Mamma li pirati

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Ma che c’entrano l’una con l’altra la legge per la prescrizione dei reati in Italia (conosciuta come ex Cirielli o anche salva-Previti) e l’industria cinematografica hollywoodiana? Lo chiarisce un titolo di Repubblica, A rischio i processi sulla pirateria, per parlare di una lettera della Motion Picture Association of America (MPAA) datata 22 novembre (di cui non si trova traccia in rete) e inviata all’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Giovanni Castellaneta. La missiva, che sarebbe stata firmata anche da produttori di software ed editori, rappresenta – in base agli stralci riportati dal quotidiano – una minaccia per i procedimenti pendenti contro i pirati a cui sarebbe garantita l’immunità totale incoraggiando così la delinquenza singola e l’associazione a delinquere. Calcando poi la mano sulla situazione italiana, vengono riportati numeri relativi ai danni che la pirateria provocherebbe all’economia tricolore: meno un miliardo e mezzo di profitti per il software, 180 milioni per l’audiovisivo e 150 per la musica. A titolo di fonte per questi dati, viene citata una ricerca del 2003 di Kpmg.

Storie già sentite

Tra i firmatari della lettera, Dan Glickman, presidente della MPAA che riunisce produttori e distributori come Walt Disney-Buena Vista, Sony, Metro-Goldwyn-Mayer, Paramount, Twentieth Century Fox di Murdoch e Warner Bros. Inoltre sigla anche David Israelite, a capo di NMPA, che rappresenta 800 case discografiche e che fa proprio vanto il risultato della guerra contro Napster, Mitch Bainwol (RIAA) e BSA, AAP, IFTA ed ESA. Acronimi di per sé poco significativi che stanno però a indicare le associazioni di categoria di major musicali, del software, dell’editoria e dello spettacolo.

Insomma, sempre il solito e ritrito discorso tecno-belligerante alla Jack Valenti e alla Janet Reno. Malgrado le rassicurazioni di John Malcom, vicepresidente di MPAA, torna il leit motif secondo cui la rete è un covo di potenziali nemici pubblici contro cui va condotta una «personale guerra al terrorismo» perché «alcune organizzazioni criminali sembrano utilizzare i profitti realizzati con il commercio di prodotti contraffatti per favorire diverse attività, come il traffico d’armi, di droga e la pornografia». E questa cancrena sarebbe imputabile a «internet [che] rende più facile rubare, produrre e distribuire merci come software, musica, film, libri e videogiochi» (The threat of digital theft, incluso in The Industry Standard, dicembre 2000.)

Sempre Repubblica informa anche di due casi che hanno avuto per protagonisti Madonna e gli U2. La prima «per contrastare la diffusione di musica pirata, disseminò il web di files con i titoli delle proprie canzoni. Ma era una trappola: una volta aperti si ascoltava l’insulto della cantante rivolto all’ascoltatore: “Ma che c… credi di fare?”». I componenti della band irlandese, invece, «dopo essersi visti trafugare il master con i brani del loro disco How to dismantle an atomic bomb, firmarono un accordo con la Apple per mettere in vendita degli iPod (una speciale versione nera) contenente le canzoni dell’album».

Tutti colpevoli

Se il secondo caso è un ricorso a strumenti che possano ovviare a un danno pre-esistente, nel primo invece la colpa al solito viene addossata alle nuove tecnologie. Esattamente come accadde quando vent’anni e rotti fa vennero messi in commercio i primi videoregistratori. Al tempo uno studio di Cap Gemini Ernst & Young dimostrò come «la ‘crisi’ […] non era causata da chi registrava le cassette – la cui attività non si fermò [dopo l’arrivo di MTV, che mise in ulteriore allarme le major, NdR] – ma in larga parte derivava dalla stagnazione nell’innovazione musicale delle maggiori etichette discografiche». E poi forse i grandi produttori hollywoodiani dimenticano di essere stati proprio loro i primi pirati: a partire dal 1909, infatti, furono molte le nascenti realtà cinematografiche (tra cui la Fox) che fuggirono dalla East Coast e si rifugiarono sul litorale pacifico per sfuggire ai brevetti di Thomas Edison, fondatore della Motion Pictures Patents Company (MPPC). In California, infatti, avrebbero avuto modo di scansare più agevolmente i controlli del trust di Edison senza dovere nulla a nessuno.

E poi chi è un pirata? Per i colossali difensori della proprietà intellettuale, chiunque utilizzi Internet o le reti P2P per scaricare contenuti digitali di qualsiasi genere. E questi utenti sono così invisi da assumere ormai anche in Europa la fisionomia del malfattore tout cour. Senza mai distinguere tra categorie di “scaricatori”. Lawrence Lessig, in Free Culture, ne distingue invece quattro: 1) chi usa la rete per sostituire l’acquisto, cioè l’utente potenzialmente più dannoso; 2) chi ascolta e poi effettua scelte prima dell’acquisto un po’ come avviene con le cuffiette messe a disposizione da Ricordi MediaStore; 3) chi condivide materiale ancora coperto da diritto d’autore ma non più in commercio perché l’editore non lo ritiene più economicamente redditizio (e in questo caso chi è il danneggiato?); e 4) chi condivide unicamente materiale che si può liberamente distribuire. Di fatto, l’unica categoria veramente dannosa per gli introiti di chi fa profitto con i contenuti è solo la prima. Dunque, perché continuare a colpire tutti? Meglio continuare a terrorizzare invece di educare a un uso consapevole del diritto d’autore e alle distinzioni contenute nelle licenze d’uso?

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