Suddivisa in due post, la storia di Alceste Campanile (qui la prima parte) è andata incrociandosi a quella di Carlo Saronio su cui si basa il prossimo libro in uscita a novembre, “Pentiti di niente” (più avanti ulteriori informazioni, al momento si è ancora in fase di impaginazione). Tangenziale alla vicenda dell’ingegnere milanese sequestrato a Milano nel 1975, vi si intreccia a causa delle parole di sedicenti collaboratori di giustizia, ma si scoprirà – almeno questo – che la fine del militante di Lotta Continua di Reggio Emilia con il caso Saronio davvero non c’entrava nulla.
Per avanzare nella ricostruzione dell’omicidio si devono anche ripercorrere le ultime ore di vita del ragazzo. Il giorno in cui Alceste muore era stato a Bologna dove doveva dare un esame, inglese, che supera brillantemente con il massimo dei voti. Una volta che il trenta viene trascritto sul libretto universitario, va alla stazione del capoluogo e prende un treno per tornare a Reggio Emilia, dove arriva intorno alle 17, e rientra a casa. Poco dopo le nove e mezza esce di nuovo. “Vado a fare un giro”, dice ai genitori, e diversi testimoni affermano di averlo visto intorno alle 22 in piazza Camillo Prampolini. Quella sera infatti si sono radunati alcuni ragazzi che si mettono a suonare e a cantare. Alceste gironzola, saluta, scherza, si ferma a chiacchierare con qualcuno e finisce per dare appuntamento a un gruppo di amici per mezzanotte: si vedranno allo Ziloc, un locale nel quale ogni tanto tiravano tardi. Ma sui movimenti del giovane c’è anche chi racconta un’altra storia: quella sera non era a Reggio, ma a Sant’Ilario, nei pressi di una pizzeria, e con lui c’erano persone sconosciute.
Da qui in avanti le voci si rincorrono, si contraddicono, non si trovano conferme a una versione o all’altra. Insomma non si riesce a capire come Alceste Campanile ci sia finito su quella strada provinciale dove poi verrà ammazzato. La situazione è talmente confusa che quasi quattro anni più tardi, sul numero di Lotta Continua dell’11 febbraio 1979, due pagine rievocheranno la sua storia e Marco Boato, uno dei fondatori del quotidiano e suo editorialista, scriverà un articolo in cui afferma: “Chi sa parli, l’omertà è uno stile mafioso, il comunismo non ha niente a che vedere con la mafia”.
A tutto questo fumo si aggiunge anche un’altra “pista”, quella che lega l’omicidio di Alceste Campanile al sequestro e alla soppressione di Carlo Saronio. Qual è l’origine del cortocircuito? L’origine è il “professorino”, Carlo Fioroni, che nel 1979 si trova rinchiuso nel carcere di Matera proprio per la fine che fa fare all’ingegnere milanese. Senza mai formulare affermazioni, ma ponendo sempre la sua versione in termini di ipotesi, racconta che il buco nella bombola del gas della Fiat 124 che porterà Franco Prampolini, Maria Cristina Cazzaniga e i 67 milioni del riscatto da riciclare in Svizzera sia stato praticato in un’officina di Reggio Emilia e anche se la circostanza viene smentita in fase di dibattimento (il foro verrà fatto a Milano e nessuno dei presenti sapeva che il malloppo derivasse dal sequestro Saronio) la voce che collega Campanile a Saronio continua a circolare: Alceste poteva essere venuto a conoscenza di qualcosa, avrebbe potuto parlare inguaiando i responsabili del sequestro e dunque per questo sarebbe stato eliminato.
Questa congettura, che prenderà il nome della “seconda pista rossa”, però già contiene una serie di contraddizioni: quando Fioroni viene arrestato a Lugano per quella la leggerezza di contare il denaro appena riciclato in un parco pubblico di fronte ad occhi estranei, nessuna delle persone effettivamente coinvolte viene uccisa. Casirati fugge all’estero arrivando alla fine a Caracas, De Vuono girovaga, Piardi invece continua a sfoderare la sua vita da neo-arricchito senza preoccuparsi di poter essere collegato all’omicidio. In tanti della banda al massimo cambiano nome, si procurano documenti falsi, ma a eccezione di chi si dà alla latitanza nessuno ammazza nessuno per timore che racconti alla polizia come esattamente si sono svolti i fatti nel sequestro Saronio.
Insomma, la fase istruttoria per questo omicidio è tutt’altro che semplice: tra estremisti di destra e di sinistra, terroristi e criminali comuni c’è già di che penare. Figurarsi poi quando il processo da Reggio Emilia deve trasferirsi ad Ancona perché nelle indagini ci finisce anche un magistrato. Ma il passaggio nel capoluogo marchigiano inizia a produrre i primi risultati o quantomeno fa piazza pulita delle piste investigative sbagliate: fuori dall’indagine infatti sia i fascisti che i comunisti, non c’entrano con quella morte. Ma per molti anni non sarà possibile procedere oltre: si arriva a un punto morto e l’omicidio di Alceste Campanile va via via assumendo i connotati del caso irrisolto.
Almeno fino al 1999 quando spunta la “seconda pista nera”. A indicarla è un ex neofascista reggiano, tale Paolo Bellini, uno considerato vicino agli ambienti di Avanguardia Nazionale, organizzazione fondata nel 1960 da Stefano Delle Chiaie e disciolta nel 1976: era infatti finita sotto procedimento giudiziario perché accusata di ricostituzione del partito fascista dopo un processo di avvicinamento con Ordine Nuovo di Pino Rauti per perseguire fini golpistici e terroristici. Tornando a Bellini, nel 1976 prima si dà alla latitanza riparando in America Latina e poi ricompare in suolo patrio venendo intercettato a Pontassieve, in provincia di Firenze, mentre è alla guida di un camion che trasporta mobili rubati. Fermato, è identificato – e non smentito – come Roberto Da Silva e con questa identità finisce in galera: per giungere al suo nome vero sarebbe stato necessario confrontare le impronte digitali che gli vengono rilevate con quelle già archiviate in occasioni precedenti. Ma il suo cartellino segnaletico – si scoprirà più avanti – è andato perduto. Scomparso.
Bellini-Da Silva è uno che ha conoscenze pericolose: tra queste c’è per esempio quella di un mafioso, Antonino Gioè, che non è un nome qualunque di cosa nostra. Finito prima nel mirino di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo assassinato il 21 luglio 1979, si suiciderà in cella il 28 luglio 1993 lasciando un biglietto sul quale aveva scritto “Io sono la fine di tutto”. Uomo appartenente al clan dei corleonesi, è colui che poco più di un anno prima si infila in un cunicolo sotto l’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi conduce al capoluogo siciliano per piazzare una carica esplosiva che farà saltare per aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. È la strage di Capaci del 23 maggio 1992.
Dopo la conoscenza tra i due, Bellini cambia approccio e si autoaccusa di una decina di delitti, non sa quantificarli nemmeno lui con precisione, alcuni dei quali commessi per conto della ‘ndrangheta calabrese e qui fa i nomi dei mandanti. Il primo però di questi crimini lo ha fatto da sola, è roba sua, e dice di essere proprio lui l’assassino di Alceste Campanile. Nella ricostruzione che fa di quell’omicidio, racconta che la sera del 12 giugno 1975 stava percorrendo la via Emilia. O forse era sulla provinciale che da Reggio conduce a Montecchio. Non sa di preciso. Incontra Alceste per caso mentre sta facendo l’autostop, gli dà un passaggio perché i due si conoscono già dai tempi della Giovane Italia e iniziano a chiacchierare.
Ma a un certo punto la conversazione prende una piega politica. Bellini infatti porta la discussione sul recente tentativo di Alceste di bruciare l’albergo di suo padre e, sempre secondo l’avanguardista, a questo proposito non ha dubbi perché l’ha beccato lui Alceste con una tanica di benzina in mano. “È l’albergo di un fascista e sta’ sicuro che ci riprovo”, avrebbe detto il ragazzo a Bellini. Il quale a quel punto si fa assalire dai fumi della rabbia, ferma l’auto, trascina giù Alceste e gli spara alla testa e al torace. Dunque, secondo questa ricostruzione, dietro l’omicidio non c’è nessuno scopo apertamente politico, ma è frutto di un alterco occasionale, non c’è premeditazione. Interrogato a più riprese, Bellini insiste nella sua ricostruzione: ha agito da solo, le perizie balistiche dicano quello che vogliono.
A una prima sentenza su questo omicidio si arriva solo il 30 ottobre 2007 e con essa arriva anche l’amarezza perché Bellini è riconosciuto colpevole dell’omicidio ma il reato è prescritto proprio per l’assenza di premeditazione e se resta in carcere è solo perché nel frattempo è stato condannato anche per altri reati. Insomma, non ci saranno punizioni per l’omicidio commesso nel lontano giugno 1975 e le complicità di altre persone (ci sono quattro presunti complici) non sono provate e dunque gli imputati andranno verso il proscioglimento contro il quale le parti offese, la madre di Alceste e il fratello, non hanno presentato opposizione.
A conclusione di questa vicenda va detto che le ragioni politiche non hanno ancora abbandonato l’orizzonte dei fatti. In un articolo pubblicato sulla Gazzetta di Reggio il 10 aprile 2008, “Bellini mente, la pista giusta è rossa”, viene riportata all’inizio la dichiarazione di Emanuele Campanile, zio di Alceste, secondo il quale “Bellini è credibile per chi gli vuole credere”. E prosegue: “Molti legittimi e ben fondati dubbi sulla credibilità di Bellini sono stati espressi dall’onorevole Mauro Del Bue nella sua ottima ricapitolazione della storia di Alceste […]. «Restano fondati dubbi su un’autoaccusa improvvisa non richiesta e funzionale a un po’ troppi benefici» (Bellini chiese la scarcerazione perché collaboratore di giustizia). Basta leggere l’analisi di Del Bue per convincersi che Bellini non è credibile. Uguali dubbi sono stari espressi da Paolo Ricci, l’amico più intimo di Alceste, nella lettera da lui sollecitata da Willer Barbieri, e da Carlo Lucarelli3. Questi, inoltre, solleva inquietanti quesiti che non hanno avuto riscontro nel processo di Bellini perché niente affatto considerati dal pm e quindi tuttora irrisolti e validi. Io, com’è ben noto, non ho mai creduto a Bellini perché le sue «storie» non hanno alcun fondamento o merito di credibilità”.
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