei carabinieri al Pilastro, avvenuto il 4 gennaio 1991 per opera della banda della Uno Bianca. Roberto Bellogi è stato un avvocato che di battaglie ne aveva combattute parecchie, che si era esposto pubblicamente per le sue battaglie. E sul finire dell’anno se n’è andato dopo una breve ma grave malattia.
È Future Film Festival
StandardE anche quest’anno… Future Film Festival.
Operazione verità: un contributo
StandardOperazione verità è il payoff della campagna elettorale di Forza Italia che, affidandosi al sorriso del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, presenta, a botte di slogan populisti, quanto questo governo avrebbe fatto su pensioni, occupazione, lotta alla criminalità e così via. Tralasciando per un attimo le considerazioni relative al contratto con gli italiani e al (mancato) rispetto dei punti programmatici da parte della maggioranza, ricordiamo invece la campagna di comunicazione contro la pirateria multimediale che Palazzo Chigi ha avviato per combattere il fenomeno della duplicazione illegale di strumenti e contenuti telematici.
Che c’entra Operazione verità con la lotta alla pirateria? C’entra eccome perché i manifesti elettorali, scaricabili dal sito GovernoBerlusconi.it, sono stati realizzati con software crackato. Il software crackato, ci teniamo a rammentarlo, è software proprietario per il quale non è stata acquistata regolare licenza e le cui protezioni sono state forzate in modo che funzioni anche senza una legittima procedura di installazione e/o registrazione.
A darne notizia è il blog SocialDesignZine che, nell’intervento L’illecito programma di Berlusconi, spiega come sia stato possibile effettuare una semplice verifica sui file pdf scaricabili dal sito del capo del governo. Si legge infatti:
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Facciamo così. Collegatevi al sito web di Forza Italia, scaricate sul vostro computer il pdf di uno dei nuovi poster della campagna di Berlusconi e aprite la finestra “informazioni” (su Mac premete “mela-i”) del file pdf appena scaricato e… sorpresa!
Ecco che sotto l’etichetta “creatore” appare il nome del programma QuarkXPress, con cui l’esecutivo della campagna è stato realizzato, seguito dalla lettera “[k]” che sta, notoriamente, ad indicare che il programma è stato abusivamente “crackato”.
Sì, avete capito bene. La campagna di Forza Italia che va sotto il titolo di Operazione verità, è stata realizzata con software illegalmente duplicato e quindi senza averne acquisita la regolare licenza d’uso!
Del resto, si sa che questo esecutivo verrà ricordato come quello che, in quanto a leggi ad personam, ha saputo dare una discreta prova di sé. Forse la ex-Cirielli serviva anche a condonare questo reatuccio e non avevano così torto gli americani a essere innervositi, se si ragiona con la loro ottica.
Trusted computing movie
StandardFiducia, mutualità, autonomia di decisione e, come conseguenza, libertà di espressione. Tutto ciò che viene negato nel trusted computing per come viene implementato o per come lo si vorrebbe implementare. Il gruppo di Lafkon ha così realizzato un filmato, Trusted Computing Movie, che è stato tradotto in italiano dal team di No1984.org. Semplice e immediato nell’illustrare i concetti di base che, se tecnicamente possono assumere gradi di complessità notevole, sull’utente hanno l’effetto di limitare l’utilizzo del computer e impedire la fruizione di contenuti ritenuti non consoni. Il filmato, infine, è stato rilasciato con licenza Creative Commons Sampling Plus 1.0.
Nobody knows where you are, how near or how far
StandardIn ricordo di un amico.
Economia in chiave libera
StandardCome riportato nel weblog di CreativeCommons.org, Introduction to Economic Analysis è uno studio (disponibile anche in formato PDF) curato da Preston McAfee, docente di economia al California Institute of Technology. Si tratta al contempo di un manuale di microeconomia in chiave open source che, oltre a essere rilasciato con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike, può essere studiato dagli studenti universitari che si avvicinano per la prima volta – o quasi – alla materia. Nei presupposti dell’autore, è un trattato scientifico e non politico né militante. Anche se qualche cartuccia contro l’establishment delle università e dell’editoria la fa esplodere. Fin dalle righe iniziali, infatti, sottolinea il differente approccio all’economia del suo libro perché in esso “si trovano modelli ed equazioni, non fotografie di economisti” che riempirebbero molti altri manuali di “fuffa” e non di “strumenti concettuali”. Ma non finisce qui: McAfee spiega le ragioni della virata verso la libertà di utilizzo del libro.
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Perché open source? Gli accademici producono una notevole quantità di lavoro editoriale e ora gli editori hanno rescisso un contratto implicito con gli accademici in cui noi mettevamo il nostro tempo e loro non si dimostravano troppo avidi. Alcuni articoli da scaricare costano 20 dollari e i libri vengono venduti a oltre 100. Fanno uscire frequenti nuove edizioni per uccidere il mercato dell’usato e la rapidità con cui escono le nuove edizione contribuisce a errori e grossolanità. Inoltre i libri di testo sono stato “snelliti” e qualche scattante editore cerca di soddisfare quegli studenti che preferiscono non imparare nulla. Molti manuali sono stati “snelliti” (semplificati) al punto da essere semplicemente scorretti. E vogliono anche 100 dollari? Questo è un tentativo di presentare agli studenti l’economia e come funziona oggi? Perché non proviamo a spiegare agli studenti di più invece che di meno?
In merito poi alla scelta di una licenza Creative Commons, si legge:
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Il copyright conferisce un monopolio per un periodo presumibilmente limitato di tempo. Dunque la Disney Corporation detiene i diritti su Mickey Mouse. Diritti che, per legge, dovrebbero scadere, ma che sono stati estesi dal Congresso ogni volta che stavano per esaurirsi. Il copyright crea monopoli sulla musica così come sui personaggi dei cartoni animati e Paul McCartney detiene i diritti sulla canzone “Happy Birthday to You” ricevendo royalty ogni volta che viene passata in radio o utilizzata in qualsiasi altro ambito commerciale. Questo libro è rilasciato in termini che vietano espresamente un uso commerciale, ma che permette molte altre forme di utilizzo.
Infine una (buona) notizia italiana. Il 16 dicembre verrà infatti presentato a Roma il progetto LiberMusica durante il convegno Liberiamo la musica. Ideata da LiberLiber, che da anni diffonde versioni digitali di opere i cui diritti sono scaduti, l’iniziativa ha lo scopo di «distribuire gratuitamente l’immenso patrimonio di musica classica, jazz, popolare libera da copyright» riunendo incisioni precedenti al 1954.
Mamma li pirati
StandardMa che c’entrano l’una con l’altra la legge per la prescrizione dei reati in Italia (conosciuta come ex Cirielli o anche salva-Previti) e l’industria cinematografica hollywoodiana? Lo chiarisce un titolo di Repubblica, A rischio i processi sulla pirateria, per parlare di una lettera della Motion Picture Association of America (MPAA) datata 22 novembre (di cui non si trova traccia in rete) e inviata all’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Giovanni Castellaneta. La missiva, che sarebbe stata firmata anche da produttori di software ed editori, rappresenta – in base agli stralci riportati dal quotidiano – una minaccia per i procedimenti pendenti contro i pirati a cui sarebbe garantita l’immunità totale incoraggiando così la delinquenza singola e l’associazione a delinquere. Calcando poi la mano sulla situazione italiana, vengono riportati numeri relativi ai danni che la pirateria provocherebbe all’economia tricolore: meno un miliardo e mezzo di profitti per il software, 180 milioni per l’audiovisivo e 150 per la musica. A titolo di fonte per questi dati, viene citata una ricerca del 2003 di Kpmg.
Storie già sentite
Tra i firmatari della lettera, Dan Glickman, presidente della MPAA che riunisce produttori e distributori come Walt Disney-Buena Vista, Sony, Metro-Goldwyn-Mayer, Paramount, Twentieth Century Fox di Murdoch e Warner Bros. Inoltre sigla anche David Israelite, a capo di NMPA, che rappresenta 800 case discografiche e che fa proprio vanto il risultato della guerra contro Napster, Mitch Bainwol (RIAA) e BSA, AAP, IFTA ed ESA. Acronimi di per sé poco significativi che stanno però a indicare le associazioni di categoria di major musicali, del software, dell’editoria e dello spettacolo.
Insomma, sempre il solito e ritrito discorso tecno-belligerante alla Jack Valenti e alla Janet Reno. Malgrado le rassicurazioni di John Malcom, vicepresidente di MPAA, torna il leit motif secondo cui la rete è un covo di potenziali nemici pubblici contro cui va condotta una «personale guerra al terrorismo» perché «alcune organizzazioni criminali sembrano utilizzare i profitti realizzati con il commercio di prodotti contraffatti per favorire diverse attività, come il traffico d’armi, di droga e la pornografia». E questa cancrena sarebbe imputabile a «internet [che] rende più facile rubare, produrre e distribuire merci come software, musica, film, libri e videogiochi» (The threat of digital theft, incluso in The Industry Standard, dicembre 2000.)
Sempre Repubblica informa anche di due casi che hanno avuto per protagonisti Madonna e gli U2. La prima «per contrastare la diffusione di musica pirata, disseminò il web di files con i titoli delle proprie canzoni. Ma era una trappola: una volta aperti si ascoltava l’insulto della cantante rivolto all’ascoltatore: “Ma che c… credi di fare?”». I componenti della band irlandese, invece, «dopo essersi visti trafugare il master con i brani del loro disco How to dismantle an atomic bomb, firmarono un accordo con la Apple per mettere in vendita degli iPod (una speciale versione nera) contenente le canzoni dell’album».
Tutti colpevoli
Se il secondo caso è un ricorso a strumenti che possano ovviare a un danno pre-esistente, nel primo invece la colpa al solito viene addossata alle nuove tecnologie. Esattamente come accadde quando vent’anni e rotti fa vennero messi in commercio i primi videoregistratori. Al tempo uno studio di Cap Gemini Ernst & Young dimostrò come «la ‘crisi’ […] non era causata da chi registrava le cassette – la cui attività non si fermò [dopo l’arrivo di MTV, che mise in ulteriore allarme le major, NdR] – ma in larga parte derivava dalla stagnazione nell’innovazione musicale delle maggiori etichette discografiche». E poi forse i grandi produttori hollywoodiani dimenticano di essere stati proprio loro i primi pirati: a partire dal 1909, infatti, furono molte le nascenti realtà cinematografiche (tra cui la Fox) che fuggirono dalla East Coast e si rifugiarono sul litorale pacifico per sfuggire ai brevetti di Thomas Edison, fondatore della Motion Pictures Patents Company (MPPC). In California, infatti, avrebbero avuto modo di scansare più agevolmente i controlli del trust di Edison senza dovere nulla a nessuno.
E poi chi è un pirata? Per i colossali difensori della proprietà intellettuale, chiunque utilizzi Internet o le reti P2P per scaricare contenuti digitali di qualsiasi genere. E questi utenti sono così invisi da assumere ormai anche in Europa la fisionomia del malfattore tout cour. Senza mai distinguere tra categorie di “scaricatori”. Lawrence Lessig, in Free Culture, ne distingue invece quattro: 1) chi usa la rete per sostituire l’acquisto, cioè l’utente potenzialmente più dannoso; 2) chi ascolta e poi effettua scelte prima dell’acquisto un po’ come avviene con le cuffiette messe a disposizione da Ricordi MediaStore; 3) chi condivide materiale ancora coperto da diritto d’autore ma non più in commercio perché l’editore non lo ritiene più economicamente redditizio (e in questo caso chi è il danneggiato?); e 4) chi condivide unicamente materiale che si può liberamente distribuire. Di fatto, l’unica categoria veramente dannosa per gli introiti di chi fa profitto con i contenuti è solo la prima. Dunque, perché continuare a colpire tutti? Meglio continuare a terrorizzare invece di educare a un uso consapevole del diritto d’autore e alle distinzioni contenute nelle licenze d’uso?
Sul buon uso della pirateria
StandardSul buon uso della pirateria è un libro scritto da un giornalista francese che lavora per Libération, Florent Latrive. Rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate, è stato pubblicato lo scorso anno dall’editore parigino Exils Editeurs e in Italia da DeriveApprodi, pur essendo disponibile in rete. Il sottotitolo di questo volume – 139 pagine che scorrono velocemente malgrado il tecnicismo degli argomenti affrontati – è «proprietà intellettuale e libero accesso nell’ecosistema della conoscenza» e spiega in modo piuttosto chiaro le tematiche che vengono affrontate. Partendo dalla domanda cos’è un pirata?, inizia una panoramica dettagliata dal punto di vista storico e giuridico di quanto l’espressione «pirata» sia errata e fuorviante. Inoltre, pur nella sua definizione imposta da BSA e major musicali e discografiche, viene dimostrato anche quanto sia aleatoria, mutevole in base a legislazioni nazionali, intenzioni e utilizzi. Insomma, si spiega quanto sia sbagliato il concetto. Inoltre, sempre da diversi punti di vista, sono presentati i diversi ambiti che l’espressione proprietà intellettuale riunisce illustrando come diritto d’autore, tecnologia o brevetti sui farmaci non siano attualmente una tutela se non per i produttori/editori. Infine, tra software libero, Creative Commons e altre modalità alternative al full copyright, l’autore presenta anche un vivace mondo che, in un fermento progressivo e ininterrotto, fornisce risposte sia alle esigenze degli autori che degli utenti. Un’opera partigiana pro libertà di cultura? Sicuramente. Ma nelle sue affermazioni, Latrive porta sempre esempi, motivazioni, dettagli socio-culturali e politici.