La Lola della Bassa – 6

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La partenza di Carlotta

La Minguzzi era stranita dagli accadimenti di quel periodo. Il paese era sempre stato il paese e nessuno dei suoi abitanti, almeno quelli che rientrano nella categoria dei meno facoltosi, lo aveva mai lasciato. Sì, certo, qualche ragazza di buona famiglia se n’era andata per maritarsi bene lontano dalla casa paterna e l’imminente scoppio della guerra, a sentire il podestà, iniziava a prendersi gli uomini in forze per mandarli forse in Francia ad aiutare i tedeschi. Ma per il resto la loro vita si svolgeva lì, tra la piazza, la chiesa, l’edicola, le corti d’estate e le stalle d’inverno. Ci si conosceva tutti, per un incrocio familiare o per l’altro si finiva per essere cugini alla lontana e, se le partenze erano un evento, altrettanto lo erano gli arrivi, fatta eccezione per Lola e Ferruccio.
Curiosa com’era, la lavandaia aveva aspettato per diversi giorni di seguito la corriera del mattino che conduceva alla città dove fermava il treno. E si era stupita di non imbattersi mai nella signorina Antonietta. Eppure l’ultima volta che l’aveva incontrata diceva che se ne sarebbe andata il giorno successivo. Tant’è vero che da lì in avanti nessuno l’aveva più vista. Era pur sempre vero che avrebbe potuto prendere la corriera della sera e che la Minguzzi non era andata due volte al giorno alla fermata. Oppure poteva aver accettato un passaggio da qualcuno che passava dalle parti della stazione. Ma le sembrava improbabile. Antonietta difficilmente usciva di casa dopo una certa ora del pomeriggio, non era dunque possibile che si accingesse a un lungo viaggio in prossimità della notte. Inoltre, aveva sempre manifestato una certa diffidenza verso le automobili, con quei loro fanali che ricordavano tanto uno spettro dagli occhi illuminati, e verso chi le conduceva, nutrendo scarsa fiducia nelle leve da muovere per far partire e avanzare quei marchingegni.
Insomma, Irene doveva tenersela la sua bramosia di dettagli sulla nuova vita di Antonietta e attenderla senza mai incontrarla l’aveva lasciata con le sue domande senza risposta.
Ma un caso passi. Quando le sparizioni erano diventate due, allora una semplice curiosità dettata dalla sua indole da comare aveva lasciato il posto a qualcos’altro. Erano infatti giorni che bussava all’uscio di Carlotta senza ottenere risposta. Ormai s’era fatto venerdì e l’ultima volta che l’aveva incontrata era stato all’uscita della messa delle otto, la domenica precedente. Quando don Franco aveva permesso ai fedeli di andarsene in pace, le due donne si erano fermate per qualche minuto sul sagrato scambiandosi poche parole, come era loro uso.
«Signora Minguzzi,» l’aveva salutata con giovialità la maestra una volta all’aperto.
Irene, quella mattina, aveva fretta di rientrare a casa. Il cielo minacciava un bel temporale e la donna non aveva la minima intenzione di prendersi una lavata sulla strada del ritorno. Ma si era rassegnata di buon cuore a quelle quattro chiacchiere.
«Si direbbe che Nostro Signore sorrida agli abitanti del paese,» aveva proseguito Carlotta senza attendere che Irene ricambiasse il saluto.
«E perché mai?» aveva chiesto la Minguzzi. «C’è aria di guerra anche per l’Italia e comunque sta per venire a piovere».
«Oh, sciocchezze. Dalla guerra c’è chi ci protegge e un po’ d’acqua non può certo rovinare una così bella stagione.»
Irene era perplessa. Carlotta non era certo una donna che potreste definire una compagnona, semmai era di una cortesia allegra ogni volta che ci si imbatteva in lei. Tuttavia quella mattina c’era dell’altro: era eccitata come se le fosse stato promesso in regalo qualcosa così a lungo inseguito. E quando glielo fece notare, la risposta non fu quella che si sarebbe aspettata.
«Di meglio, signora Minguzzi, di meglio».
«Accidenti. E che ci può essere di meglio?»
«Ci può essere che lascio il paese e l’asilo.»
In quelle parole c’era tutta l’esuberanza di una ragazzina alla vigilia di una vacanza. Irene era sbigottita di fronte all’analogia della scena vissuta poche settimane prima con Antonietta: così simili la repentinità della partenza e il cambiamento anche fisico, oltre che morale, delle due donne.
«E per andare dove?» insistette la lavandaia.
«In Toscana, vicino a Firenze,» si affrettò a rispondere la maestra. «Là c’è una scuola privata, è tenuta da suore ed è venuta a mancare la direttrice. Le religiose ci tengono che a presiedere sia una laica e così vado io.»
Se la ragione era questa, non costituiva comunque una risposta ai tanti interrogativi che la mente di Irene formulava.
«Scusate, signora,» aggiunse infatti in meno di un momento. «A Firenze si libera un posto in un istituto e vengono a chiamare proprio voi? Non sto dicendo che non ne siete all’altezza, me ne guarderei bene, ma solo che mi sembra curiosa la scelta. Siamo talmente lontane da quella città.»
«Oh, avete ragione,» rispose Carlotta, «ma ultimamente avevo manifestato la mia intenzione di trovare qualcosa di più di un asilo tirato su alla bell’e meglio. Così la voce è passata da una bocca all’altra ed ecco che il mio desiderio si è realizzato.»
«E qual è la bocca che va ringraziata per questo?»
«Suvvia,» Carlotta incalzò Irene. «A volte penso che abbia ragione chi dice di voi che siete peggio della gazzetta ambulante.»
Irene non se l’ebbe minimamente a male per il commento così poco rispettoso un po’ perché Carlotta lo aveva detto senza un minimo di cattiveria e un altro po’ perché Irene non ci si raccapezzava in quel mondo che sovvertiva il ritmo di una vita di campagna e il destino a cui tutte loro erano predestinate dalla nascita, intessuto di rassegnazione, ripetitività e nessuna speranza in un futuro migliore.
«Allora, se non volete dirmi chi vi ha fatto da intermediario, almeno mi potreste dire quando contate di lasciare il paese…»
«Presto, davvero presto, prima di quanto io stessa speri.»
Detto questo, Carlotta si era accomiatata sempre tra caldi sorrisi mentre Irene la guardava allontanarsi.
Sarà stato un paio di giorni dopo, non più tardi di martedì, che la donna aveva ricevuto una cartolina da un’anziana parente della defunta madre, ma avendo dimenticato quel poco di alfabeto mandato a memoria decine d’anni prima, aveva pensato di chiedere alla maestra di leggerla per lei. La scusa le appariva buona per presentarsi a casa sua e tornare alla carica con altre domande.
Così, percorse le poche centinaia di metri che sepavano le due abitazioni, Irene si era presentata all’uscio di Carlotta e aveva bussato. Poi aveva bussato ancora, ancora e ancora. Una buona mezz’ora in cui la successione di colpi alla porta era stata intermezzata da sbirciate attraverso le finestre velate dalle tende e da giri intorno all’edificio per tornare all’ingresso e picchiare di nuovo sul legno duro e scheggiato. Ma niente quel giorno. E niente neanche nei successivi. La maestra era proprio andata via: non un saluto, un indirizzo, un’indicazione.
Rassegnandosi, quella sera Irene stava per riprendere la strada di casa quando finì quasi per inciampare nel gatto di Carlotta che, vuoi per la fame o per la scarsa attitudine a trascorrere le sue giornate fuori, aveva attaccato subito a strusciarsi contro le sue gambe.
«Anche tu non ne sai nulla?» aveva domandato alla bestia come se questa potesse rispondere. «Vieni con me. Se sei stato abbandonato, fai conto di aver trovato una nuova padrona.»
Senza aggiungere altro lo prese in spalla e tornò sui suoi passi.

Escono Permesso d’Autore e Libero come il software

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Pubblicato da Libera Cultura di Stampa Alternativa, esce con licenza Creative Commons il libro elettronico Permesso d’Autore, un viaggio tra gruppi informali, associazioni e aziende che fanno della propria professionalità strumenti per veicolare informazioni. Specificamente dedicato alla scena italiana, il libro si articola in capitoli-schede dedicati ad alcune di queste realtà sottolineando motivazioni di partenza, risultati raggiunti, consolidamento di network, strumenti software. E lo fa dando voce ai diretti protagonisti di questo genere di produzione culturale. Protagonisti accomunati dalla scelta delle licenze Creative Commons o della nota del copyleft letterario in modo che i contenuti siano quanto meno liberamente riproducibili.
A presentarsi, nelle pagine di Permesso d’Autore, sono Wu Ming, iQuindici, PeaceLink, il progetto F1rst, IlariaAlpi.it, Libera Cultura, Politica Online, Vita.it e l’Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica. Inoltre un bookmark finale traccia una linea di partenza per chi voglia intraprendere un viaggio autonomo nel mondo della libertà di cultura che parla italiano. Il libro vuole inoltre aprire la strada per un cantiere in costruzione, attraverso il relativo sito permessodautore.it, dove altri produttori di cultura libera potranno proseguire ed estendere la linea tracciata dall’autrice.
Contemporaneamente, sempre su Libera Cultura, è uscito anche il libro elettronico Libero come il software – Usare Internet con gli strumenti liberi e/o open source per comunicare, lavorare, imparare di Nicola Furini. Rilasciato sempre sotto licenza Creative Commons, il testo – si legge nella scheda – è un «saggio su una una forma di consumo critico e responsabile nell’utilizzo del software. Usare software libero significa dunque rifiutare i monopoli e la sudditanza nei confronti delle grandi multinazionali, ma anche per promuovere l’alfabetizzazione informatica, per una più equa distribuzione delle risorse (in termini di sapere, informazione, competenze, strumenti), contro un accesso riservato alla tecnologia, non alla portata di tutti». Nicola Furini, l’autore, è un giornalista e si occupa di comunicazione sociale e di nuove tecnologie applicate al mondo dell’informazione. Fondatore di un’associazione che promuove la pratica del consumo critico, Graces.it, dirige la rivista telematica Criticamente e ha curato lo sviluppo di webzine di informazione indipendente Grillonews.it.
Antonella Beccaria, Permesso d’Autore: percorsi per la produzione di cultura libera, 2006
Il testo integrale viene diffuso in tre formati: HTML, SXW (OpenOffice.org) e PDF:

  • File PDF (1010KB)
  • File HTML (290KB)
  • File SXW (81KB)

Nicola Furini, Libero come il software – Usare Internet con gli strumenti liberi e/o open source per comunicare, lavorare, imparare, 2006
Il testo integrale viene diffuso in due formati: PDF e RTF:

  • File PDF (980KB)
  • File RTF (2MB)

RevolutionOS atto secondo

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Esce a cura di Arturo di Corinto il cofanetto Revolutions OS II (Apogeo) che contiene DVD e libro. Il primo propone un film-documentario sul panorama tecnologico e culturale legato a software libero in Europa e in America Latina, mercato, pubblica amministrazione, attività sociali e formazione. Il volume invece raccoglie saggi di diversi autori: Angelo Raffaele Meo, Richard Stallman, Lawrence Lessig, Eric Kluytens e diversi altri. È in programma anche una prima dell’opera: si terrà alle 20 del prossimo 2 marzo a Roma, presso il centro congressi dell’università La Sapienza (via Salaria 113). Organizzata dal Lslug (Linux User Group della Sapienza), la serata avrà come tema il software libero in Italia e parteciperanno, oltre al curatore del libro e DVD, Vittorio Pagani (osservatorio open source del CNIPA), Roberto Galoppini (consorzio CIRS), Andrea Sterbini, dipartimento di informatica e seguirà un dibattito con il pubblico. Nel 2003 era uscito, sempre per i tipi di Apogeo, Revolutions OS curato da Alberto Mari e Salvatore Romagnolo, girato nella Silicon Valley.

Documentario sulla cultura libera e Open Source 2.0

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Un documentario di nove minuti sulla cultura libera. Ad averlo girato in gennaio durante il NYC Free Culture Summit sono Maggie Hennefeld e Thessaly La Force e il file è disponibile per il download su Internet Archive con licenza Creative Commons Attribution 2.5. Nel documentario si vede inizialmente la presentazione a consumatori di forme di distribuzione di musica alternative e prosegue con interviste allo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, a esponenti di Creative Commons e ad attivisti.
Inoltre una segnalazione editoriale. Per O’Reilly è uscito il libro Open Sources 2.0 – The Continuing Evolution scritto da Chris DiBona, Mark Stone e Danese Cooper. Il volume segue a sei anni di distanza Open Sources: Voices from the Open Source Revolution (disponibile anche nella versione italiana), ma rispetto al lavoro del 1999, non è (ancora?) disponibile la versione elettronica completa. Dal punto di vista dei temi affrontati, si focalizza sull’industria dell’informatica e affronta tematiche legate al business, alle pratiche e alle metodologie di sviluppo e alle analisi economiche. In attesa che venga tradotto anche in italiano, se ne può leggere una recensione di Bernardo Parrella, L’incessante galoppo dell’open source.

La Lola della Bassa – 5

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Il tesoro sulla collina

Carlotta frequentava bottega e retrobottega da prima dello scoppio della guerra. L’abitudine le era nata quando Lola aveva aperto e a solleticarle indole e tasche era stata l’insegna che di sopra la vetrina scandiva “Ex novo”. Non era frutto della padrona l’evocazione latina, ma di don Franco, il primo a prestare riparo a Lola e Ferruccio quando arrivarono dal sud.
Carlotta aveva cercato di cogliere il significato ripescandolo malamente dai magistrali indottrinamenti della scuola e lì per lì aveva immaginato che il negozietto vendesse articoli sacri per la somiglianza del nome con ex voto.
Chiarita la vera natura dei commerci di Lola, biancheria, tende e coperte di seconda mano erano andate a rimpinguare la dote dell’asilo. A una prima fornitura iniziale, che aveva fruttato alla proprietaria della bottega denaro sufficiente per affittare una stanzetta attigua da adibire a magazzino, ne erano seguite di successive. Carlotta era diventata un’affezionata cliente e, tra una chiacchiera, una lamentala sul maltempo e la simpatia che Lola ispirava ai cristiani, le due avevano imbastito un rapporto di confidenza.
Lola aveva così appreso della malattia della madre di Carlotta, dei timori che la follia materna fosse una tara finora silente ma che si sarebbe manifestata con il tempo, della soddisfazione che le dava occuparsi dei bambini del paese e della sua aspirazione a dirigere una scuola vera. Carlotta invece era venuta a conoscenza dei problemi che avevano costretti i coniugi all’emigrazione, delle gravidanze che non avevano generato figli ma angeli del cielo e del timore, accresciuto dall’incedere dell’età, che il suo ventre non le avrebbe mai concesso le gioie della maternità. «È una maledizione,» ripeteva Lola in quelle occasioni senza mai lasciare intendere che la maledizione fosse reale e non solo un modo di dire.
«Perché non mi permettete di leggere quanto il vostro futuro cela per voi?» chiese un giorno la bottegaia a Carlotta.
La domanda arrivava inattesa perché la maestra aveva interrotto da un po’ le pratiche che Lola le proponeva. Si era spaventata quel giorno in cui una folata di vento aveva scardinato una finestra del retrobottega. Una folata improvvisa e isolata in una giornata estiva che negava qualsiasi refrigerio e che si accompagnava al tentativo di entrare in contatto con il nonno della signora Tommasei, sua vicina: da una vita cercava il tesoro che l’avo aveva sotterrato dopo la battaglia del 1866 sul Monte Suello.
Approfittando dell’affronto tra esercito austriaco e garibaldini a cui l’uomo avrebbe dovuto dare man forte, era riuscito a penetrare l’accampamento straniero e a far razzia di preziosi appartenenti agli ufficiali. Unita l’Italia e il regno, se n’era tornato a casa favoleggiando sull’episodio. E se in paese c’era chi non aveva creduto a una fortuna sotterrata per timore di furti mentre la famiglia stentava a mettere insieme il pranzo con la cena, la signora non si dava per vinta. Giunta alla soglia della sua ultima età, aveva voluto giocare l’unica carta ancora intentata per entrare il possesso del tesoro del nonno e aveva chiesto aiuto a Lola. Con l’unico risultato di una finestra quasi spaccata da quello che Carlotta aveva interpretato come l’alito furioso del vecchio garibaldino.
Dopo quell’episodio erano trascorsi un paio d’anni senza invocazioni, lettura dei tarocchi e nemmeno racconti di quello che avveniva nel retrobottega in sua assenza. Carlotta era da Lola solo per mercanteggiare sul prezzo del sapone appena fatto: stavolta la bottagaia si era data da fare e dei quindici chili che ne aveva ricavato pensava di tirarci su qualche lira vendendone una parte.
«Ancora con la paura del fiato dei defunti, Carlotta?» la stuzzicò Lola. «Suvvia, meditate da tempo un grande salto, che vi porti lontano dal ricordo della malattia di vostra madre, un salto che vi renda libera e indipendente, ma non fate nulla per capire se è possibile.»
«Ho scritto a diverse scuole, mi sto informando, ho anche ricominciato a leggere vecchi libri in latino,» ribatté la maestra.
«E il latino vi dice se ce l’avrete o no il posto di direttrice?»
«Non è questo il punto. Il futuro è ancora là da venire e mi preparo al suo compimento.»
«Come volete. Se non accadrà niente, sono certa che comunque non ne farete una malattia per il tempo sprecato sui libri alla vostra età.»
Il battibecco tra le due donne andò avanti sugli stessi toni ancora per un po’: una tirava dalla parte del vaticinio, l’altra smorzava il desiderio che comunque nutriva di veder avverato il suo sogno. Ma la battaglia era impari: se Carlotta cercava di opporre la razionalità e la miscredenza agli inviti della bottegaia, quest’ultima conosceva l’arte del convincimento tanto quanto quella del mistero. E dalla sua parte pendeva anche la volontà di dare una mano a quella donna, che già di occasioni se n’era lasciata sfuggire in passato. E che infine capitolò sospirando.
«Va bene, consultiamo le carte.»
Lola la fece accomodare nel retrobottega, infilò le mani nel tavolino sfoderando i tarocchi ormai consunti e si apprestò alla lettura. Mescolò il mazzo e chiese a Carlotta di spezzarlo, dispose sul piano dieci carte che ricordavano una doppia T, la prima carta posizionata al centro, in parte coperta dalla seconda e le successive a venire.
«Iniziamo dal presente,» esordì Lola mentre girava i tarocchi e corrugava la fronte nell’interpretazione degli arcani maggiori. «Vedete l’appeso? Indica che vivete in attesa di un evento e che, finché non avrete conferma di esso, il domani per voi è incerto. Le stelle della seconda carta parlano delle influenze immediate, animate da una grande speranza che nutrite nell’evento. Poi la carta degli innamorati. Ma se possiamo escludere che voi serbiate una passione carnale per un uomo, allora vi leggo la ricerca di uno scopo che guidi la vostra vita.»
Lola proseguì l’interpretazione delle restanti carte. Il passato lontano di Carlotta era rappresenntato dal papa, ricerca della conoscenza, probabilmente attraverso le scuole che la donna aveva frequentato in gioventù. In quello recente, invece, il diavolo stava a indicare il fascino che un bene materiale esercitava sulla maestra.
«Che sarà mai questo bene? Quello del nonno della Tommasei?» domandò Lola interrompendo la lettura.
«Andate avanti, che di questo magari ne parliamo un’altra volta,» rispose la consultante.
Ecco allora che il futuro, indicato dalla carta che raffigurava il mondo, prometteva un trionfo mentre Carlotta, impersonificata da un bagatto, era percepita come uno spirito pratico, in grado di amministrarsi da sé. Occorreva attendere l’arrivo di notizie importanti, come suggeriva la carta del carro, e non bisognava temere l’arcano della morte, da interpretare positivamente come un cambiamento nella vita interiore. Quel che era certo per Carlotta, chiudeva l’eremita, era la solitudine di una vecchiaia senza figli e senza marito, ma questo già si sapeva e non sarebbe costato alla donna rimpianti.
«Avete visto, Carlotta, abbiamo finito senza venti pestiferi e spettri irriverenti,» riprese Lola.
«Già, ma quelle carte non mi hanno detto nulla che non sapessi. Che razza di lettura del futuro è mai questa se non mi racconta quello che sta per succedere?»
«Gli arcani lo dicevano che siete una donna pratica e la vostra praticità non vi permette di interpretare il responso oltre il suo primo significato.»
«Mi state offendendo, Lola? State dicendo che sono rincitrullita?»
«Non voglia il cielo. Sto parlando d’altro: finora avete affrontato tutto voi, da sola. È il momento di cambiare atteggiamento e di permettere che il carro che porta i cambiamenti sia guidato da una voce amica. O, almeno, che quella voce amica vi indichi la direzione, se non volete far posto a un altro conducente.»

La Lola della Bassa – 4

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Il sapone del diavolo

Lola stava versando in nove pentoloni gli ingredienti che completavano la sua ricetta: acqua a volontà e soda caustica. Per la donna, fare in casa il sapone era un passatempo, senza contare il risparmio di quella scorta domestica, con tutti i panni usati che andavano rimessi a nuovo prima di essere venduti.
Lola era metodica. La riuscita della sua ricetta dipendeva da due fattori: da un lato, la qualità del minestrone saponato che cuoceva e, dall’altro, la quantità degli elementi che mescolava, consapevole che un errore nel bilanciare grassi e soda poteva compromettere tutto il lavoro. La sua metodicità si rivelava anche nella vestizione: i guanti spessi per maneggiare la soda e il sapone appena fatto, una garza davanti agli occhi per evitare che qualche goccia le azzoppasse la vista e una sciarpa di cotone, ripiegata più volte, davanti al naso e alla bocca per schivare i vapori.
Poi non dimenticava mai che doveva essere la soda a essere versata nell’acqua: il contrario avrebbe generato una reazione i cui fumi e schizzi potevano procurare una serie di inconvenienti. Inoltre manipolava lo zuppone solo attraverso una serie di mestoli di legno lunghi e resistenti.
La serva Maria era atterritta ogni volta che la padrona procedeva con il rituale del sapone. L’improvvisa sparizione di Lola, della durata di un paio di giorni, stava a significare che era a caccia degli ingredienti e la domestica non era mai riuscita a sapere con precisione da dove saltassero fuori in dosi così cospicue. Anche la bardatura la intimoriva, rievocando al suo animo superstizioso immaginarie visioni dell’angelo decaduto che prepara demoniache pozioni. Costretta ad aiutarla ogni volta, all’inizio Maria aveva rifiutato qualsiasi bardatura. Ma aveva finito con lo scottarsi il collo senza che nemmeno un’abbondante colata di aceto potesse lenire ustione e spavento. Così si era rassegnata all’abbigliamento protettivo, ma l’implacabile timore andava a nutrire la sua ritrosia, atavica e irrazionale, verso quella casalinga fabbrica del sapone.
Nei giorni precedenti, la serva aveva capito che di lì a poco si sarebbe trovata nuovamente a mescere sapone liquido perché, ancora prima della sparizione, Lola aveva sistemato sotto le grondaie della corte una serie di tinozze per la raccolta dell’acqua piovana. La padrona le aveva spiegato che l’acqua distillata avrebbe reso migliore il risultato. Ma in periodo di guerra la scarsità era la regola e in sua mancanza occorreva ingegnarsi. Guai a rovesciare la pioggia raccolta: le sarebbe costata una battuta con un telo bagnato.
Preparare la saponificazione era un rituale che procedeva in modo sempre identico. Lola riappariva dai due giorni di assenza con diversi tegami che contenevano un grasso simile allo strutto e spiegava alla rozza donna di servizio che a darglielo era Mario, l’allevatore di maiali: a ogni macellazione, lo teneva da parte apposta per lei in cambio di lenzuola, tovaglie o tende da regalare alla moglie.
Il grasso veniva lungamente bollito nei pentoloni con la soda caustica e l’acqua piovana. Quando la saponificazione arrivava a termine, le due donne aggiungevano abbondanti mestolate di sale comune, ingrediente necessario perché si separassero il sapone e la lisciva. Quest’ultima poi subiva un ulteriore processo per essere purificata e successivamente utilizzata come sbiancante per il bucato. Nel frattempo, il composto veniva rovesciato in tegami bucati sul fondo dei quali era stata sistemata la garza per la raccolta del sapone. Dunque, le due donne pressavano la sostanza ancora plasmabile e la riponevano a stagionare per poterla riutilizzare quando la sbobba avesse raggiunto la consistenza necessaria.

Millelire liberati

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Una buona notizia da Lettera 22, editoriale di Stampa Alternativa scritto dal suo direttore, Marcello Baraghini. Con l’avvio – anzi, l’evoluzione – del progetto Libera Cultura, parte la riedizione dei celebri libri Millelire, disponibili per il download sul sito della casa editrice e rilasciati con licenza Creative Commons. L’iniziativa si inquadra in un ambito più ampio che prevede il lancio di un nuovo filone editoriale per Stampa Alternativa e che comprende anche titoli nuovi.

Virus, video e peer to peer

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Un elenco di filmati e interviste a giornalisti, politici, scrittori sulla situazione politica in Italia. Il progetto si chiama Viral Video e contiene interventi di Marco Travaglio, Peter Gomez, Gianni Barbacetto, Massimo Fini, Gianni Vattimo e diversi altri. Un buon training per la presentazione del libro Inciucio. I materiali originali prodotti dal progetto sono rilasciati secondo la clausola di copyleft: «Chiunque può copiare o diffondere i materiali del Viral video project gratuitamente a condizione che non ne venga fatto un uso commerciale o che vengano manipolati e/o trasmessi in modo non integrale».

La Lola della Bassa – 3

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Addio ad Antonietta

La Minguzzi stava attraversando piazza XX Settembre quando si imbatté in Antonietta. Un anno e sette mesi erano trascorsi dalla morte della figlia. Ed ecco lì che la madre addolorata sembrava d’improvviso trasformata in un’altra donna: era appena uscita dal parrucchiere che aveva oscurato le striature bianche infittitesi dopo la disgrazia. Le mani, inoltre, non apparivano più quelle di una stiratrice di vecchia data: erano diventate più mordibe, più bianche, malgrado fossero ancora visibili bruciature che solo un miracolo avrebbe potuto cancellare.
Ma a colpire la comare furono soprattutto portamento e sguardo della donna: il primo era eretto mentre il secondo era parallelo alla strada, confinando nel passato gli occhi chini e le spalle incurvate, liberi dall’ombra che Antonietta si trascinava da una vita e che dopo la scomparsa di Lietta si era fatta più incombente.
«Vi trovo bene, signorina,» l’apostrofò Irene con una punta di invidia che non conteneva cattiveria premeditata, ma solo un’aspirazione repressa a una vita migliore a quella di una lavandaia.
«Sì, parto, vado via. Ho trovato da andare a servizio da gente di Cerveteri. Sono gente benestante, nobili e imparentati con un monsignorone. Hanno bisogno di una governante che stia dietro ai bambini, ne hanno quattro, e che faccia attenzione a camerieri, cuoche e inservienti. Abitano in una villa con diciotto stanze e una, anzi no, che dico, due saranno tutte per me. Non metterò più le mani nell’amido e non dovrò più andare in bicicletta con il bello e con il brutto a riconsegnare i panni stirati.»
Le parole di Antonietta uscivano a raffica e Irene era stupefatta. Ma come? Non ne aveva saputo niente, nemmeno una parola era circolata in paese e ora questa poveretta, senza arte né parte, andava a servizio dai parenti di un prelato. Ne voleva sapere di più.
«Oh, ma cosa mi dite? Ci lasciate così? Ma spero che non vi dimenticherete del paese e di chi vi ha prestato una parola buona nelle disgrazie del passato. A quando il trasferimento? E come avete fatto a inciampare in tanta fortuna?»
Fu così che Irene venne a sapere che la data della partenza era per il giorno successivo, di primo mattino, e che il contatto veniva dalla città. Antonietta sapeva quanto facilmente la sua interlocutrice potesse far rimbalzare la notizia per l’intero paese e voleva – anzi doveva, contrariamente a Irene – restare sul vago. Era stata fortunata: conosceva una persona che conosceva un’altra persona che conosceva il religioso. Il quale si sarebbe lamentato della difficoltà nel trovare gente di servizio come si deve, della mancanza di fiducia di cui i cugini di Cerveteri soffrivano verso i domestici e di come la governante precedente avesse iniziato tempo addietro a trascurare i suoi doveri nei confronti dei bambini e dei genitori che la stipendiavano. Così era arrivato il turno Antonietta, l’occasione per riscattarsi.
«Ma come avete fatto a organizzare il vostro trasferimento così velocemente?»
«Non c’è molto da organizzare. Il tempo di sentire la proposta, vedermi offerta una paga che neanche con mille camice alla settimana mettevo insieme e la decisione era presa.»
«Avrete bisogno di qualcuno che vi aiuti, che porti le valige e pacchi. Un trasloco non si fa dalla sera alla mattina.»
«Nessuno mi aiuterà perché non porterò con me quasi nulla. Solo la foto di Lietta troverà posto nella mia borsa. Il resto lo venderò e così metto da parte due lire per quando mi ritirerò.»
Se, parlando del “resto”, Antonietta intendesse vestiti e mobili che possedeva, aveva poco da star tranquilla in vecchiaia. Ma se comprendeva anche la casa dei suoi genitori, scomparsi l’inverno precedente con l’epidemia d’influenza che aveva accompagnato i freddi straordinari di quei mesi, allora il discorso cambiava. Era una casa di contadini, mattoni d’argilla e coppi rossi, niente di lusso, niente di cui avesse potuto godere dopo il concepimento della bambina, ma valeva pur qualcosa e, in attesa che la guerra finisse, poteva anche diventare una rendita appetitosa.
«Vendere? E chi venderà se voi sarete via?»
«È già tutto organizzato. Non ho niente di cui preoccuparmi»
«Sarò la benvenuta se verrò a farvi visita?» buttò lì Irene in preda a una curiosità che le bruciava dentro.
«Sarà mio piacere,» rispose Antonietta, consapevole, come lo era la comare della sua curiosità, che Irene non stava dimostrando interesse per lei, ma per quell’inaspettata vicenda che mai, da quelle parti, aveva visto come protagonista una donna povera e limitata come lei.
«Vi auguro ogni bene,» concluse la Minguzzi. Ormai aveva capito di non poter scucire altri particolari all’Antonietta rifiorita che il mattino successivo sarebbe salita su un treno per non fare più ritorno da quelle parti.
«Grazie,» si accomiatò l’ingenua. La quale, ascoltando i previdenti consigli dell’artefice di quell’occasione, si scopriva d’improvviso meno sprovveduta di fronte alla brama di chi voleva unicamente sapere senza averne titolo.
A Irene non restò che seguirla con lo sguardo mentre Antonietta tornava al suo cammino. Ma non stava rincasando. Lasciata via Garibaldi, la vide svoltare in via Roma e scomparire dietro l’angolo. Si affrettò dunque a raggiungere l’incrocio e a celarsi dietro il muro, ma di Antonietta non c’era traccia. A lasciar presagire la sua destinazione, lo scampanellio d’ingresso del negozio di Lola che si ripeté di lì a qualche momento preannunciando l’entrata nella sua visuale di Carlotta Galeppi.

La Lola della Bassa – 2

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Il caffè dei morti

La prima volta che Antonietta aveva scostato il paravento del retrobottega nutriva un misto di vergogna, imbarazzo e speranza. Temeva anche per le sorti dell’anima sua. Don Franco, ai vespri, aveva tuonato contro le pratiche del diavolo e aveva promesso eterna dannazione per chi violava le leggi delle sacre scritture sedendosi ad amabile conversazione con chi aveva varcato le soglie del non ritorno. Antonietta però non si spiegava del tutto il motivo per cui don Franco visitava così spesso il negozio di Lola.
«Come rammenda lei i paramenti non lo fa nessuno» soleva ripetere il sacerdote con pubblico scorno della perpetua.
«Ma com’è che i paramenti sono sempre strappati?» si domandava talvolta Antonietta rivolgendo subito dopo uno sguardo al cielo per chiedere alla Vergine Maria l’assoluzione per aver dubitato delle parole del prete.
«Venite, accomodatevi là e ditemi cosa posso fare per voi» la riportò alla realtà la voce di Lola.
Antonietta aveva preso posto su una sedia la cui imbottitura lasciava intendere l’esatta dislocazione dei grumi di lanugine e raccolse le mani in grembo.
«Ditemi» l’aveva sollecitata di nuovo la padrona di casa vedendo che la sua ospite esitava ancora. Ma le parole si confondevano nella testa di Antonietta e la timidezza dava un calcio a qualsiasi frase le venisse in mente. Alla fine si risolse per un intercalare semplice.
«Lietta, la mia bambina, è mancata un anno fa e non mi so dar pace. La casa è vuota e non parlo con nessuno.»
Lola aveva assentito a quelle parole, lo sguardo tramutato in consolazione per chi, come lei, aveva conosciuto la desolazione della perdita di un figlio. E tra le due donne si era instaurata una sorta di solidarietà più simile a un sentire corporativo piuttosto che a un lutto che univa due madri orfane dei frutti del loro ventre.
«Dunque volete chiamare la vostra piccola. Ma non vi aspettate ora che posiamo le mani sul tavolino e che questo si metta a scalciare come un cavallo» aveva esordito Lola. «No, no, no. Io sono una persona seria, mica come quelli che dicono che vi fanno parlare con i defunti e poi c’hanno qualcuno nascosto dietro la tenda.»
Antonietta, fino a quel momento, sguardo basso, non aveva ancora osservato il retrobottega. Volgendo gli occhi intorno, vedeva una stanza spoglia, a esclusione delle due poltroncine su cui erano sedute e di altre due vuote, un tavolo di legno povero e una lampada retta da un lungo stelo che risaliva la parete, sulla sinistra. L’ambiente le appariva trasparente, senza minacce né imbrogli, e il suo animo si dispose a entrare in contatto con la figlia.
«Che devo fare?» chiese a Lola.
«Dovete solo bere il vostro caffè» e con un tuonante «È venuto su?» si rivolse a un secondo paravento che dava – Antonietta lo avrebbe visto quando sarebbe entrata la serva, Maria – sulla cucina.
Ed ecco Maria che, mettendoci del suo per non commettere sacrilegio rovesciando il caffè dei defunti, avanzava cauta con lo sguardo fisso sul bordo della tazzina.
«Bevete, cara, e poi vuotate i fondi su quello straccio» disse indicando una pezza lisa ma pulita che stava sul vassoio.
Antonietta eseguì con coscienza nonostante il sapore amaro di quel caffè il cui retrogusto poteva sapere di bruciato o di qualche radice aggiunta a titolo di aroma della casa.
«Vediamo…» attaccò Lola.
«Mi scusi, ma non mi interessa il futuro. Mi interessa solo la mia Lietta».
«Lo so» controbatté Lola, pronta a quella rimostranza. Erano tutte così le sue ospiti, imbevute di superstizioni antiquate: il caffè per predire il domani, le budella dei polli per il malocchio, le facce spiritate per conversare con i trapassati. Da quegli schemi non si usciva mai con nessuna delle novizie del retrobottega.
«Fidatevi, so quello che faccio. Lietta vi parla ogni giorno attraverso il caffè, solo che voi non sapete leggere La Domenica del Corriere, figuriamoci i fondi.»
«Oh, questa è bella. I morti parlano ai vivi con il caffè?»
«Non lo sapevate? A me l’ha insegnato una zingara che era venuta al paese, prima del terremoto. Era brutta come la peste, aveva una voce da corvo e si diceva che portasse male a chi la vedeva. Detto tra noi, un po’ era vero, ma ne sapeva sull’aldilà molto più di don Franco. Ve lo dice la Lola.»
Antonietta era disorientata e avvertiva un senso di nausea. Allora voleva dire che si beveva la figlia morta tutte le volte che pigliava un caffè? Ma com’era possibile, visto che non aveva mai sentito la pancia muoversi dopo aver buttato giù quello che faceva lei con la moca a casa? Il pensiero di digerirsi Lietta da un anno senza avere minimamente idea che la disgraziata le stesse inviando messaggi fece aumentare il malessere. E prima di Lietta chi si era digerita? La madre? Il fascista crepato di diarrea? E ora non è che si faceva tutti i giorni un’insalata mista di morti, vero?
«Forse» pensò la stiratrice «è per questo che ho sempre bruciore, ma non sento mai muoversi nulla.»
Sbrigata la spiegazione sul caffè, Lola spinse avanti il naso e gli occhi le caddero in picchiata sulla pezza.
«Non va mica bene, signorina Antonietta. Bene per niente.»
«Perché? Cosa sta dicendo Lietta?» risposte la sconsolata madre senza nemmeno accorgersi che, invece degli occhi, tendeva allo straccio le orecchie, quasi a voler cogliere un qualunque suono che le confermasse che la figlia era lì.
«La ragazza è ancora in convalescenza.»
«In convalescenza?»
«Sì, in convalescenza, non si è ancora ripresa dal tetano.»
«Ah, giusto… Macché giusto! Mia figlia è morta, non è convalescente. Altrimenti che ci venivo a fare qua?»
«Be’, una visita di cortesia è sempre gradita. Comunque sia, che credete? Che quando uno crepa, rinasce dall’altra parte bello e vispo come mamma sua l’ha fatto? Ma andiamo: se uno ha avuto il tetano, deve passargli l’avvelenamento del sangue. E se a uno gli si è rotta la testa, ha da aspettare che le ossa si aggiustino.»
Antonietta era sempre più disorientata: prima i morti parlavano nel caffè, poi dovevano guarire perché in vita avevano avuto qualche disgrazia. Questa Lola era davvero strana. Fosse mica matta? E poi rammentò quanto le aveva detto la Minguzzi, donna dalla lingua sbarazzina ma sincera. «Non vi stupite troppo, dice cose che il papa la scomunica domani mattina, ma ci azzecca.»
Così decise di prendere per buone le parole della donna.
«Va bene, scusate. Che dice altro Lietta?»
«Vuole darvi dei consigli. “Mamma, sei stata qui tutta la vita e non ci hai ricavato una carezza né un soldo. Lascia tutto e vai via. Non ti curare dei vestiti e delle cose, prendi, parti, vai. Fatti aiutare dalla signora Lola, che conosce gente in centr’Italia e ti può trovare un lavoro a servizio da qualche brava persona che si curerà di te, magari più dei signori di campagna, e che ti assisterà nel bisogno. Vai, mamma, e ascolta la signora Lola”.»
Ma quante parole pronuncia Lietta in pochi fondi di caffè? Quella bambina che non fiatava neanche se interrogata ne aveva presa di parlantina dopo il trapasso. Come se non bastasse, la sollecitava a lasciare, alla sua età, il paese. Magari le era dato di volta in cervello, con tutta quell’umidità presa al camposanto.
«E c’è dell’altro» riprese Lola.
«Dell’altro?»
«Sì, dice che anche se voi non sapete leggere né la Domenica del Corriere né i fondi del caffè continuerà a parlarvi. Venite da me tra una settimana con tutti i fondi e vi metterò bianco su nero le parole della vostra figliola. Ve le leggerò io, le lettere della Lietta, non vi preoccupate, e poi potrete conservarle per farvele leggere da qualcun altro: così saprete che non vi prendo in giro. Chiunque leggerà le lettere che vi darò, vi ripeterà le mie stesse parole.»
Antonietta, se fosse stata meno turbata e meno Antonietta, a quel punto si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata senza salutare né rimettere mai più piede nel retrobottega. Ma la fiducia riposta in Lola e la sua mente semplice, poco agile nel cogliere le truffe, figuriamoci il loro puzzo, non aveva afferrato le molteplici chiavi di lettura nelle parole della sua interlocutrice. E anzi, levandosi dalla poltroncina, affermò con un po’ più d’animo rispetto a quando era entrata: «Voglio pagare il vostro disturbo. Mi dovete dire quanto vi devo per l’aiuto.»
«Non vogliate offendermi, signorina Antonietta, non vogliate. Non pratico per denaro o, almeno, non sempre. Con voi niente soldi, ho deciso, e non se ne parli più. E poi, cara signorina, non avremo forse tutti noi una ricompensa per quanto facciamo?»
Antonietta, attraversando di nuovo il paravento, intravedeva l’uscio e una schiarita nel suo futuro. Lietta le avrebbe parlato ancora e le stava indicando una strada alla fine della quale, forse, avrebbe avuto anche lei la meritata ricompensa di cui parlava Lola. Che Lola avesse la sua, era sacrosanto. E mentre affrontava il marciapiede con falcate rinvigorite, si ricordò che non aveva chiesto se i fondi doveva conservarli caffè per caffè oppure se ammucchiarli tutti insieme con il rischio che le parole della mischia diventassero un vociame da non cavarci niente di sensato.