Anonymous, il nom de plume del collettivo che torna sempre più spesso in rete e sulle pagine dei giornali, ha colpito un’altra volta. Un’azione dimostrativa, non invasiva, un DDoS, che sta per Distributed Denial of Service, ha piegato la resistenza e la capacità del sito della polizia di Stato di rispondere alle richieste degli utenti web. Ed ecco la risposta, servizio negato. In parole molto semplici, funziona un po’ come a un casello autostradale. In periodi di traffico normale, anche senza Telepass o carte di credito, si passa attraverso le barriere con relativa rapidità. Quando però gli esodi estivi intensificano il traffico, tutto si rallenta. Se un normale esodo vacanziero dovesse tuttavia essere moltiplicato per dieci o per cento, allora ecco che il problema si farebbe serio e con ogni probabilità il deflusso dei veicoli si interromperebbe.
È questa, in soldoni, la logica di un DDoS, anche di quello che a fine inverno è stato scagliato contro il sito della polizia. Un monito contro l’uso dei manganelli, contro i manifestanti spinti lontano dalle recinzioni che delimitano i cantieri, contro il quasi morto che c’è scappato qualche giorno prima nel tentativo di difendere aree che diventeranno prima piste per mezzi di movimentazione terra e poi binari per convogli che schizzano a centinaia di chilometri orari.
L’hacker che ha partecipato all’attacco sorride ancora quando torna a fissare il monitor. Sì, è stato facile, in così poche persone da non superare il numero delle dita di una mano e con software di media aggressività che decuplicano le richieste a un server web. E poliziadistato.it è andato giù. Tornerà disponibile in poco tempo, dall’altra parte gli amministratori di sistema si stanno già dando da fare. E se anche avessero tentato la deviazione del traffico web in altre direzioni, come avviene in casi analoghi per far sì che il sito non venga oscurato, riavvieranno i servizi Internet non appena la valanga di byte sarà passata e tutto tornerà alla normalità.
Vero, ma un’altra prova di forza è stata vinta. E se provate a immaginarvelo, l’hacker sorridente, non chiedetevi se è biondo o moro. Se ha le basette o gli occhi strabici. Pensate solo a un volto, lo stesso moltiplicato in tutto il mondo per centinaia di migliaia di individui che concorrono a rendere Anonymous grande. E più Anonymous è grande, più è giusto nelle rappresaglie che compie contro obiettivi che deviano da un’etica condivisa in base alla quale tutti sono uguali, hanno diritto a essere rispettati e non possono essere sottoposti ad alcuna forma di soffocamento intellettuale.
Il collettivo più noto e più magmatico degli ultimi anni sembra possedere l’animo iroso di un Dio biblico che interviene a gamba tesa quando nel mondo che ha creato si calpesta la regola. E ha il volto, uno solo per tutti, di una maschera, la stessa che oggi simboleggia anche i movimenti Occupy. È quella del cospiratore cattolico nella Gran Bretagna del XVII secolo Guy Fawkes, volto posticcio divenuto un simbolo con il film V per Vendetta dei fratelli Larry e Andy Wachowski, a loro volta in debito d’ispirazione da Alan Moore e David Lloyd, rispettivamente sceneggiatore e illustratore dell’omonimo personaggio a fumetti.
È una maschera dall’espressione beffarda, leggermente sorridente, come l’hacker che ha contribuito ad abbattere il sito della polizia. Disegnati baffi aguzzi e pizzetto alla Zorro, altro simbolo della giustizia extra giudiziaria fin dai tempi in cui Johnston McCulley ne pubblicava a puntate le avventure su All-Story Weekly. Era il 1919 quando nacque l’ormai più che proverbiale Don Diego Vega ed è una Gran Bretagna dispotica e apocalittica quella di V per Vendetta. Ma il concetto, anche oggi, nell’Europa contemporanea, in Israele, negli Stati Uniti o nell’ex Unione Sovietica, è sempre lo stesso. In una società che a parole si dichiara giusta, ma nei fatti razzola sempre peggio puntando a un controllo orwelliano e non ammettendo defezione alcuna, occorre agire.
Si è detto che le nuove guerre si combatteranno più che sui campi di battaglia, pur ancora numerosi, a cavallo delle dorsali oceaniche che uniscono i continenti legandoli insieme nella Reti delle Reti, Internet in primis. Ed è vero. Ecco allora che pochi anni fa è comparsa l’armata di Anonymous, giustizieri telematici che ricordano i film di John Carpenter. A guardarli da lontano, a mettere in sequenza le loro azioni, sembrano i cacciatori della pellicola Vampires e ancor prima del romanzo di John Steakley da cui il lungometraggio è stato tratto. Hanno una buona dotazione, i derattizzatori di vampiri, localizzano i non morti che si nutrono parassitando i vivi e fanno irruzione non appena le condizioni si delineano favorevoli. Ma gli Anonymi non lavorano per qualcuno, al contrario degli ammazzavampiri di Steakley-Carpenter che sono al soldo del Vaticano (il titolo originale del romanzo aveva, al posto della esse finale, il simbolo del dollaro).
Gli Anonymi non ricevono compensi per le loro azioni, sono mossi da un senso di giustizia che non si può definire tutto loro, ma che trae ispirazione da un glorioso passato di lotte per le libertà, digitali o meno che siano. Hanno un pedigree di tutto rispetto. Usando sistemi semplici, ben rodati e del tutto efficaci, hanno mandato knock-out i sistemi elettronici della Cia e del Fbi, del governo egiziano e di società che si occupano di intelligence privata. Ci sono poi stati i tentativi di Cina, Siria e Iran di limitare le informazioni veicolate attraverso i social network, Twitter prima di altri, o fruite attraverso i circuiti giornalistici internazionali. E questo non è accettabile. Così, invece delle incursioni, nei casi di filtraggio delle informazioni, Anonymous ha funzionato da supporto, spiegando agli attivisti di Medio ed Estremo Oriente come scavalcare le barriere innalzate per volere governativo. In altre parole hanno costituito una base per aggirare la censura.
In Italia, rimane un fiore all’occhiello delle punizioni inflitte da Anonymous l’attacco a Vitrociset, azienda privata a cui è demandato il compito di gestire i dati che transitano sulle reti informatiche delle forze dell’ordine. Informazioni ad alta, altissima sensibilità, si presuppone. Quando Vitrociset è stata violata, l’intrusione è avvenuta con una “semplicità disarmante”, ha dichiarato un Anonymo italiano alla trasmissione televisiva Le Iene in una delle primissime interviste pubbliche. Una semplicità che si è ripresentata invariata, come se nessuno avesse mano ai sistemi, per tre volte consecutive tanto da convincere gli Anon tricolori “di quanto lo Stato spenda soldi in maniera davvero inappropriata. Una volta violato il sito, ci siamo accorti che si poteva arrivare ai dati di migliaia di cittadini italiani e delle forze di polizia”.
Poi, in ordine sparso, nel mirino di Anonymous è finita l’Autorità garante delle telecomunicazioni, i siti di governo e delle due Camere del parlamento (e per il Senato della Repubblica gli hacker hanno rivelato l’esistenza di un buco di sicurezza che, se non corretto, avrebbe consentito lo scippo delle password delle caselle di posta elettronica). È avvenuto quando c’era il rischio che fossero introdotti per legge bavagli all’informazione attraverso un irrigidimento delle norme sul diritto d’autore e con la modifica delle leggi sulle intercettazioni. Poi, sotto i colpi elettronici dei giustizieri della rete, è finito anche il sito della polizia penitenziaria per protestare contro la violazione dei diritti basilari dei detenuti.
Ampliando l’ottica a livello mondiale, una ricerca condotta da Verizon Business, corporation a stelle e strisce che si occupa di servizi informatici, sicurezza compresa, ha stimato che solo nel 2011 i dati “liberati” dagli hacker di Anonymous sono stati quasi 100 milioni. Nel presentare il suo annuale Data Breach Investigations Report – compilato dal Risk Team della società che ha sede ad Ashburn, in Virginia, con la cooperazione di squadre specializzate delle polizie di Australia, Olanda, Irlanda e Gran Bretagna, oltre che dei servizi segreti statunitensi – Verizon ha usato un titolo che la dice tutta: “Il 2011 è stato l’anno dell’‘hacktivism’” che, si legge nel testo a introduzione, “si rivela in drammatico aumento”, così come il cyberattivismo, “per far progredire istanze politiche e sociali”.
“Al suo quinto anno di pubblicazione”, viene scritto più oltre, “il rapporto ha preso in considerazione 855 violazioni e la sottrazione di 174 milioni di dati facendo registrare al Risk Team di Verizon il secondo picco più elevato di sempre”. Una tendenza, in base all’elaborazione degli analisti made in Usa, in contrasto rispetto agli anni precedenti, dove le violazioni erano da attribuirsi a lucro e non a forme di lotta al sistema. Trentasei le nazioni in cui si sono verificate e 22 i Paesi che l’anno prima non avevano subito attacchi informatici.
Sono dati, questi, che preoccupano gli operatori professionali, la cosiddetta sfera business dell’information technology, quella che ama far quattrini tanto quanto infilare inglesismi anche nell’ordinare l’italianissima pizza. Ma al contempo sono dati che fanno tripudiare tutti coloro, hacker in senso stretto o meno, che hanno a cuore la libertà della rete Internet. Sembrano di tornare a bomba ai tempi dell’information wants to be free, lo slogan che storicamente, da decenni a questa parte, ha contraddistinto i cyberattivisti, che fossero addetti alla sicurezza informatica, sviluppatori di software, giornalisti, autori di controinformazione, agit-prop, situazionisti o net artisti.
Iniziamo dall’inizio, allora. Per comprendere meglio il fenomeno Anonymous iniziamo dal termine hacker, divenuto famigerato con il tempo perché usato in modo indiscriminato come sinonimo di criminale informatico. E invece non è così. Fare hacking, ancor prima di esercitare capacità tecniche, significa dimostrare una tendenza intellettuale volta alla comprensione, mossa da una viscerale curiosità e finalizzata a vietare i divieti.
Un hacker è una persona che incide mettendo le mani (dal verbo “to hack”) in qualcosa. Il New Hacker Dictionary, trattazione immancabile di ogni informatico e cyberattivista al pari del leggendario Jargon File, elenca otto definizioni del termine. Le prime cinque, correlate tra loro, hanno a che fare con la programmazione e i sistemi elettronici. La sesta si riferisce a “un esperto o a un entusiasta di qualsiasi tipo. Per esempio c’è chi potrebbe essere un hacker dell’astronomia”. La settima ha a che vedere con “chi si diverte cimentandosi in sfide intellettuali volte a superare o ad aggirare a colpi di creatività le limitazioni che incontra”. L’ultima definizione, l’ottava, indica infine un uso deprecato del termine hacker, inteso come “un ficcanaso malevolo che tenta di scoprire informazioni sensibili frugando in giro […]. Il vocabolo corretto per questa declinazione del termine è cracker”, colui che rompe, che forza (in questo caso dal verbo “to crack”).
Chiariti per sommi capi i confini semantici della questione, più estesi di quanto a mezzo stampa si voglia far credere, questi entusiasti della scienza e della cultura sono raccontati in modo indimenticabile nel libro Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica dello scrittore americano Steven Levy. Il quale, per tratteggiare i suoi (nostri) eroi, parte dagli inventori e dagli operatori di monoliti che si trovano al Massachusetts Institute of Technology di Boston negli anni Cinquanta, come l’Ibm 704, e arriva fino a Richard Stallman. Questi, “l’ultimo grande hacker”, è stato di certo un rivoluzionario e lo è ancora. Forte di una determinazione stoica e non priva di bizzarrie comportamentali, Stallman ha deciso oltre trent’anni fa che la conoscenza non poteva essere lucchettata in periodi in cui il ricorso sempre più frequente a diritto d’autore – o copyright, essendo negli Stati Uniti – e a brevetti rappresentava l’alba dell’ingordigia delle corporation, in via di arricchimento con i proventi dell’immateriale e sfruttando le menti di giovani e geniali intellettuali.
Stallman così si inventò la Free Software Foundation e le licenze libere per il software. Quelle che dicono che “free” non significa “gratuito” (“free as in free speech, not as in free beer” è una delle sue massime più note), ma che prima di tutto devono essere rispettate quattro libertà fondamentali: di utilizzo, copia, modifica e ridistribuzione di un’opera intellettuale, quale il software è. Fu un successo culminato, a livello di strumentazione tecnologica, con Linux, risultato del lavoro di un programmatore finlandese, Linus Torvalds, che lo ha reso disponibile rispettando le libertà di cui sopra e che ha assunto il nome corretto di GNU/Linux, a indicare il marchio della Free Software Foundation.
Parallelamente, in ambiti non tecnologici, si passava dal movimento del “no copyright”, un non senso giuridico in base all’istituto del diritto d’autore, a quello del copyleft, del “permesso d’autore”, in cui il creatore di un’opera, nel momento in cui la rilasciava liberamente in Rete, non ne perdeva la paternità o la maternità morale (e nemmeno il diritto allo sfruttamento economico, quando passava alla fase commercializzazione). Al contempo anche i fruitori di quell’opera venivano – e vengono – strappati alla loro monodimensione di utenti per vedersi riconosciuti diritti che vadano oltre il bieco “consumo”. Creative Commons e la relativa fondazione creata dal docente di Stanford Lawrence Lessig, che nella seconda metà degli Anni Zero è passato a temi politici e alla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione, ne sono l’aspetto più formale e formalizzato perché si sono posti un obiettivo rilevante: fornire strumenti legali che tutelino autori e destinatari di un contenuto da abusi, compresi quelli che potrebbero derivare dalle major dei contenuti. La libertà va protetta, oltre che diffusa.
L’etica hacker, pur declinata con le differenze del caso, è la linea che sottende questo eterogeneo panorama di attivista della vecchia guardia o della guardia recente. Oggi si torna ai quei tempi lì, a quelli degli eroi della frontiera digitale, spinta più in là negli ultimi anni da Wikileaks e da Julian Assange, che stanno pagando ad altissimo prezzo la viscerale volontà di fornire informazioni e documenti riservati in modo che i cittadini abbiano sempre più conoscenza della natura dei sistemi politici ed economici in cui vivono. E la frontiera viene spostata ulteriormente da Anonymous che, a differenza di Wikileaks, fa delle penetrazioni e degli attacchi informatici una pratica di militanza quotidiana.
La lotta “hacktivista” per un ideale, insomma, che passa dall’informazione che vuole e deve essere libera. Richard Stallman e molti come lui, compreso il repubblicano Lessig, sono stati definiti comunisti o, in termini meno perentori, almeno di sinistra. Se non è vero per i due leader dei movimenti copyleft americani, non è vero nemmeno per Anonymous, che non è la riproposizione digitale di una divisione di sfondamento dell’Armata Rossa. Anonymous non ha colore politico, semmai può essere definito forse un “altermondista digitale” o un “movimento proteiforme”, come lo hanno dipinto gli studiosi francesi di comunicazione online Frédéric Bardeau e Nicolas Danet, e ancora prima è privo di struttura. Niente gerarchie e niente capi.
Semmai si può dire che sia diviso in cellule più o meno piccole che perseguono specifici obiettivi. Tutt’al più esistono responsabili di queste cellule, portavoce dei singoli gruppi o, meglio, “primis inter pares”, a cui è demandato il compito di occuparsi del coordinamento. Ci sono gli anonimi brasiliani che si battono soprattutto contro la corruzione, gli austriaci, i tedeschi e gli italiani con connotazioni antifasciste, i belgi che hanno compiuto azioni di forte carattere sindacale, come le proteste per la difesa di posti di lavoro e stipendi alla ArcelorMittal, industria siderurgica che ha sede a Liegi. In Francia tra gli obiettivi principe c’è stata la sede di Hadopi, acronimo Haute Autorité pour la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur l’Internet, l’autorità a cui è demandato il compito di far rispettare una legge approvata Oltralpe nel 2009 ed entrata in vigore l’anno successivo le cui conseguenze, in caso di violazione del diritto d’autore, possono arrivare fino alla “disconnessione forzata” da Internet.
Per entrare in Anonymous non ci sono domande da inoltrare, non ci sono selezioni e dunque non ci sono nemmeno esclusioni. Così diventa impossibile stabilire a priori chi sia chi, se un autentico idealista, un infiltrato o un agitatore. All’interno c’è consapevolezza di questo, ma quasi si facessero spallucce rimane fondamentale lo scopo primo che ha portato alla nascita di Anonymous: scalzare i verticismi. E vige un’imprescindibile regola da non violare: non bersagliare i mezzi d’informazione, qualsiasi sia il medium che rappresentano, perché se vuoi liberare la parola, non puoi attaccare chi la parola la esercita, a merito o meno, in veste professionale. In realtà c’è poi anche un’altra norma fondamentale, presa a prestito dal romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk: “La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club. La seconda regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club”. E lo strano collettivo che si aggira per la rete la ripropone ritagliandola su di sé.
I suoi obiettivi Anonymous li definisce poi in base alla motivazione, previa verifica della reale esistenza di una ragione per cui colpite. “Se non c’è motivazione”, ha detto ancora l’Anonymo alle Iene, “non c’è operazione”. E nelle ragioni di un attacco non c’è solo la violazione del diritto all’accesso alle informazioni, che pur rimane in testa a una graduatoria che definisce la priorità delle ritorsioni. La difesa diritti umani, la lotta alla criminalità più schifosa (a iniziare dalla pedofilia e dalla pedopornografia), la punizione per la dignità offesa delle persone comuni, il rispetto dell’ambiente più in generale rientrano nelle istanze da cui prendono le mosse gli hacktivisti di cui ci occupiamo. E sì, gli Anonymi sono consapevoli di commettere a propria volta un reato, ma le incursioni elettroniche, talvolta, a loro avviso sono l’unico strumento a loro disposizione.
Tornando al no alla censura, come si è visto, senza alcuno spazio a discorsi ulteriori, ci sono azioni come la reazione alla chiusura di Megaupload, che concentrava il quattro per cento del traffico dati a livello mondiale, in nome del sacro verbo, tanto per cambiare, del diritto d’autore. Non tutti i contenuti che venivano scambiati su quel sito erano illegali e violavano le norme. Per qualcuno che lo faceva, tanti o pochi che fossero, ce n’era molti altri che le regole le rispettavano. E poi, anche sui contenuti full copyright, per Anonymous (e per tanti utenti meno agguerriti) un discorso di stallmaniano insegnamento è di chiedere un equo compenso, a cui ciascun creatore di un’opera dell’intelletto ha diritto, un altro lucrare puntando all’unico obiettivo dei profitti. Il discorso non è dunque la collettivizzazione dei contenuti, in una sorta di deregolamentazione selvaggia in cui ognuno prende e arrivederci e grazie. Il nodo per cui si batte Anonymous è più simile a quello del reddito garantito: poco semmai, ma da tutti, in modo che tutti ne traggano un beneficio. Un welfare dell’intelletto che contribuisca a una crescita collettiva, sia dal punto del patrimonio delle conoscenze che dell’economia circolante. Più pionieri della nuova frontiera digitale non si potrebbe.